Inediti coevi a "La buona solitudine"

Forse un giorno un'allegra brigata

di quei figli della luce che se ne vanno abbracciati

sui marciapiedi ombrosi, passeggiando

beffardi o nel segreto delle stanze

ridono del mondo con le belle

compagne sdegnose che pure

hanno negli occhi il riso di una fragile

verginità, scoprirà che io non ero

mai esistito, pura larva labile.


Certo avranno da ridere, pensando

a me che me ne andavo sulle mie gambe incerte

con sguardi e passi di pagliaccio triste, ed ero

così scialbo nel fare e nel vestire.

Poi rideranno, certo, del nascosto

mondo, del mondo di ciò che non esiste

e non esisterà mai –

ridendo con un largo

riso di idioti come quando parlano

di un qualche loro frivolo mistero.


E spariranno ancora nell'uguale

mondo che esiste, vivi li vedrete

balzellare fra le alterne luci

delle feste come bolle d'aria.


DOPO UNA VISITA ALLA ROCCA SFORZESCA


Oggi le chiare risa dei ragazzi

gonfiano alte il suo deserto cuore

di grigia pietra, e dolce il vento porta

la primavera tra le vaste mura

dove un tempo fu sangue, e pianto, e atroce

stridio di lame, e grida di assediati

scossero l'aria, e il suo severo nome

gridò cupa la voce del cannone

e la gelida pietra accolse muta

buio pianto di antichi prigionieri


E la deserta pace dei giardini

cui sono madre e culla, intorno a lei

le ferite profonde della terra –

e l'ombra che nel ventre dei bastioni

avvolge assorta antiche spade opache

fasciate dal vetro e dalla polvere –

con gesto interminabile e benevolo

ci additano una Morte

innocente, un sereno e mite Nulla –

dolci e indecisi come ombre di sogni,

lontani come isole irraggiunte

o fragili ricordi

che l'oblio nel suo eterno abbraccio stringa


IL CANTO DEL CIECO


I


Io sono il cieco


Per migliaia d'anni

ho camminato nella notte nera

che il vostro giorno quieto vi nasconde


Ma voi temete il nulla che ho veduto

e il silenzio che ho udito, e le parole

oscure che tremanti

tacquero caute le mie antiche labbra –

ma voi fuggite il tenebroso abisso

della mia bocca, e la segreta luce

che le mie vecchie palpebre nascondono


Io sono il cieco, quello che tormenta

gli insonni, ride in fondo all'ombra, turba

il silenzio, striscia rapido nei sogni –

io sono il cieco, quello di cui narrano

ai bambini le vecchie vaghi orrori


II


Io vengo da un paese

remoto, senza sole, che la pioggia

e il vento avvolgono senza respiro

e bieca attrista una perpetua notte


A lungo ho camminato, timorosi

i miei tremuli passi hanno solcato

silenziosi sentieri sconosciuti –

sentivo, a volte, tra le selve, un canto

di fanciulla che rischiarava l'aria, un riso

di bimbi, un quieto croscio d'acqua chiara

che blandiva nascosto la mia sete –

sognavo, a volte, di ascoltare, in vasti

spazi che traboccavano di luce

celati dietro le mie chiuse palpebre

un verde riso di odorosi prati

e di assolate alture

e i miei occhi suggevano dal cielo

il caldo miele della primavera –

ma una meta inseguivo, balenante

e fuggevole, un sogno doloroso

e crudele, e ancora non ho pace


III


Mi derisero i candidi profeti

che sereni sedevano nel tempio

e gli uomini che seri li ascoltavano

e i fanciulli, e le donne dolci e gaie

quando videro me, vecchio ed esausto

brancolare nel vuoto


Oh quante volte, chino sulle carte

tormentose, gli occhi arsi dalla veglia

la vecchia mente intesa ad inseguire

le parole che flebili e fugaci

mi danzavano intorno, mi ronzavano

all'orecchio perfette e irripetibili

e fuggivano leste e capricciose

nel silenzio dei secoli e del cosmo –

o in certe notti senza luna, immense

e spaventose, in cui giacevo trepido

e tendevo l'orecchio, inebriato

al roco riso dei fantasmi, al pianto

luminoso degli astri

ai cammini lontani dei pianeti –

pregai, implorai la mia Deità nascosta

di piovermi dal cielo la suprema

Ignoranza che altera mi deride

nel gioco dei fanciulli, nelle grida

gagliarde dei mercanti, nel segreto

e soave bisbiglio delle donne

e nel riso beato degli idioti –

e sordo, o assente, il Nume oscuro tacque


IV


Io credetti talvolta che si aprisse

tra i muri freddi e ruvidi, una porta

e che una mano mi sfiorasse, tenue

come di donna, trepida e amorosa


Udii calde parole, il crepitare

quieto di un fuoco, un morbido tepore

come di nido, di giaciglio –

e volli

confondermi per sempre tra i capelli

e gli occhi e il riso della bella bocca

da cui illuso sperai riposo o pace –

finché si sciolsero le vaghe nubi

del mio sogno, e di nuovo

mi chiamò a sé la lunga via crudele


V


E come in sogno io vidi, tra remote

pianure in cui i miei occhi si perdevano

e i miei passi indugiavano sgomenti –

io vidi un caldo fuoco, una lontana

fiamma che danzava sull'abisso


Parola non conosco che risusciti

la voce luminosa che io sentivo

chiamarmi, nella notte, dalle tenebre –

io credetti di udire, accanto al fuoco

un festoso tumulto, un caldo coro

di voci sconosciute, un motteggiare

d'uomini, colmo di una gaia forza –

io sentii donne e uomini e fanciulli

domandare il mio nome, la mia meta


Lungamente risposi, timoroso

nel silenzio rovente dell'attesa –

e un riso avvolse il mio oscuro parlare


VI


«Ecco, adesso io vi prego di ascoltarmi –

mi fermerò fra voi per riposare

le vecchie membra un poco, e con la mesta

debole voce che mi resta tutto

dirò a voi ciò che io vidi

nel breve lume che strappai alla notte


Forse vano il mio viaggio, forse vane

le mie pene per voi furono, e stolte –

forse voi non vorrete

ascoltarmi, ché lontani vi invocano

il gioioso fragore delle danze

e i colori infuocati della fiera

e il bagliore dei fuochi d'artificio

estenuerà le vostre molli palpebre

e indurrà i vostri occhi al dolce sonno –

forse nemmeno mi comprendereste

tanto oscuro e straniero è il mio parlare


Parlerò a lungo, a lungo, fino a quando

mi rapirà la mia perpetua Notte»