(Questo scritto riprende e fonde due diversi interventi: «Il Nuovo Giornale dei Poeti», settembre 1996, p. 6; «Il Nuovo Giornale dei Poeti», gennaio 2004, p. 8)
Giorgio Bàrberi Squarotti, largamente quanto meritatamente esaltato per le sue doti di critico e storico della letteratura, forse non è ancora stato adeguatamente valutato per la sua opera poetica, peraltro copiosissima.
Proprio la sua intensa attività di storico e critico – unitamente al carattere intrinsecamente “colto” e “letterario” della sua produzione in versi, che gli ha valso l’appellativo di “poeta della letterarietà” – potrebbe far sorgere in qualcuno il sospetto che la sua poesia risenta in qualche modo di un eccesso di erudizione, di ricercatezza, di superficiale virtuosismo, difetto che a torto si ritiene proprio, senza eccezioni, di tutte le espressioni della cosiddetta “poesia dei professori”.
Ad un interprete accorto, in realtà, non potranno sfuggire da un lato gli stretti legami che connettono la poesia di Squarotti con la sua esperienza di critico – a tal punto che, a mio avviso, la piena comprensione di quest’ultima non può prescindere dall’attenta analisi della prima –, dall’altro la particolarissima accezione, assolutamente scevra d’ogni ombra d’accademismo e di pedanteria, in cui è da intendere l’espressione “letterarietà” se riferita ai suoi versi.
“Deve essere chiaro che l’operazione critica non può che, essenzialmente, risolversi nell’indagine interna dell’opera, come tentativo continuo di scoprirne le ragioni strutturali, gli elementi portanti, che la costituiscono e la distinguono nella sua completezza distesa e continua, nella sua specificità testuale. (...) Si tratta di un’indagine estremamente specifica, che ha una naturale ragione intrinseca, non comprendendosi perché la ricerca letteraria debba essere sottomessa a princìpi esterni a essa, debba ricorrere a schemi estranei, dal di fuori, che ne turbano, sconvolgono, distruggono la precisione e la positività”. (1) Queste righe, tratte da un saggio uscito nel 1966 ed intitolato Critica come struttura letteraria, sintetizzano con mirabile chiarezza i presupposti teorici che stanno alla base dello strutturalismo barberiano; vi è altresì la preoccupazione di fissare coordinate metodologiche che, in un momento storico incerto e tumultuoso, che era o sembrava di cruciale importanza non solo per le sorti della letteratura, potessero venire incontro all’”esigenza fondamentale di impedire la mercificazione della critica”, garantendone la libertà e l’autonomia rispetto alle esigenze del mercato e al pesante condizionamento delle ideologie.
Proprio sotto questo punto di vista le idee-chiave della produzione critica del nostro autore – intento ad affermare “la concezione della letteratura come ‘alterità’ rispetto al reale fenomenico e storico-sociale”, a “distanziare la figura del poeta da quelli che apparivano i nobili imperativi della coscienza civile, di adesione al tempo tra pietà, disinganno e attesa”, e a “mantenere alla libertà espressiva la protezione dell’artificio” (Spagnoletti) (2) – si sposano perfettamente con il carattere “letterario” che, come si è detto, è proprio, in certa misura, della sua poesia. “Ci si immerge nella più totale letterarietà che, in tutto, deve liberare il poeta dalla polvere, dai bagliori, dalle lordure, dagli inganni della realtà. (...) Il distacco dalla realtà assume i caratteri di una scelta necessaria, perché causata dall’orrore per la storia che è, essenzialmente, un eterno trionfo della violenza” (Gros-Pietro). (3) In questo senso i frequentissimi richiami di carattere letterario ed erudito che popolano la poesia di Squarotti – pur assumendo di rado, è bene sottolinearlo, l’evidenza e la consistenza di citazioni testuali dirette –, accostati, contaminati e sovrapposti con grande perizia combinatoria e attinti dalle più varie e remote sorgenti della cultura occidentale – da Dante alla mitologia greca al vasto repertorio di immagini bibliche vagliato dall’allegorismo medievale –, vengono a definire e circoscrivere quella dimensione di astrazione, di idealizzazione e di “lontananza” in cui si sustanziano, nel dominio della poesia barberiana, lo specifico e la funzione della letteratura.
Questa modalità d’uso delle “fonti” letterarie – creativa, spregiudicata, talora addirittura parodica e dissacrante – può ricordare per certi aspetti la tecnica del “collage” che dà vita a parte dei Cantos poundiani – sortendovi uno straniante effetto di “giustapposizione frenetica di tutte le tradizioni”, secondo un’efficace formula di Vittorio Vettori –, per altri l’atteggiamento in cui certi poeti neogreci si pongono rispetto al loro glorioso ma ormai lontano passato – e qui penso non tanto all’elegante e parnassiano alessandrinismo di un Kavafis, quanto alle dense, inquiete, straniate rievocazioni storiche e mitologiche di un Seferis, le cui statue e le cui rovine sembrano vegliare, tra muto rimprovero e desolata, divina solitudine, sulla miseria del presente. Tra i possibili “modelli” della poesia barberiana è stato indicato da alcuni, specie per quanto riguarda La declamazione onesta (Milano 1965), Dylan Thomas (4).
E’ indubbiamente possibile che il poeta gallese abbia offerto a Squarotti “qualche suggestione”, come dice il manuale citato. Ad esempio, la “folla di immagini” da cui – secondo la definizione data dallo stesso autore in una sua lettera ad Henry Treece – prende le mosse ogni lirica di Thomas, e che si espande e si moltiplica senza freni, spesso prescindendo da ogni plausibile e comprensibile nesso logico, può essere accostata al frequente ricorso, da parte del nostro poeta, a quell’”enumerazione caotica” tanto comune nella poesia novecentesca, specchio fedele del caos, dello smarrimento, del vuoto e dissonante fragorio che sono propri della realtà contemporanea: si veda, a riprova, il folgorante attacco della lirica In questo tempo (“E’ questo un tempo di doppia verità. / I lunari, le regole, i proverbi, / la fede non discussa, la sillaba ignara, / l’ingenuità della foglia e del ramarro, / l’osso dell’ittiosauro e la mansuetudine del liocorno, / la parola comune e il sigillo coi segni sconosciuti, / sono l’ambigua lingua che parliamo”). Qualche riscontro può essere dato anche dalla presenza, nella poesia del gallese, di antinomie archetipiche ed elementari (nascita/morte, luce/tenebre ...), che vi ricorrono ossessivamente (basti pensare a testi come Light breaks where no sun shines o The Conversation of Prayers), e che possono aver trovato eco in certe espressioni della poesia di Squarotti (ad esempio “le parole d’ordine sono uguali e contrarie / come il crepuscolo dell’alba e quello della sera, / la verità e la menzogna sono nella luce e nelle tenebre”, sempre nel testo citato), ove peraltro tendono a tradursi – specie nella Declamazione onesta – in efficaci e calibrate antitesi, organizzate attraverso un sistema di pluralità e correlazione che trova riscontro nel petrarchismo cinquecentesco, se non già nel parallelismus membrorum tipico della poesia biblica, che già aveva irresistibilmente suggestionato Walt Whitman.
Ma, al di là di questo fitto e difficilmente districabile reticolo di “suggestioni”, la poesia del nostro autore si distingue da quella di Thomas per una sorta di “costanzia della ragione”, che trattiene la “folla delle immagini” dal debordare ed espandersi senza freni e senza nessi logici, nonché proprio per i “valori etici” che esprime, secondo le parole degli stessi manualisti, “in polemica col costume del nostro tempo”, mentre la poesia del Thomas - senza che, ovviamente, questo implichi un giudizio valoriale negativo - si risolve spesso, con il suo calcolato rigoglio di metafore alogiche e di fascinazioni puramente sonore, in un virtuoso esercizio formalistico, del tutto scevro d’impegno morale.
La poesia di Squarotti, intenta com’è a tenere costantemente attiva, con il suo spesso e compatto sostrato erudito – peraltro mai esibito e compiaciuto –, la “protezione dell’artificio”, rappresenta così la più completa e vivida esemplificazione, o forse addirittura anticipazione, della nozione di “autogenesi della letteratura”, che solo all’inizio degli anni ottanta ha timidamente iniziato ad apparire all’orizzonte degli studi di teoria letteraria.
Come scrive il romeno Adrian Marino nella sua monumentale Teoria della letteratura, che solo da pochissimo si può leggere per intero in traduzione italiana, “pensata e situata nel suo proprio contesto, la letteratura appare come il prodotto diretto della letteratura, ossia della cultura letteraria, come suo effetto immediato, nel senso più diretto, concreto e ‘testuale’ della parola. Il momento genetico essenziale è questo. Fenomeno di autogenesi, osservato da tempo empiricamente, fin dalle prime riflessioni sulla letteratura, la sua teorizzazione (...) porta a una nuova accezione della letteratura, ancora poco usuale”. (5)
La poesia di Squarotti – per usare un tipo di terminologia caro, in sede critica, proprio al nostro autore – è dunque sostanzialmente una forma di “metapoesia”, di poesia che nasce dalla e sulla poesia, calandosi in una dimensione concettuale ed ontologica ciclica ed autotelica, che travalica, nell’assoluto della Bellezza, ogni delimitazione spaziale e temporale. Ma l’assolutizzazione e l’idealizzazione a cui la poesia perviene grazie alla sua letterarietà non fanno, in ultima analisi, che mettere capo ad una sorta di kafkiana “rivelazione negativa”, per mezzo della quale si chiarisce come, una volta valicato l’angusto dominio dell’esperienza sensibile, si pari innanzi agli occhi dell’uomo la desolante visione della Morte e del Nulla. “La storia, fuori da ogni strascico romantico, non ha proprio niente a che fare con Dio, se non per costituire un alibi ai ‘signori del mondo’, scagionandoli da responsabilità.” (6) Quello che compare nei versi del nostro autore è un Nulla agglutinante e vorace, che dopo la sua rivelazione non risparmia più neppure la stessa letteratura, visualizzata, nella poesia I libri, con la delicata immagine - ricorrente, nella poesia di Squarotti, con frequenza ossessiva, e sempre in contesti di raffigurazione allegorica – della “ragazza nuda, sorpresa mentre contempla / nel tremolio delle acque il tremito del corpo / troppo ancora bianco nel primo sole dell’aprile”.
La letteratura – sembrano dire questi versi – si rivela “ingenua”, fragile e vulnerabile proprio quando, come Narciso, contempla oziosa le proprie perfette e immacolate forme, quando cioè vengono “messe a nudo” le modalità del fragile ciclo autogenetico che sta alla base della sua nascita e della sua sopravvivenza. La poesia in questione prosegue con il rapido accenno al duello tra la Morte e la Moda – riduzione antieroica e sottilmente ironica della Fama, prosopopea consueta nella tradizione allegorica, e, nel contempo, immagine suggerita da un’evidente suggestione leopardiana –, duello che, si intuisce, si risolverà in favore della prima. “Lodatemi per quel che non ho scritto e avrei potuto / scrivere, chiese alla fine citando / a memoria, e bruciò la sua vita in mille / falò nel prato di Monforte, non i libri, non / i libri nei quali è noto che non c’è nulla se non morti / e qualche verità non molto utile”. Il vitale ciclo autogenetico della letteratura rivela la sua precarietà proprio a partire dall’elemento che solitamente lo innesca e lo perpetua, vale a dire la citazione, in questo caso – per quanto falsata e mimetizzata da una “memoria” ormai annebbiata e precaria – gozzaniana (“non amo che le rose / che non colsi. Non amo che le cose / che potevano essere e non sono / state ...”).
Nei libri, dunque, non si trova, almeno agli occhi della collettività (“è noto ...”), che “qualche verità non molto utile”; il poeta, per implicita conseguenza, viene relegato ai margini della società. Questa affermazione potrebbe indurre qualcuno a collocare Squarotti sulla scia della gozzaniana “vergogna d’essere poeta”, o magari del clownismo palazzeschiano – atteggiamenti, del resto, comuni a molta della migliore tradizione lirica primonovecentesca. Tuttavia, al di là di qualsiasi peraltro elementare considerazione di carattere strettamente stilistico e letterario, i tratti che differenziano la poesia barberiana da questi possibili modelli risulteranno evidenti se consideriamo l’amara – ma attenta e meditata – concezione del rapporto tra intellettuale e società che è parte integrante della poetica di Squarotti, e che trova mirabile espressione nel disincantato ed ironico Ritratto di intellettuale (Lacaita, 1980). “L’intellettuale organico / la classe – diceva discutendo (ma con chi, con il tenue vento / sempre più chiaro e molle, con gli alberi, con la timida / coppia che si bacia stretta contro il muro e si accarezza, / con l’indiano che si sporge dai cespugli e lancia / frecce e grida contro la fine del tramonto e / il rifugio opportuno della notte, con l’erba che / si piega appena sotto fughe leggere e i corpi / quietamente distesi)” (XXV). Alla luce di versi come quelli appena riportati - agitati da una straordinaria concitazione immaginifica e visionaria – appare evidente che “nella poesia barberiana il mondo è in continua metamorfosi illusoria, in quella che è poi una caratteristica di fondo per tutta la sua poesia: l’immobilità del moto illusorio, il continuo gioco dello specchiarsi delle cose”. (7)
Siamo oramai di fronte ad una realtà ridotta a “dominio del nulla dove tutti / (...) abbiamo un posto inutile” (XXXIX), e a tal punto disarticolata e sbriciolata, per opera di un completo e selvaggio relativismo culturale - “è questo un tempo di doppia verità”, aveva già scritto Squarotti in una raccolta del 1965, La declamazione onesta –, da arrivare ad assumere la distorta fisionomia di un’allucinata visione onirica, in cui eventi ed immagini di ogni sorta si affollano senza alcun ordine intelligibile e controllabile. In tale contesto la voce dell’intellettuale – “organico / la classe”, secondo una terminologia cara alla sociologia e alla critica di indirizzo marxista e qui ripresa in chiave ironica – cadrà immancabilmente nel silenzio e nell’indifferenza, pur continuando, ostinatamente e generosamente, a levarsi.
Lo stesso tessuto stilistico della poesia, non più obbligata, anzi addirittura impossibilitata, a farsi portatrice di messaggi e di ideologie largamente comprensibili e partecipabili, finisce, in quest’opera, per dilatarsi e tendersi allo spasimo, fino alle più dolorose e sconcertanti lacerazioni: la sintassi diviene tortuosa, astrusa, arbitraria, e l’inconfondibile verso libero barberiano – generalmente lungo, calmo e pausato, capace di allargare la scansione ternaria dell’endecasillabo tradizionale fino ad accogliere duttilmente al suo interno le pieghe e gli anfratti di un ampio ed articolato sviluppo diegetico, con esiti che possono ricordare, in certa misura, quelli di certa poesia pavesiana – in quest’opera viene sottoposto ad un sistematico processo di rottura e disarticolazione, attuato soprattutto attraverso l’impiego sistematico delle più ardite forme di inarcatura, finendo per non essere più riconducibile, nemmeno per scomposizione o giustapposizione, ad alcuno degli schemi metrici tradizionali.
All’intellettuale e al poeta, ormai ignorati dalla collettività, non resta che coltivare una sorta di rassegnata “astensione virtuosa”, la cui proclamazione, nei versi che seguono, è rafforzata, secondo il solito schema autogenetico, da un lampante riferimento a Dante (Inferno, III, 22-69): “non tenne molto posto, non gridò per le piazze, non / offrì i suoi versi per gli alberghi di Venezia o per le case / dei Signori delle anime, non seguì stendardi in mezzo a / schiere morse dalle mosche e dai vermi” (VI).
E’ questo il prezzo che la Poesia deve pagare per conservare, protetta dall’artificio, la propria libertà.
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“Nell’orto, il vecchio professore strappa / la gramigna, le radici delle viti / selvatiche, ossa e crani un po’ sbrecciati, / poi il turgore ardente per coltivare / delle fragole, la fragilità / candida di un ciliegio (…) / e tutte le altre immagini del tempo / che egli crede con la primavera / trionfalmente si rinnovi”. Tuttavia, il suo sforzo è vano; il tempo che egli cerca di rivisitare e far proprio “non esiste”, esiste solo “l’”attimo eterno” - simile all’istante fuggitivo invocato dal Faust goethiano, o magari al kairós, al dies della lirica classica - in cui avviene la subitanea, quasi miracolosa epifania della bellezza.
È con questa sorta di disincantato “ritratto dell’artista da vecchio”, calato in uno scenario simbolico che può richiamare alla memoria tanto l’immagine manzoniana della vigna di Renzo ridotta a sterpaio - emblema del “guazzabuglio del cuore” e, in pari tempo, di una stagione storica contraddittoria e convulsa com’è, del resto, anche quella odierna -, quanto il leopardiano “giardino della souffrance”, ricettacolo di tutte le crudeltà e gli aborti della Natura matrigna, che si conclude la raccolta poetica Le vane nevi di Giorgio Bàrberi Squarotti (Bonaccorso, Verona 2002).
Una raccolta che è tutta percorsa e irradiata dalla limpida, e sottilmente e amaramente ironica, autocoscienza letteraria di quel testo conclusivo, Gramigna, di quella sorta di “autoritratto al cavalletto”. Un libro che, anche in grazia della sua coerenza tematica, del resto imperniata su immagini e concetti già largamente presenti nella produzione antecedente (basti pensare alle ricorrenti apparizioni del “corpo nudo” come icona della poesia assoluta e pura, poesia paga di se stessa, della propria intrinseca e vana bellezza, ma in pari tempo sola e senza difese di fronte agli assalti oltraggiosi della storia e del tempo), pare segnare una profonda pausa meditativa, o un deliberato coronamento, di un lungo e densissimo cammino poetico. Raccolta, dunque, che attesta uno stadio che si trova oltre la maturità, ma che non coincide affatto con la stanchezza, con il tramonto, con l’esaurirsi del movente creativo, ma piuttosto con il ripensamento rigoroso e limpido, con la condizione propria di una “poesia della poesia” – per riprendere una formula che lo Squarotti critico ha felicemente applicato a D’Annunzio – che si guarda indietro e riflette su se stessa.
Come l’Erodiade di Mallarmé, personificazione anch’ella della poesia pura, che si specchia nell’acqua gelida, anche le fanciulle di Squarotti si specchiano (e viene in mente, qui, ciò che lo Squarotti teorico ha scritto circa la letteratura “specchio di se stessa”) “con astuzia, intatte / per sempre se è vero che più nulla, / dopo, muterà, luminose statue / della creazione”.
Ma questa “Bellezza che è più della vita”, come si leggeva in una precedente raccolta – questa “bellezza che cancella il tempo”, come leggiamo nel nuovo libro –, non coincide pacificamente con un ideale neoclassico o parnassiano di perfezione formale impassibile, algida, disanimata, con la “Beauté” che “mai non ride” e “mai non piange” a cui Baudelaire dedica un sonetto delle Fleurs. Essa è, al contrario, una bellezza che quanto più si discosta e si emancipa, nella sua purezza, dai limiti della materia e del tempo, tanto più è insidiata dalla tenebrosa vertigine del vuoto e del nulla, dall’abisso dell’assenza di significato e di vita. “Così trascorre la bellezza e il nulla / ambivalenti”, simili a rapidi e labili segni “su un debole libretto”, destinati ad essere trascesi e travolti dal “tempo del lavoro di Dio”, che scorre e si consuma proteso verso il “vano premio” di un oscuro compimento.
Alla luce di questi presupposti, è possibile meglio chiarire anche la valenza concettuale e l’intimo spirito degli intrecci di allusioni e di citazioni e dei giochi intertestuali – talora scoperti e quasi esibiti, altre volte latenti, ora ironici e demistificanti, ora animati dal culto umanistico della tradizione, dall’affascinata e quasi religiosa rivisitazione dei topoi – di cui, con questo nuovo volume, il “poeta della letterarietà” offre, come in passato, sapienti esempi.
Si consideri Jubilo, in cui l’ordito intertestuale pare assumere una funzione non troppo diversa da quella che lo Squarotti critico attribuisce al citazionismo dannunziano: fissare sulla pagina, un attimo prima che il tempo edace, unito alla volgarità del mondo industriale, li travolga e cancelli, immagini, oggetti, suggestioni, motivi attraverso cui la Bellezza ha avuto modo, nel corso dei secoli, di manifestarsi nelle sue forme molteplici. Ecco, allora, che il dettato poetico può spaziare dal “jubelo del core” di Jacopone da Todi all’eco montaliana della “stanza che lenta s’annera” (si pensi all’”ora che lenta s’annera” di Corno inglese, ma già alla “scala che s’annera” della dannunziana Sera fiesolana). E proprio D’Annunzio e Montale, due fari della sensibilità novecentesca, sono contaminati in Ginocchi, che immerge nel cronòtopo nietschiano e dannunziano del “meriggio” come “ora pànica” propizia alle rivelazioni improvvise e alle miracolose epifanie la visione montaliana della “memoria che si sfolla”, del tempo che “non mai due volte configura / (…) in egual modo i grani”, della “distanza” che separa la “visione” della memoria dallo sguardo che cerca di coglierla e di metterla a fuoco: “Ah la visione che già ieri / è morta, ed è qui, e ora scatta di corsa / verso la forma d’aria che compare (…)”.
Ma anche la memoria letteraria - sintetizzata nell’inquietante immagine borgesiana, ricorrente nella pagina di Squarotti, della “biblioteca di Babele” – è insidiata dal vuoto, dal nulla, dallo spettro della mise en abîme o del mallarmiano Échec. Tutto il discorso poetico pare, a tratti, teso – emblematici, al riguardo, certi folgoranti explicit – ad inverarsi in una “parola che scritta sta nel cuore / e nella morte”, in un “eterno addio” che non risparmia “più scrittura e memoria”, in un “nulla / che pur salva” (quasi tragico rovesciamento nichilistico del “fantasma che ti salva” montaliano). Le sempiterne nevi della letteratura – le “bianche nevi” che scendono “sanza venti” degli stilnovisti, le “neiges d’antan” di Villon, fino alla “perfezione della neve” cantata da Zanzotto – sono “vane”. Anche il loro “candore quieto” deve infine disperdersi, nel momento estremo in cui “si scioglie la bellezza / e scende il velo”.
E altrettanto significativo – sul piano sia delle riprese e degli echi intertestuali, sia del rapporto tra discorso poetico e riflessione critico-teorica – appare il triplice riverbero, in questa raccolta, e ancora una volta nelle densissime e folgoranti chiuse, di un celebre quanto sottilmente ambiguo passaggio dell’ottavo capitolo dei Promessi sposi (“che sa il cuore? Appena un poco di quello che è già accaduto”), di cui il poeta si era già ricordato nella conclusione di La collina di San Pietro, il testo con cui si apre Il marinaio del mar Nero e altre poesie, e in cui il “cuore” manzoniano diveniva, in modo ancor più radicale e cupo, un “cuore oscuro” perso fra i “nulla (…) vani e impronunciabili” di una storia insensata e indecifrabile, contristato da un “amaro dio della Ragione”. Ora, in questo nuovo volume, l’”immagine” e la “parola” stanno, come si è visto, scritti “nel cuore e nella morte”, il fare artistico pare rassegnarsi alla vanitas vanitatum, alla “vanità del cuore che è noto / che sa meno che nulla”; le Grazie stesse – emblema, un tempo, di una bellezza intemporale ed incorrotta, di un’Armonia che vince il silenzio dei secoli –, “statiche e vane”, chiuse in un’”inesistenza di nomi”, nell’immaterialità evanescente e nella volubile indeterminatezza del dire poetico, non sopravvivono che “nella non verità del cuore”. Le “delusioni della letteratura” e la “morte dell’idillio” che il critico ha incontrato e còlto, con amara lucidità, negli studi manzoniani – l’essenza stessa di una letteratura che combatte, forse invano, la sua eterna e tragica lotta contro il fluire e il mutare, insensati e impassibili, della società e della storia – hanno così trovato nei versi la loro eco limpida e profonda.
1) S. BRIOSI, Da Croce agli strutturalisti - guida antologica alla critica letteraria italiana del Novecento, Bologna, Calderini, 1971, pp. 408-412.
2) G. SPAGNOLETTI, Introduzione a G. B. SQUAROTTI, Dalla bocca della balena, Torino, Genesi, 1986, pp. 7-14.
3) S. GROS-PIETRO, prefazione a G. B. SQUAROTTI, In un altro regno, Genesi, Torino, 1990, pp. 5-9.
4) Vedi, ad esempio, D. CECCHI - F. DANESE, Storia della letteratura italiana, Milano, Trevisini, s. a., p. 645.
5) A. MARINO, Teoria della letteratura, Bologna, Il Mulino, 1994, p. 405.
6) M. G. LENISA, Il segno trasgressivo, Foggia, Bastogi, 1990, p.25.
7) Ibidem, p. 27.