(apparso in «Università Aperta», XX, 2010, n. 2, pp. 10-12)
L’amico Fabio Foschi, nel bell’articolo apparso su “Università Aperta” del dicembre 2009, ha toccato con franchezza e apertura molti dei problemi e delle ambiguità che contrassegnano la delicata e decisiva questione della valutazione scolastica, ardua e spesso iniqua. Ma, arrivato al punto della pars construens, delle proposte concrete, mi è parso arrestarsi e sospendere il giudizio, forse vincolato anche lui da regole e convenzioni inveterate.
Bisogna fare un passo in più, dopo aver constatato che nessun metodo di valutazione è oggettivo ed infallibile, e che la bocciatura di un alunno è spesso sospesa ad un filo sottile, condizionata da fattori imponderabili, capricciosi, mai del tutto equi.
Ebbene, io credo, senza mezzi termini, che la bocciatura vada semplicemente abolita. E questo non già per utopistici e post-sessantotteschi intenti egualitari, ma, al contrario, alla luce di considerazioni pragmatiche ed evidenti.
Questa idea, o questo sentimento, o questa utopia, hanno animato i pensieri che seguono, e che già da anni si muovevano nel mio spirito.
I
La bocciatura non colpisce, se non raramente, gli alunni che più la meriterebbero (ammesso che qualcuno la meriti), cioè gli arroganti, i prepotenti, i violenti, i disonesti, i maligni, i furbi, gli irriguardosi, i facinorosi, i molesti (i rompicoglioni, per capirci). Al contrario, essa falcidia (proprio come fa, d’abitudine, la sventura nella vita di tutti) alunni miti, buoni, quieti, rispettosi, a volte, certo (come del resto quasi tutti), non molto amanti dello studio, ma altrettanto sovente afflitti da problemi psicologici, familiari, personali, di salute.
II
Grazie all’aumento dei bocciati, ha dichiarato trionfante la ministra Gelmini (che Tinto Brass, il quale se ne intende, giudica ancor più fascinosa e concupiscibile della Carfagna), la scuola italiana raggiungerà presto i livelli di quella finlandese (la cui ministra, Henna Virkkunen, filosofa al potere, è, per inciso, fornita di uno charme ben più aristocratico, etereo ed iperboreo).
Alla Gelmini bisognerebbe spiegare che, nella scuola finlandese, la bocciatura, di fatto, non esiste. Gli alunni minori di sedici anni possono essere bocciati solo in casi eccezionali, e comunque con il consenso dei genitori (che vengono, in tal modo, realmente e direttamente coinvolti nell’istruzione dei figli, condividendone la responsabilità e la guida). Dopo i sedici anni, gli alunni scelgono liberamente quali corsi seguire entro un ampio ventaglio di discipline, in base ai loro interessi, alle loro aspirazioni, alle loro predilezioni.
Già, perché gli esseri umani, a differenza delle bestie di un allevamento o dei pezzi di una fabbrica, sono (per loro fortuna o sventura) persone e individui ciascuno con il proprio destino, la propria anima (o psiche se si preferisce), la propria storia, i propri tempi, e mal si adattano a griglie, schemi, obiettivi, “curricoli” (parole che solo a sentirle fanno passare la già fiacca voglia di prendere in mano un libro).
Sistemi analoghi a quello finlandese vigono in Danimarca, Irlanda, Svezia, Islanda, Norvegia.
Nel primo dei paesi appena menzionati, tra l’altro, è stata da poco introdotta, per gli studenti, la possibilità (che suonerebbe inaudita in Italia) di accedere ad Internet durante le prove d’esame (cosa che, peraltro, nell’era dell’i-phone, anche i nostri studenti fanno, seppure di nascosto).
Già, perché, come ha scritto Umberto Eco, copiare è un’arte, e chi copia bene merita un buon voto. Il sapere, oramai, non consiste tanto nel possedere le nozioni (la cui massa è del resto divenuta da un lato colossale e quasi ingovernabile, dall’altro quasi interamente accessibile, in modo gratuito ed istantaneo, tramite la rete), quanto nel saperne selezionare le fonti, e nell’essere in grado di organizzare, classificare, sceverare ed interpretare il materiale raccolto, traendone un pensiero, almeno relativamente, originale (ammesso che qualcosa ci sia ancora da dire, in questo mondo straripante di parole, e che sia utile e necessario dirlo).
III
“Lasciare ai giovani piena libertà di parlare delle cose che loro maggiormente aggradano. Il punto sta nello scoprire in essi i germi delle loro buone disposizioni e procurare di svilupparli. Ognuno fa con piacere soltanto quello che sa di poter fare” (San Giovanni Bosco).
Significativo che il celebrato sistema scolastico di alcuni dei paesi più moderni e democratici al mondo si fondi su princìpi evidentemente non lontanissimi da quelli che animavano la riflessione dell’educatore cattolico per eccellenza.
IV
Coloro che vagheggiano e magnificano un sistema scolastico il più possibile rigido, severo e selettivo solitamente auspicano, in eguale misura, un analogo organismo nazionale di ispezione e valutazione degli insegnanti.
Keith Waller (35 anni); Pamela Relf (57); Jed Holmes (52); James Patton (29); Jane Dibb (28); Patrick Stack (45); Joseph Simmonds (50); Iree Hogg (54); Janet Warson (33). Insegnanti inglesi che si sono tolti la vita dopo una delle angoscianti e feroci ispezioni dell’Ofsted, il cane da guardia dell’istruzione, l’Argo o Cerbero che vigila e latra su istituti e docenti britannici, già stretti nella morsa delle bande e della violenza urbana, gettando su di essi la sua rete implacabile, la sua grigia cappa.
“Selezione naturale”, direbbero, allargando le braccia con un sorriso gelido e idiota, i fautori della serietà, del rigore e della competizione (anzi, “competitività”). Peccato che si stia parlando di esseri umani, non di ingranaggi, apparecchiature, pezzi prodotti in serie o bestie d’allevamento.
L’Ofsted: ente privato che riceve denaro pubblico per ispezionare scuole (private e pubbliche) che, a loro volta, otterranno fondi e vedranno aumentare le iscrizioni in seguito ad un giudizio positivo da parte di quell’ente. Non so se sia il caso di introdurre un sistema analogo anche in Italia.
In Finlandia (il paese, dice l’Ocse, con la scuola migliore del mondo) non esiste un sistema nazionale di valutazione. Le istituzioni presumono, forse assurdamente, che un minimo di serietà e di senso di responsabilità da parte degli insegnanti sia garanzia bastevole.
V
Un insegnante che insegni a tutti coloro, e soltanto a coloro, che non si insegnano da sé, non può esistere, perché in quel caso dovrebbe insegnare anche a se stesso. Altra versione (presente in Tommaso d’Aquino) del paradosso del barbiere che rade tutti coloro, e soltanto coloro, che non si radono da sé, e che pertanto non può esistere.
VI
Non sono tanto gli insegnanti ad insegnare, quanto gli studenti ad apprendere. Non c’è artificio, mezzo, stratagemma, minaccia, ritorsione, castigo, sanzione (o “strategia”, “metodo” o “strumento”, per indulgere all’idiozia del gergo) che possa forzare una mente umana a recepire e ad assimilare una nozione o un concetto a cui essa è, per qualsiasi ragione, restia e refrattaria.
La mente di una donna o di un uomo non è una tabula rasa. Non accetta ogni forma, ogni pigmento, ogni contorno. Né è un blocco di marmo o di creta che possa assumere, per manipolazione o, come diceva Leonardo, “per via di levare”, qualunque forma vi si voglia imprimere.
È , semmai, una potenzialità assoluta e imprevedibile, una pura e sconfinata possibilità che troverà da sé, in se stessa, la propria determinazione e il proprio compimento.
Ognuno, certo, è artefice del proprio destino. Eppure, nello stesso tempo, esso è già scritto - e nondimeno, per antinomia, può essere mutato. Realizzarlo sta nel riconoscerlo, nel trovarlo, nel seguirlo – al limite nel deviarlo verso altra meta. Il tempo di questo cammino non ha una misura oggettiva, e non è pertanto istituzionalizzabile.
“Diventa ciò che sei”, diceva Pindaro e ripeteva Hegel.
Questo è l’unico vero “obiettivo”. Ma non ci sono, per raggiungerlo, “moduli”, “metodi”, “strumenti”, “tempistiche” preesistenti ed univoci, e che possano essere determinati una volta per tutte, e per tutti, da una legge o da un’istituzione.
In questo senso, l’insegnamento potrebbe davvero, almeno in un mondo ideale, essere – come volevano i maestri – ars artium e regimen animarum, arte delle arti e governo degli spiriti, al pari della filosofia e della poesia – discipline, l’una e l’altra, della parola come farmaco o filtro.
VII
“Trivia ride tra le ninfe eterne”. “Luce intellettual piena d’amore”. “Eros anikate machan”. “Heard melodies are sweet, but those unheard are sweeter”. “Ariston men hydor”. “Per amica silentia lunae”.
Questa (al di là, o al di sotto, delle sillabe e dei suoni, degli accenti e delle quantità e delle parole con il loro mosaico di alchimie) è pura bellezza. “Pura luce”, direbbero Dante e Pasolini. Nulla potrà recepirne chi non ha l’occhio per vederla, per sua sfortuna, o fortuna (la bellezza è anche angoscia). E di nessun aiuto potranno essergli “obiettivi, metodi e strumenti”.
L’educazione letteraria non è un problema di metodo. Consiste, semmai, nel fondere tutti i metodi possibili, e andare al di là di essi. Ma nessuno può farlo meglio dei poeti stessi, della parola e del testo con la loro nuda evidenza, il loro puro venire alla luce ed esistere.
L’insegnamento, in fondo (almeno quello umanistico, ancora preponderante in Italia), è nobilmente, aristocraticamente inutile. Forse nulla può ritrarlo meglio delle fanciulle vittoriane dalle ampie vesti candide, che meriggiavano orlate come su un’isola da un verde risplendente, sfogliando esili fiori e rileggendo Shakespeare, Keats o – segretamente, e con una curiosità voluttuosa e un’umida brama che nessun maestro può infondere– Swinburne e Lawrence.
VIII
“Essere felici significa provare interesse per qualcosa. I bambini, come gli adulti, imparano quello che vogliono imparare.Un nevrotico istruito non è migliore di un nevrotico privo di istruzione”.
Così Alexander Sutherland Neill, un pedagogista da rileggere.