"Insiste il dito annichilito sul tasto / in una nota sempre sbagliata / eppure disumanamente giusta / al di là di ogni esempio azzeccata / Una nota fino a che sangue è il dito / e poi si azzoppa in uno sbagliato / movimento di trillo / al di là di ogni esempio / tuttavia riazzeccato / Un'infinita, irraggiante da tutto, offerta / arriva su quella nota, su quel dito / innervosito, anzi da tempo annichilito / che vuol farsene carico, dar credito / a un possibile universale spartito / riversare da un nastro registrato / a un altro / non meno mitico instrumento / Un indirizzo o un'una dichiarazione di mittente / come becco di picchio insistito / è in quel dito che batte l'offerta / sua-unica, da-nulla, che nulla alletta / e che scavando per sempre in quel tasto / e sbagliandolo sempre, nella deserta / realtà che per altro come mattina s'affina, / la sua ostinazione contro ogni perché, / il suo per chi per che non mai esauribile / né esistibile assesta, indovina".
Alla luce della sostanziale unitarietà che contraddistingue il libro Idioma del 1986, con cui Zanzotto porta a compimento la trilogia, atipica e diveniente, fatta di “momenti non cronologici di uno stesso lavoro”, aperta nel 1978 con Il Galateo in bosco e proseguita, cinque anni dopo, con Fosfeni, dobbiamo a maggior ragione valutare, prima di accostarci all'analisi di Ascoltando dal prato - la poesia che ho appena riportato per intero, e che, come vedremo, compendia splendidamente molti degli aspetti più rilevanti dell'intera produzione zanzottiana -, il già di per sé evidente legame di continuità che unisce questo testo a quello - intitolato Genti - che lo precede nella successione del libro.
In quest'ultima lirica Zanzotto descrive, o per meglio dire evoca ed accenna, l'atmosfera plumbea e tediosa di un anonimo paese di provincia e la desolante meschinità che contraddistingue i suoi abitanti, presi in una rete di "indifferenze incrociate / coaguli di minimi affari e mafie" e invischiati in "una piccola appiccicosa / volontà di non guardar troppo lontano / una bonarietà qualche volta sonnolenta". Nei versi conclusivi, tuttavia, dopo essersi d'un tratto "liberato" e avere scorto "una carta che va / verso nord, nel vento, verso la notte", simbolo forse della poesia capace di aprire all'uomo nuove ed inattese prospettive di conoscenza, il poeta si trova "abbacinato" dall'improvvisa, miracolosa, forse addirittura messianica e salvifica apparizione di "un prato / dimenticato dietro una casa antica, / solitario", che "forse soffre", quasi fosse pervaso da un'oscura forza vivificatrice, "forse è soltanto / un paradiso".
Questo profondo valore simbolico di cui si carica l'immagine del prato emerge a più riprese dall'opera di Zanzotto. Già nel 1942, nella poesia A questo ponte, Zanzotto era stato capace di "sentire nel freddo del prato" - pochi versi prima accostato per via analogica al "freddo del cielo / e della cieca luce" - "le danze segrete delle acque / e degli alberi / intorno al sole domato": il prato, in quanto Luogo della germinazione, della fioritura, di una frenetica e misteriosa rigenerazione vitale, rappresentava già, agli occhi del poeta ventenne, il tremulo ma salvifico riflesso di una metafisica "cieca luce", di un angusto ma vitale spiraglio conoscitivo aperto su di un oscuro regno di vibranti forze vitali nascoste all'interno, o magari al di là, della realtà sensibile.
La frequenza con cui i motivi del prato, dell'erba, della semina, della pioggia e della fioritura ricorrono nel denso ed arduo repertorio di immagini, di ascendenza surrealista ed ermetica, che echeggia nelle pagine del primo libro di Zanzotto, Dietro il paesaggio, conferma e rafforza la precisa valenza analogica e simbolico-allusiva che essi assumono nel mondo poetico zanzottiano. In testi quali L'amore infermo del giorno ("A lungo ésita il verde / nelle soste dei prati / e tra i suoi fregi fiordalisi") o Al bivio ("Sotto novembre degradano i prati / di mano cade la gemma alla vergine / il verde vivo è così solo / là al trapasso dei monti, / galli abbagliati galli campestri / da tutte le tane e i segreti / chiameranno domani / le ragioni eterne della neve"), ad esempio, tale repertorio figurativo è finalizzato alla rappresentazione simbolica dell'infinitesimale ed impercettibile istante di attesa e d'indugio in cui la natura sembra restare sospesa e dubbiosa di fronte all'eterno mistero del perpetuo compiersi e rinnovarsi dei cicli vitali.
Nella sezione V del poemetto Ore calanti, incluso in Elegia e altri versi, il prato sarà poi teatro di una folgorante, per quanto solo accennata, epifania conoscitiva, in cui si nasconde il pericolo del crollo di ogni certezza, di ogni stabile e saldo parametro di percezione del reale ("Ormai m'apparve il senso dell'estate ... / Arrischiata luce / prati che v'induceste / lungi nel grembo di una sera"), in una sorta di allucinazione onirica in cui, montalianamente, "le cose / s'abbandonano e sembrano vicine / a tradire il loro ultimo segreto". Nelle IX Ecloghe, infine, saranno ancora "orti o prati" a formare quell'indefinita distesa di "verde lungamente / lungamente composto, sogno a sogno", su cui si affaccia la "finestra nuova" speranzosamente e faticosamente aperta dal poeta su di una realtà ambigua e confusa.
Facile e vano esercizio di erudizione sarebbe, a questo punto, passare in rassegna i testi e gli autori, antichi e moderni, attraverso i quali l'immagine del prato è venuta costituendosi come un vero e proprio "topos", sulla scia di una plurimillenaria tradizione, che Zanzotto, studioso e critico sensibile ed attento, oltre, e forse prima, che grande poeta, certamente non ignora.
Basterà citare, in riferimento al mondo antico, i "teneri prati d'anice e viole" che, nel V libro dell'Odissea, accolgono l'arrivo di Ermes nell'isola di Calipso, inaugurando il motivo del "locus amoenus", che tanto spesso ricorrerà nella poesia ellenistica come nella tradizione allegorica platonico-cristiana.
Se poi spostiamo l'attenzione sulle letterature moderne, ci balzeranno agli occhi i tanti prati descritti, sulla scorta della tradizione provenzale del "plazer", dai poeti italiani delle origini: basterà citare la celebre canzone 126 del Petrarca ("Chiare fresche e dolci acque ... erba e fior che la gonna / leggiadra ricoverse / co l'angelico seno"), in cui il prato viene a rappresentare - come, in una prospettiva ovviamente assai diversa, nei testi zanzottiani a cui abbiamo accennato poco sopra - il teatro naturale dell'estasi visionaria, dell'allucinazione onirica, della straniata elevazione mistica, o far riferimento ad alcuni notissimi luoghi danteschi, come la descrizione del "nobile castello" che difende il "prato di fresca verdura" su cui si muovono, "con occhi tardi e gravi", gli "spiriti magni" del Limbo (Inferno, IV, vv. 106-111), o l'incontro tra Dante e Matelda nel Paradiso terrestre (Purgatorio, XXVIII, vv. 52-63), a cui fa da sfondo un prato punteggiato di "vermigli e gialli fioretti" e attraversato, come nell'esempio precedente, dalle fresche e limpide acque di un "bel fiume", perfettamente in linea con la tipologia descrittiva del "locus amoenus".
Questa scarna rassegna potrebbe essere ampliata; ma più mi preme, in questa sede, sottolineare come la poesia Ascoltando dal prato, unitamente a gran parte del complessivo bagaglio concettuale e stilistico del nostro autore, debba essere analizzata proprio in relazione al campo simbolico e all'àmbito tematico che ho appena cercato di definire.
Nel caso della poesia riportata in apertura, il prato, nominato solo nel titolo, può rappresentare un'indefinita realtà "altra", esterna rispetto all'"io lirico", all'individualità del poeta, o più in generale dell'uomo, che la percepisce, la interiorizza (la "ascolta") e cerca di interpretarla.
A questo punto, secondo un processo che, almeno a partire da La Beltà del 1968, si verifica costantemente nella poesia di Zanzotto, questo "ascoltare" - questa "auscultazione / di certi sistemi del silenzio / di certe microvocalità stellari", come dice la poesia non intitolata che, in Idioma, segue Ascoltando dal prato - si trasforma automaticamente in un "parlare", in un atto di comunicazione, poiché solo attraverso il linguaggio - concretamente inteso come sistema di significanti e significati, di segni corrispondenti a pensieri o ad oggetti - l'uomo può tentare di conoscere e di dominare la realtà, illudendosi di definirne e di classificarne tutti gli infiniti aspetti tramite l'esiguo numero di parole che la sua mente e la sua favella sono in grado di raccogliere.
Ma la flebile nota battuta e ribattuta da un enigmatico "dito" - "annichilito", "ridotto al niente" dalla distrazione, dallo stordimento, dall'incomprensione o magari dall'assenza degli ascoltatori -, "sempre sbagliata", falsa o fuori tempo, in rapporto alle anguste strutture mentali dell'uomo, è "disumanamente giusta", "al di là di ogni esempio", solo in rapporto all'inconoscibile Armonia dell'Assoluto. Il disperato e instancabile sforzo conoscitivo profuso dall'uomo - l'"infinita offerta" che "arriva su quella nota" - viene tuttavia gratificato dalla natura con il miraggio di un "universale spartito", di una Parola, di un Verbo originale e assoluto, capace di superare l'equivocabilità e la debolezza di ogni parola umana, e con la possibilità che "un indirizzo o un'una dichiarazione di mittente", una volta o l'altra, siano come per miracolo riversati "da un nastro registrato / a un altro / non meno mitico instrumento".
La "dichiarazione di mittente" dei misteriosi segnali che la realtà emette coinciderà con la rivelazione dell'essenza ultima delle cose, e il linguaggio attraverso cui sarà espressa non potrà certo conformarsi al "nastro registrato", al sistema normativo e convenzionale della lingua d’uso o, entro certi limiti, della stessa tradizione letteraria che il poeta-critico perlustra, rivisita, fa rivivere “riversandola” in nuove forme e trasfigurandola in altro e diverso spirito.
Si può forse dire che tutta la ricerca poetica di Zanzotto ha per obiettivo appunto la costruzione di "un altro / non meno mitico instrumento", la formulazione di uno strumento espressivo e stilistico che riattinga, spaziando dalla tradizione aulica al dialetto, dalle scoscese arditezze dell’analogismo postermetico al freddo rigore e alla metallica precisione della terminologia tecnica e scientifica, e opponendosi così alla staticità e alla vuota convenzionalità della comunicazione ordinaria, un’autenticità profonda, per così dire materna, o se si vuole “ctonia”, per riprendere una felice definizione di Contini.
Si potrebbe suggerire che, nelle opere degli anni sessanta (IX Ecloghe, La Beltà, Gli sguardi i fatti e senhal), il "nastro registrato" venga decisamente srotolato e bruciato, vengano cioè provocatoriamente alterate e deformate le fondamentali strutture sintattiche e lessicali della lingua, anche a costo di comprometterne le più elementari capacità comunicative - come ha scritto Michel David, il pù insidioso "risque poétique" della lingua di Zanzotto, "agglutinante et neuve", è infatti "de patiner sur le 'signifié', de ne plus signifier", spingendosi, nella sua vertiginosa "marche vers l'Incoscient", fino sull'orlo del "désastre obscur" paventato da Mallarmé come da Michaux (Deux poètes, Solmi et Zanzotto - Le désastre évité par l'ironie, "Le Monde", 16 novembre 1968).
In testi come Ascoltando dal prato, esempio emblematico della "strategia" adottata da Zanzotto nella trilogia, il "nastro registrato" viene invece, per proseguire – ci si perdoni lo schematismo – la metafora, cancellato e nuovamente inciso: la profondità simbolica e allusiva delle immagini, in un processo che si potrebbe definire di "risemantizzazione" o "rifunzionalizzazione", spinge la parola ad assumere valori semantici e fonosimbolici che nella comunicazione convenzionale le sono negati, ed il poeta opera, dall'interno di codici e di registri che in apparenza non vengono alterati, una furtiva e latente trasgressione delle norme che comunemente regolano le strutture e le funzioni del linguaggio.
La stessa tessitura fonica del testo, innervata e sostenuta dalle insistenti rime in
-ito e in –ato o da reiterati e riecheggianti effetti di suono, sembra accompagnare e sottolineare il teso sforzo di una parola poetica proiettata a superare e vincere se stessa, a varcare i suoi confini e i suoi limiti, a procedere oltre la superficie della sua valenza comunicativa.
Ma il "perché" - "non mai esauribile né esistibile", privo di una possibile risposta definitiva, se non addirittura destituito di fondamento - che l'uomo si pone riguardo alla "deserta realtà" che gli sta attorno, e che, quand'anche sia stato "assestato", cioè individuato e definito, non gli lascia che la possibilità di "indovinare", di credere e di scommettere, continua nondimeno ad essere, come l’autore scrive in un'altra poesia di Idioma, Altro, altro linguaggio, fuori idioma? , un "intraducibile perché fuori-idioma".
L’approdo definitivo non sembra, insomma, troppo diverso da quello dell’ultimo Mallarmé, per il quale, infine, ogni pensiero, per quanto sorvegliato fino alle soglie del parossismo e della paralisi dall’autocoscienza critica, “trae un colpo di dadi”, getta verso il nulla e il vuoto, verso l’eterna notte dell’inconoscibile, la sua estrema scommessa, la sua alea tremula ed ardita.