(apparso a stampa prima in «Studi Romagnoli», LIV, 2003, poi in «Quaderni del Cardello», XVII, 2008)
Dentro al largo fossato, che corre dalla via Emilia per tre chilometri verso Riolo, due piccole guardiane di oche inseguono una farfalletta azzurra nell’aria; io vengo a piedi tristemente. […] La piccola farfalla le si dibatte disperatamente fra le dita: ella si trae uno spillo dal corsetto, la trafigge e se l’appunta moribonda sul cappellino di paglia andandosene tutta civettuola.
L’altra compagna rimane dispettosa.
Pietà ed amicizia di donne.
Arrivo solo, rientro solo, sono nuovamente solo nel mio studio.
Scrivere il viaggio? Perché?1
Il passo appena riportato – che tra l’altro credo varrebbe da solo, con il suo registro sfumato e tenuemente malinconico, con la sua levità intrisa di mestizia, a revocare in dubbio la tradizionale definizione di Oriani come prosatore ruvido, rude, trasandato a volte fino alla rozzezza, e a suggerire, semmai, di vedere, con qualche cautela, nelle pagine più meditative e pacate della Bicicletta, di Ombre di occaso, della Disfatta, forse anche di Memorie inutili, una qualche affinità, se non addirittura anticipazione, rispetto alle esperienze, segnate da un assorto ripiegamento meditativo, del D’Annunzio notturno così come della prosa vociana (e si avrà modo di soffermarsi, in quest’ottica, su certi significativi giudizi di Serra)2 – lascia trasparire quello che mi pare essere un aspetto fondamentale della personalità orianesca, se non, a ben vedere, il vero fulcro essenziale, il vero centro di gravità e di generazione del suo mondo concettuale e stilistico: alludo al senso vivo, profondo, sofferto, della solitudine della scrittura.
La solitudine, in Oriani, affiora e si pone non solo o non tanto come dato psicologico o biografico, peraltro presente (per quanto sia sempre opportuno scindere l’opera dalle vicende personali del suo autore, anche in un caso come questo, in cui il risvolto esistenziale e quello letterario appaiono quanto mai strettamente legati e compenetrati), ma anche e proprio come condizione intrinseca ed essenziale della stessa scrittura, delle stesse modalità di concezione e di creazione della pagina.
A ben vedere, come ha posto in luce, tra filosofia e letteratura, Maurice Blanchot nelle riflessioni affidate a L’espace littéraire, la condizione della solitudine è sempre presente allo scrittore, e per così dire incombe e grava su ogni operazione letteraria, e forse su ogni creazione artistica: il creatore si trova solo davanti alla materia e agli strumenti della propria arte, solo con l’idea sublime o tremenda, solida od evanescente, cui dare forma ed espressione. Chi si accosta all’Opera, sia per scriverla che per leggerla, si vota e si abbandona alla «solitude essentielle» della scrittura, al suo regno di impersonalità e di assenza, alla suprema assolutezza di un linguaggio che in certo modo trascende, e quasi azzera, i confini e la volontà del soggetto che in esso si immerge; lo scrittore e il lettore condividono la sorte e la vertigine di precipitare e naufragare nel «vide silencieux de l’oeuvre», si condannano entrambi ad un travaglio reiterato, insistito, virtualmente inesauribile, destinati come sono l’uno ad un perpetuo «rimettersi all’opera», ad un indefinito e forse vano protendersi verso l’opus magnum, verso il mallarmeano Livre supremo e perfetto, l’altro, analogamente, a percorrere senza sosta i territori sconfinati di un linguaggio che si oggettiva parzialmente in un’infinità di opere particolari, ma senza mai darsi e mostrarsi pienamente, non lasciando che intravedere in modo parziale la sua essenza pura e nuda3.
Anche senza dare ulteriore credito allo stereotipo, vagamente romantico, di un Oriani del tutto incompreso, isolato, scontroso, nella vita come nell’opera, si dovrà pur ammettere che il suo discorso non ebbe, lui vivo, le risonanze e i riscontri che avrebbe meritato, e se vogliamo urtò e si infranse, dopo la sua morte, contro uno scoglio ancor più duro e più aspro, quello del fraintendimento, della deformazione, della strumentalizzazione ideologica. D’altra parte, nemmeno la presenza, se non altro potenziale, di un pubblico (presenza del resto non essenziale, in fondo, alla vita profonda, all’autentica consistenza ontologica della scrittura e dell’opera) sa scongiurare o scomporre la solitudine della scrittura: non solo perché il lettore, nell’accostarsi all’opera, si immerge nell’essenziale solitudine che la contrassegna e la pervade, ma perché il rapporto veicolato e mediato dalla pagina è sempre e comunque un rapporto in absentia, schermato dal velo delle parole, dal filtro della scrittura, attutito e artifiziato – per quanto, nello stesso tempo, filtrato, cristallizzato, reso più assoluto e più puro – dal simulacro della stilizzazione letteraria.
Serra, anch’egli avvezzo a cogliere il senso del silenzio, del raccoglimento solitario in cui l’uomo fa i «conti con se stesso», incline al «dialogo dell’anima con se stessa in silenzio», per citare un sintagma platonico ripreso nelle pagine su Francesco Acri, riferendosi a Ombre di occaso sottolinea, nell’Abbozzo di un saggio su Alfredo Oriani, risalente agli anni fra il 1909 e il 1913, proprio l’essenziale e consustanziale solitudine dello scrittore e della scrittura: «Solo e lontano, in quella camera che da più di vent’anni aveva visto i sogni superbi consumarsi nell’arida fatica, l’uomo posava di tratto in tratto la penna con una stanchezza profonda. Guardava le nebbie fumare dalla valle squallida e la forma monotona della montagna; […] nello studio silenzioso i ricordi di tante e tante altre pause, attraverso tante e tante altre serate febbrili o fredde vigilie di tanti e tanti altri lavori, gli rendevano l’impressione di una vanità infinita». Qui Serra allude quasi letteralmente ad un passo di Ombre di occaso, altra opera segnata, e come avvolta, nell’anello e nella rispondenza di Prologo ed Epilogo, da un senso cupo d’isolamento, di orgoglioso ed altero ripiegamento interiore, dalla percezione lucidissima della solitudine della scrittura («Non vi ho mai veduta e non vi vedrò», dice Oriani alla sua interlocutrice assente; «perché dunque vi scrivo? Anche questa è una contraddizione del nostro spirito, che nei troppo lunghi soliloqui finisce per rivolgersi ad un fantasma pel bisogno supremo di non essere solo, e di sentirsi almeno dinanzi il silenzio di qualcuno» – «fantasma» risolto in illusione, evasione, inganno vagheggiato ed amato, insomma in scrittura, evocato dalla coscienza nel «freddo silenzio della solitudine», nell’ombroso raccoglimento della torre del Cardello, tanto affine alla «casa dei libri» del serriano Ringraziamento a una ballata di Paul Fort): «Dalla mia finestra», si legge nel passo in questione, «veggo la nebbia pascolare sulla cima dei monti, e le foglie ingiallite staccarsi adagio dai rami. I canti dell’autunno sono cessati. […] Ancora pochi giorni, e questa squallida vecchiezza dell’anno si ravvolgerà morta nel molle sudario della neve sotto il bianco silenzio dell’inverno»4.
Di questo sfumare di nebbie su di un paesaggio cinto di nubi e di silenzio si ricorderà forse il Serra dell’Esame, che è anch’egli solo davanti al proprio destino, senza recare con sé altro che le spoglie di una humanitas ormai profanata e negata dall’irrazionalità e dall’assurdità di una guerra che «non muta nulla»: «Guardo le cose come sono. Guardo questa terra che porta il colore disseccato dell’inverno. Il silenzio fuma in un vapore violetto dagli avanzi del mondo dimenticato al freddo degli spazi». Proprio il nodo della solitudine della scrittura, l’idea dello scrivere come interiore monologo sommesso e inesauribile, costituisce il più stretto punto di contatto tra Oriani e Serra – il quale peraltro non risparmia ad Oriani giudizi talora severi, stigmatizzando in particolare il cattivo gusto e la rozzezza di certe prove narrative, così come il semplicismo interpretativo e l’eccessiva enfasi oratoria delle opere storiche. Tuttavia, il Prologo di Ombre di occaso sembra preannunciare, in talune inflessioni e movenze («le parole mi echeggiano lungamente nell’anima stanca del proprio silenzio»), il Serra lettore di Pascoli: «pare […] che le parole risuonino come in un grande silenzio, e che cantino nel silenzio lungamente con una eco nei cuori di infinita tacita melodia»5.
Aveva ragione Mario Missiroli, prefatore accorato e coinvolto, ad osservare come, attraverso il simulacro e lo schermo illusorio della scrittura, Oriani si creasse «dei fantasmi, coi quali si confessa nell’innocente illusione di liberarsi» dal «soliloquio opprimente» della sua «irreparabile solitudine»6.
E si rileggano, a riscontro, le pagine di De Robertis premesse agli Scritti di Serra (certa critica creatrice e simpatetica, riboccante di adesione intellettuale e di passione morale, a volte può, come in un ologramma o in un gioco di specchi, far risaltare le corrispondenze celate, le consonanze profonde fra due autori): anche nell’epistolario, Serra «parlava ad altri, è vero, ma per sé quasi sempre, da sé, per isfogo; e continuò con apparenti distrazioni un suo lungo soliloquio»7.
La solitudine della scrittura, insomma, pare caratterizzare il complesso dell’opera di Oriani; la quale andrà interpretata, molto più di quanto non si sia fatto finora, come un tutto unitario, se è vero che lo stesso autore, in una lettera del gennaio 1904 indirizzata agli Accademici della Lira, lamentava che la critica non vedesse «nel drammaturgo il romanziere, e dietro questo lo storico, e più in alto forse il pensatore»8.
Gian Pietro Lucini rivela, anche a questo riguardo, l’acume, la passione intellettuale e la viva percezione del moderno che contraddistinguono la sua esperienza di critico. Sulla Ragione del 27 ottobre 1909, egli accostava Rivolta ideale al suo Verso libero, altra opera – come del resto, nello stesso giro di anni, l’Imperialismo artistico di Mario Morasso – generata da un pensiero solitario, appartato, eccentrico, distesa ed effusa in un getto prosastico vasto, onnicomprensivo, impetuoso, debordante: Oriani, scriveva Lucini, crea «per sé solo soltanto, […] erotto di su la folla, altissimo e disconosciuto, quando non semplicemente ignoto», avvolto dalla solitudine e dal silenzio sepolcrali del Cardello, dall’alone di uno «spazio bianco di luna» segnato solo dall’«ombra di un cipresso»9.
Emblematica suona, allora, la dedica autografa dell’esemplare del Verso libero presente nella biblioteca di Oriani, dedica in cui l’autore di Rivolta ideale è detto «per vie opposte, similemente solitario e selvaggio»10.
Nell’articolo luciniano è rievocata la figura di Luigi Donati, sodale e discepolo di entrambi gli scrittori, e principale mediatore dell’incontro, solo ideale e indiretto, fra quelle due grandi fisionomie defilate ed altere. E Donati, in un profilo apparso nel 1906 sulla Romagna e ripreso poi nella Tragedia di Oriani, volume del ’19, si rifaceva proprio a quello stesso passo, sopra citato, di Ombre di Occaso che attrasse l’attenzione di Serra, indicando nella solitudine esistenziale la fonte dell’indefessa e sofferta operosità dello scrittore: la sua voce è un «singulto angoscioso che geme appena e si perde in una infinita vastità di deserto», minacciato dalla «vertigine del vuoto»11.
Il teatro è forse, accanto alla poesia, la parte meno felice, la più caduca e velleitaria, dell’opera di Oriani, attento, per la sua indole speculativa e riflessiva e la sua vena polemica, più alla personificazione e alla dialettizzazione di ideologemi, di opzioni ideali ed esistenziali, che non alla caratterizzazione psicologica e all’intreccio scenico. Si dovrà però citare almeno Sul limite, dominato dalla figura, palesemente autobiografica, di Giovanni Sforza, intellettuale orgoglioso, altero, sprezzante, che rifiuta i compromessi e le bassezze della politica.
Decisamente più rilevante la prosa ideologica e storiografica. La solitudine della scrittura, in questa parte dell’opera dell’autore, si palesa, sul piano stilistico, traducendosi e rispecchiandosi in attitudine monologante ed oratoria, in atteggiamento apodittico, in sforzo suasorio, più che conoscitivo e argomentativo. Ne deriva la mancanza, spesso rimproverata all’autore, di documentazione, di confronto e di dialogo con le fonti, primarie e secondarie; mancanza che è, del resto, consustanziale all’atteggiamento di storico artista e scrittore, più che scienziato, assunto, e anzi ostentato, da Oriani sulle orme di vari esponenti della storiografia ottocentesca, ad esempio un Quinet – annoverato tra le sue fonti dirette – o un Michelet.
Ma questa solitudine si manifesta anche sul terreno dei contenuti ideologici12.
Se Hegel e Mazzini, fra i modelli più significativi del pensiero di Oriani, coniugano l’individuo con la collettività, sia essa lo Stato, la Nazione, l’Umanità, in Oriani questa sintesi, pur tentata e cercata, sembra essere polarizzata e sbilanciata in direzione dell’individuo eccezionale, sorta di eroe o di uomo rappresentativo, di representative man nel senso del pensiero trascendentalista inglese e americano, da Carlyle a Emerson, da Thoreau a Whiman, ma non senza una qualche suggestione della teoria nietzscheana dell’Oltreuomo: tali, nell’immaginoso e fervido discorso orianesco, che risolve la ricerca storiografica sul piano della narrazione, del racconto, della ricostruzione intuitiva e sintetica, più che documentata ed argomentata, di figure, epoche, ambienti, appaiono Mazzini, Garibaldi, Cavour. Si torna, anche per questa via, al terreno specifico della scrittura, dell’arte letteraria, attraverso cui l’individualità si esprime. L’aristocrazia che ha in mente Oriani, e che dovrebbe condurre l’Italia ai suoi più alti destini e guidarla nella sua missione civilizzatrice, è, un po’ come l’«ideal tipo latino» vagheggiato da D’Annunzio nelle Vergini delle rocce, essenzialmente un’aristocrazia dello spirito, dell’intelletto, dell’arte: «Come la vita ha bisogno di contemplarsi nello specchio dell’arte per apprendere il proprio segreto» – «come in un grande specchio solitario», scriveva il D’Annunzio delle Note su Giorgione e su la critica, fissando anch’egli, in quella potente immagine, l’idea e l’essenza di una solitudine interiore e creativa –, «così la società per governarsi e progredire si solleva in una aristocrazia, alla quale trasmette più limpide le forme del passato e dalla quale riceve meno torbide le prime significazioni del futuro» (La rivolta ideale, I, 4). Si è accennato alla lezione di Nietzsche. Ebbene, anche la sua figura è chiusa ed avvolta nei cerchi ritornanti e concentrici della solitudine – a un tempo dolorosa e fiera, patita e trionfante – del pensiero e della creazione, è immersa, come dice lo Zarathustra, nel «luminoso silenzio» di un «pensiero abissale» (III, Della beatitudine non voluta): l’Opera, si legge in Ecce homo, vive nella «distanza», nell’«azzurra solitudine» – ma la luce silenziosa e solitaria del pensiero sfocia e sgorga in «desiderio di parole», anela, come poi ribadirà il Derrida dell’Écriture et la différance, a divenire parola, pagina, testo, a farsi fulcro e sorgente di una scrittura, di una creazione letteraria che abbiano la sorridente levità, la noncuranza variopinta e gaia, del canto e della danza. E, si noti, anche per Nietzsche, come per Oriani, lo storico, il filologo, il critico devono essere essi stessi, in certa misura, Oltreuomini, devono elevarsi al grado di creatori e di poeti per trascendere, per oltrepassare la pedanteria angusta e miope degli eruditi che «benedicono il lavoro fatto» (La gaia scienza, V, 348), degli antiquari, dei meri raccoglitori di “fatti”, dei “dotti” privi di originalità, capaci di reagire solo al contatto del documento, del dato, del “monumento”. E, a completare il parallelo tra i due autori – parallelo certo tutt’altro che invulnerabile al rischio di irrigidimenti o deformazioni ideologiche –, si potrebbe ripetere per Oriani ciò che Nietzsche, ancora in Ecce homo, afferma di se stesso: di essere, cioè, una nuance, una «sfumatura», un «enigma», una figura o una “maschera” sfaccettate, versicolori, cangianti, difficili, se non impossibili, da fermare e da mettere a fuoco in modo certo e definitivo.
Anche Rivolta ideale si apre e si chiude, come Ombre di occaso, nel segno della solitudine: nell’ora dello sconforto e del disinganno, in cui ogni ideale, ogni aspirazione, ogni ansia di palingenesi parevano vani, una leopardiana «indifferenza della natura alla nostra umana tragedia pareva farsi più silenziosa», e analogamente un «altro silenzio si dilatava nelle solitudini del pensiero» (I, 1); «come tutti», si legge nel finale Appello, «ho pensato nell’ombra del mio tempo, e interrogando la mia vita non ne ebbi risposta: non credevo nemmeno di scrivere questo libro, adesso non ne comprendo più bene il motivo». Viene in mente, trovandosi di fronte a questo smarrimento fecondo e diveniente, a questo angoscioso disagio, esistenziale e storico ad un tempo, una pagina del Gobetti della Rivoluzione liberale, che non a caso conosce e cita, non senza ammirazione, Oriani: «La volontà è serena», si legge nell’Introduzione del testo gobettiano, «la moralità sicura quando il Messia non è più necessario. Se tutto è uguale, se il tono quotidiano è la tragedia, bisogna pure che ci sia chi si sacrifica, chi insegue il suo ideale trascendente o immanente, cattolico o eretico con arido amore». Ecco allora che anche Rivoluzione liberale, che pure ha «bandito la letteratura», può essere, «senza paradosso», «una rivista di poesia»; e la politica, «sorta di esperienza artistica di tutto l’uomo», ha l’«indipendenza» e la «serenità impassibile» proprie del «creatore di mondi fantastici». Il liberalismo di Gobetti può, sorprendentemente, attraverso sottili coincidenze e contatti testuali, favoriti, in parte, dalla comune concezione della politica come forma d’arte, convergere con un pensiero innegabilmente non privo di venature nazionalistiche quale quello di Oriani.
Si è già visto come Oriani storico artista risolva il discorso della storia e dell’ideologia in atto di scrittura, in operazione stilistica, sciogliendolo in solitaria e monologante facoltà di creazione. E basterebbe, credo, questo dato essenziale per capire quanto mal posta fosse la questione, sollevata a suo tempo, sulla Voce, da Luigi Ambrosini, coautore del serriano Abbozzo di un saggio su Alfredo Oriani, relativa ai presunti plagi che Oriani avrebbe compiuto nei confronti di Giuseppe Ferrari; scrittore, quest’ultimo, che, legato al pensiero sensista e materialista sei-settecentesco, riconduceva il disegno storico delle rivoluzioni ad una necessità immanente, concreta, tangibile, dettata dalla dinamica interna e inesorabile del flusso evenemenziale, mentre Oriani, come osservava Croce nel suo magistrale, anche se a tratti severo, studio13, si rifà semmai – al di là di qualche pur significativa corrispondenza testuale, legata, ad esempio, a certi giudizi e a certe ricostruzioni concernenti il ruolo storico del papato – alla hegeliana filosofia della storia, forse mediata dal filosofo Angelo Camillo De Meis (con buona probabilità adombrato nella figura, del resto anche autobiografica, del De Nittis della Disfatta), risolvendo però l’Idea in creazione letteraria, lo Spirito in scrittura, riconducendo e ancorando, per così dire, l’idealistica epopea dell’Assoluto calato nelle figure e negli eventi all’atto di creazione dello storico che quelle figure e quegli eventi rievoca e fa rivivere sulla pagina scritta, assorto nella suprema e sovrana «solitudine del pensiero» e, ancora una volta, della scrittura (e forse non aveva torto il Gentile quando, introducendo la Lotta politica nell’Opera omnia, rivendicava, a dispetto di ogni pur possibile influsso di autori d’ispirazione illuminista o positivista, la matrice idealistica del pensiero dell’autore). Si può osservare che, se da un lato il Ferrari della Rivoluzione e le riforme in Italia lamentava come la libertà della nazione fosse fino a quel momento rimasta nel puro cielo dell’utopia, nelle serene ma sterili «regioni della letteratura e della poesia», nella rarefatta e virtuale «regione de’ poeti», mentre l’«azione politica» non poteva a suo dire «svilupparsi che nella misura della realtà e del diritto», dall’altro ad Oriani interessano – come materia malleabile e feconda di creazione letteraria, come nutrimento ed oggetto di affabulazione stilistica – proprio quei “non luoghi” luminosi e vasti, quelle libere e sterminate regioni del possibile poetico, che vengono poi quasi a coincidere con le immense «solitudini del pensiero», con l’interiore, profondissimo silenzio della riflessione e della creazione. Autenticamente hegeliano, ed enunciato, in particolare, nelle Lezioni sulla filosofia della storia, è questo “circolo ermeneutico” in virtù del quale lo Spirito, manifestatosi nel moto vivo della storia, nell’intrinseca e spesso celata razionalità del reale e degli eventi, perviene alla propria autocoscienza, alla Selbstbewusstsein, attraverso lo sguardo e la mente dello storico, tramite la sua individualità di soggetto che riflette ed interpreta. In definitiva, per Oriani, l’autentico significato e valore degli eventi si compie e si invera sulla pagina, nell’atto solitario della creazione letteraria, allo stesso modo che, in Hegel, la speculazione filosofica rappresentava l’estremo approdo e il supremo compimento dell’epopea dello Spirito, la meta più alta e più vera dell’intero moto dell’attività umana. Basti rileggere, in quest’ottica, le pagine su Mazzini e Machiavelli nella Lotta politica: «L’opera di Mazzini […] ebbe i trionfi irresistibili del più originale fra i capolavori. […] Mazzini, creando la prosa moderna, ripeté il miracolo di Machiavelli, che aveva trovato la propria dimenticando nella passione delle idee i lenocini e le tradizioni delle scuole letterarie»14.
Affiora qui con evidenza il valore – si potrebbe quasi dire fondativo, ontologico – che Oriani attribuisce ad un atto di scrittura cui è conferita la facoltà di riplasmare, e quasi ricreare gli eventi per mezzo della parola e dello stile, spie e marchi indelebili dell’individualità creatrice dell’autore.
Appunto all’idea e al nucleo essenziale della solitudine della scrittura devono essere ricondotti le suggestioni e gli echi che la lettura degli scritti mazziniani dovette destare in Oriani15. Scrivendo a Luigi Amedeo Melegari il 24 ottobre del 1837, Mazzini confessava di sentire ogni giorno di più «l’arido, il deserto, la solitudine», di avvertire intorno a sé e nel fondo della propria anima un gelo di «sepolcro», pur a tratti percorso dai bagliori e dagli aneliti dell’ideale e del sacrificio. Ma nella lettera a Giuseppe Elia Benza, del 7 marzo del 1839, l’ideale stesso, la «credenza» ormai divenuta «certezza» sta «davanti» al patriota «nuda, arida, come il Dovere, senza conforto per la mia vita, […] senza popolare d’immagini liete» una «solitudine» che solo nel pensiero della Storia universale, della «Vita dell’Umanità», può essere, in modo forse illusorio, trascesa e vinta. E la stessa concezione, di generale ascendenza idealistica, del genio solitario, creatore, guida dell’umanità, che incontreremo in Oriani, affiora già a più riprese, con chiarezza, dalla congerie sterminata degli scritti mazziniani: il saggio D’una letteratura europea, che mutua da Goethe il disegno potente di una Weltliteratur, di una letteratura universale che trascenda l’angustia delle singole identità nazionali, si apre con una pagina altissima, in cui si delineano con accesa evidenza i tratti essenziali di un genio che «passa rapido attraverso le razze viventi, e s’interna ne’ misteri dell’universo», e a cui «un solo sguardo discopre altre cose», ma che per ciò stesso, per la stessa complessità e profondità del suo pensiero, va incontro all’incomprensione, se non allo scherno, delle masse. E una tesa riflessione, tutt’altro che pacifica e persuasa, intorno alle ragioni e alle motivazioni stesse dello scrivere, e alla natura e all’identità del suo possibile, e spesso evanescente, destinatario, emerge, nella forma di un’anafora incalzante, nell’appello Alla gioventù italiana, del 1842-1843: Mazzini scrive – quando ormai «la vita fugge», e grava sull’anima «il rimorso d’una fede serbata inutile e per parecchi anni taciuta» – per rivelare e testimoniare, con forza quasi disperata, una suprema verità troppo a lungo velata dal silenzio.
La stessa attività politica, del resto, appare ad Oriani, come al Burckhardt della Civiltà del Rinascimento in Italia, una forma di creazione artistica. «Dietro la virtualità dell’aristocrazia e del genio» vi sono «l’istinto e la potenza anonima della moltitudine», che proprio nell’aristocrazia e nel genio trovano «coscienza» e «personificazione» (I, 4). «L’istinto del popolo passando attraverso le coscienze degli individui superiori […] si epura e si prepara meglio a diventare impersonale nella legge» (II, 3). In alcune civiltà, in cui lo Stato non è ancora arrivato a manifestarsi, «la patria ne tiene […] le veci esprimendone» (trasparente qui la suggestione vichiana) «nella poesia le idee universali: come lo Stato la patria innalza gli individui ad una vita superiore uguagliando le generazioni passate e future. […] Così l’epopea fu la magnifica forma di tale momento rilevando le figure degli eroi e preparando la tragedia» (II, 8). Pienamente hegeliana è anche la dialettica (che si ritroverà, curvata in senso più marcatamente totalitario, nella dottrina gentiliana dello Stato etico) di individuo e Stato, persona e collettività: «la patria nel periodo presente, che apre davvero quello della storia universale, diventa più intensamente di prima allo spirito un rifugio della solitudine dell’umanità» (ibidem); lo Stato «deve individuarsi», e, se «è ancora superiore all’individuo», sa nondimeno «di non esistere che per il suo sviluppo» (II, 3). Dagli hegeliani Lineamenti di filosofia del diritto, Oriani poteva apprendere che lo Stato aveva «nell’ethos […] la propria esistenza immediata», «nell’autocoscienza del singolo, nel sapere e nell’attività del singolo, […] la propria esistenza mediata», e che l’autocoscienza aveva, a sua volta, «la propria Libertà sostanziale nello Stato come nella propria Essenza, come nel fine e nel prodotto della propria attività» (III, 257). Sennonché, per Oriani la collettività non esiste che in funzione della solitudine dell’individuo, vive e ruota, per così dire, intorno ad una quasi disperata aseità che proprio nello Stato, oggettivazione di una spasmodica volontà di potenza, oltre che in una scrittura imponente e debordante, che cresce su se stessa e da se stessa soltanto trae nutrimento, motivazione, conferma16, trova «rifugio», riparo e schermo dal proprio abisso e dalla propria vertigine.
La solitudine della scrittura pervade e intona a sé anche e soprattutto la prosa narrativa e memoriale. In No, ad esempio, Oriani proietta, come spesso accade nella sua opera, la propria sofferta esperienza biografica sulla figura di un’eroina femminile determinata e spregiudicata. La protagonista «prese quel suo no», quel suo rifiuto delle convenzioni sociali e del perbenismo borghese, e, «considerandolo come lo scrittore rivoltola fra le mani la prima copia del suo primo libro, lo ripeté sonoro ed aggressivo» (I, 3): qui l’individualismo esistenziale si lega esplicitamente a quello letterario17. Nel Faust goethiano, ella sentiva, «in fondo all’arte, la gloria di gittare un ponte magico fra il mistero della scienza ed il nulla della vita, il trionfo dell’individuo sulla massa, la supremazia invincibile dell’ingegno sulle forze coalizzate della imbecillità, delle ricchezze e delle gerarchie» (I, 4). La superiorità intellettuale si traduce in solitudine esistenziale ed affettiva: la fanciulla era, quasi come una figura di Maeterlinck, «sola davvero come come una misteriosa prigioniera o una fata anche più misteriosa delle sue leggende favorite, coi servi muti, il mistero intorno, profondendo l’infinito in quella inutile esistenza senza fiori e senza musica» (I, 3). Dopo lunghe letture, «si levava bianca di una tragica serenità, i capelli disciolti, e guatando un’ultima volta il mondo dalla guglia del proprio sublime dolore, si precipitava nella tacita immensità della morte, come una spenta meteora tramonta nel baratro della notte» (I, 4). Può venire in mente, per analogia, un passaggio di Sul pedale, in cui l’autore teme di precipitare, non visto, in un burrone, e trovare così una morte solitaria ed ignorata: «meglio […] andarsene non visto, senza la vanità di voler essere rimpianto dai vivi, e colla sola speranza di non incontrare alcuno fra i morti»18. Viaggiare e «scrivere il viaggio» sono la stessa cosa, e tanto il viaggio quanto la sua trasposizione letteraria sono come esili fili tesi sull’abisso e sul mistero della morte. E lo spettro dell’inutilità, dell’anonimato, dell’annullamento si proietta su tutta l’avventura esistenziale e creativa dell’autore, anzi su di un’esperienza vitale che si risolve totalmente, con una sorta di rivisitazione, in chiave tragica, del mito decadente della vita come opera d’arte, in esperienza letteraria. «Mi sento vecchio, vorrei esserlo il doppio», scriverà l’autore, dalla «solitudine del suo esilio», a Gaetano Ballardini nel maggio del 1907, «per finire più presto in un’altra ombra, in un altro silenzio».
Nella Disfatta, uno dei romanzi più «ricchi di idee» della moderna letteratura italiana, secondo il noto giudizio dato dal Croce nel citato saggio del 1908, tanto la figura di Giorgi, il compositore che «salito ad una seconda vita religiosa scriveva segreti capolavori con l’inguaribile tristezza degli artisti non visitati dalla gloria»19, quanto quella di De Nittis, filosofo altrettanto incompreso e solitario, dedito ad una interminabile Storia di Dio, possono essere annoverate (ferma restando la possibile identificazione, cui già si è accennato, di De Nittis con Angelo Camillo De Meis) fra le varie e diversificate proiezioni autobiografiche di un autore che non seppe, in fondo, parlare che di se stesso, disseminando nelle maschere e nei fantasmi della sua opera le ombre e i drammi, decantati e filtrati in simulacro verbale, del proprio dolore. Non è casuale che Oriani evochi Amiel, il «triste filosofo ginevrino […] vissuto sul margine della gloria»20, inconsapevole di creare, proprio con il suo ignoto e segreto Journal intime, il proprio capolavoro. Ebbene, il Journal intime di Amiel, già utilizzato, anche attraverso gli Essais de psychologie contemporaine di Paul Bourget, dal D’Annunzio del Piacere, offriva un esempio paradigmatico di solitudine della scrittura, intesa come espressione e, nello stesso tempo, oggettivazione, depersonalizzazione, raggelamento dell’individualità creatrice: «Le journal intime me dépersonnalise tellement que je suis pour moi un autre et que j’ai è refaire la connaissance biographique et morale de cet autre. […] Je suis […] une réflexion qui se réfléchit comme deux glaces en face l’une de l’autre. […] Ma veille se connaît comme le rêve d’un rêve». «Le monologue sans frein, sans borne et sans intentions, s’il défend de l’anéantissement, affaiblit néanmoins. […] Cette histoire […] ressemble à une vie manquée»21. Specchio di uno specchio, sogno di un sogno: questi i simboli e gli emblemi di una scrittura che è, a un tempo, strumento di conoscenza di sé e tramite di una spersonalizzazione e di una estraniazione dell’io (il silenzio, dice Oriani ancora nell’Epilogo di Ombre di occaso, «è così insopportabile allo spirito, che per romperlo parla a se stesso», ripetendo e risillabando indefinitamente, dentro di sé, tutta l’angoscia incolmabile del proprio vuoto). Senza uscire dalla Svizzera francese, si può citare anche Rousseau, il «lirico pensatore» evocato da Oriani in Memorie inutili (XLII): nella Première promenade delle Rêveries d’un promeneur solitaire, si legge che l’autore «fixera par l’écriture» le «contemplations» che gli avverranno, e la scrittura, «chaque fois que je les relirai, m’en rendra la jouissance»; la rilettura delle Rêveries «me rappellera la douceur que je goûte à les écrire et, faisant renaître ainsi pour moi le temps passé, doublera pour ainsi dire mon existence». Scrittura, anche qui, come specchio dell’io, come strumento di una sublimazione, di una reduplicazione purificata e illimpidita dell’esistenza e del vissuto, e come mezzo di rievocazione e di reminiscenza, come veicolo di una memoria filtrata e schiarita.
La disfatta si conclude con una pagina splendida, densissima di reminiscenze e di risonanze, da Pascal («le silence éternel de ces espaces infinis me tourmente……») a Leopardi, da Lucrezio («…..noctes vigilare serenas….») al Dante paradisiaco, e scandita da un ritmo prosastico largo e pacato:
I cieli, che narravano la gloria di Dio, ne velano adesso il segreto con una folla di mondi così immensi, che il nostro piccolo globo non vi ha più importanza di un granello di sabbia nel deserto o di un riflesso di luce sul mare. Ma il pensiero umano, sperduto col proprio pianeta nell’infinito, sente che tutto vi naviga ad una meta misteriosa, e il medesimo soffio, che incendia gli astri come fari, dirige le migrazioni delle comete, attraverso i grandi oceani di stelle, per la serenità delle notti. Tutto era silenzio intorno a lui, tutto era morto dentro di lui. […] E allora riprendendo la penna, come un romeo antico il bordone in vista del Santo Sepolcro, si rimise sulla traccia di Dio22.
L’uomo disilluso dalla società e dagli affetti, e che ha visto tramontare speranze e ambizioni, si chiude nel silenzio della scrittura (un silenzio che si fa qui eco dei silenzi cosmici, dei «sovrumani silenzi» e della «profondissima quiete» dell’infinito), si vota definitivamente ad una ricerca spirituale e ad un travaglio meditativo che esistono solo in funzione dell’atto della scrittura, e in tale atto si compiono e si giustificano. Come la melodia sublime ed incompresa del Violino di Quartetto, la linea della scrittura è destinata a sciogliersi, a sprofondare e disperdersi nel buio del silenzio: «i fantasmi delle mie musiche traversano invisibili le sale, e si perdono al di fuori, nella notte, come una processione di defunti»; «coll’audacia di chi ha davanti a se stesso l’eternità, solo, nell’ombra che è già la morte, e nel silenzio che è già l’oblio», il violino urla la sua «indicibile parola» – e a quel punto, tesa e dolorosa metafora della vita e della morte, della voce e del silenzio, la corda si spezza, e una «pallidissima aureola bionda» si china sull’artista, per poi svanire «con la lentezza di un’ombra».
Matteo Veronesi
1 A. Oriani, Viaggio in bicicletta. Con altri scritti di viaggio, prefazione di G. Sanley, Bologna 1986, p. 99. Com’è noto, la situazione testuale dell’opera orianesca è piuttosto problematica. L’Opera omnia di Alfredo Oriani, pubblicata tra il 1923 e il 1933 presso Cappelli di Bologna con il patrocinio e la prefazione generale di Mussolini e introduzioni alle singole opere firmate da figure di spicco della cultura italiana dell’epoca, da Albertazzi a Beltramelli, da Gentile a Ojetti, da Cecchi a Papini, unisce all’evidente strumentalizzazione ideologica un grado a tratti dubbio di affidabilità filologica. Si segnalano, qui di séguito, alcune edizioni più recenti, di cui mi sono talora avvalso per verificare la correttezza delle citazioni: No, Milano 1954; I racconti, a cura di E. Ragni, Roma 1977; Niccolò Machiavelli, a cura di G. M. Barbuto, Napoli 1997; La lotta politica in Italia, a cura di P. G. Permoli, prefazione di G. Spadolini, Bologna 1969 (di quest’opera si segnala anche, oltre all’edizione della «Voce», Firenze 1917-1921, quella curata da A. M. Ghisalberti in occasione del primo centenario della nascita dell’autore, Bologna 1956); La disfatta. Ristampa secondo il testo dell’edizione Treves del 1898, con una nota di M. Boni, Bologna 1989 (della stessa opera, si segnala l’edizione mondadoriana del ’53).
2 Intorno all’atteggiamento della rivista prezzoliniana nei riguardi di Oriani, cfr. M. Boni, Oriani e la Voce. Note e riflessioni, Bologna 1988 (il volume ripropone scritti rari di Ambrosini, Amendola, Prezzolini).
3 Cfr. M. Blanchot, L’espace littéraire, Paris 1955, pp. 13 sgg.
4 A. Oriani, Ombre di occaso, prefazione di M. Missiroli, Bologna 1923, pp. 11, 18, 257, 263.
5 Il riferimento va, in particolare, all’interessante abbozzo giovanile sui Poemi conviviali – anticipatore, per certi aspetti, del celebre saggio del 1909 apparso sulla Romagna – edito in A. Grilli, Serra tra Pascoli e Panzini, Firenze 1956, pp. 12 sgg. (cfr. al riguardo M. Veronesi, «Lieve figura tenue come un soffio». Pascoli e Serra nello specchio dell’estetismo, «Studi Romagnoli», LII, 2001, pp. 1047-1057).
6 M. Missiroli, Prefazione, in A. Oriani, Ombre di occaso, cit., pp. VII e X. Più recenti, e ben altrimenti equilibrate, le pagine, come d’abitudine dotte e signorili, di Marino Biondi, Erudizione e letteratura. Per Augusto Campana e altri studi, Cesena 1999.
7 G. De Robertis, Coscienza letteraria di Renato Serra, in R. Serra, Scritti, a cura di G. De Robertis e A. Grilli, Firenze 1938, p. XXXIX.
8 A. Oriani, Le lettere, a cura di P. Zama, Bologna 1958, p. 214.
9 G. P. Lucini, Scritti critici, a cura di L. Martinelli, Bari 1971, p. 243.
10 Trovo la notizia nel prezioso contributo di E. Dirani, La biblioteca personale di Oriani, in Alfredo Oriani e la cultura del suo tempo, a cura di Idem, Ravenna 1985, p. 266 n. 3.
11 L. Donati, La tragedia di Oriani, Ferrara 1919, p. 5.
12 Cfr. in proposito E. Galli Della Loggia, Alfredo Oriani e «La Rivolta ideale», «I Quaderni del Cardello», 10 (2001), pp. 11-31, ove sono riprese e discusse anche le posizioni di Spadolini (Il «recupero» di Oriani. L’omaggio di Casola Valsenio e della cultura italiana, «Nuova Antologia», 128, 1993, f. 2185, pp. 332 sgg.), che si sforzava di leggere l’Oriani politico in chiave liberale, e di Bobbio (Profilo ideologico del Novecento italiano, seconda edizione ampliata, Torino 1986, pp. 58-61) e Asor Rosa (Storia d’Italia, vol. IV, Dall’Unità a oggi, tomo II, La cultura, ivi 1975, pp. 1074-1075), che al contrario, in modo più radicale il primo, più articolato e problematico il secondo, ne facevano un esponente di certa pretenziosa ed asfittica ideologia piccolo-borghese o, addirittura, un «operaio» della «fabbrica del vuoto» di crociana memoria, un nefasto maestro di nazionalismo e di colonialismo; V. Pesante, Alfredo Oriani, politico della storia, «I Quaderni del Cardello», VII, 1998, pp. 99-123 (che parla giustamente di «letterarietà della politica» e di estetizzazione e ideologizzazione della storia); Idem, Il problema Oriani. Il pensiero storico-politico e le interpretazioni storiografiche, Milano 1996; Alfredo Oriani e la cultura del suo tempo, cit. (in particolare la relazione di M. Ciliberto, secondo il quale Croce si avvicinerebbe ad Oriani spinto da un «distacco» e da una «crisi» tra «mondo storico» e «mondo storiografico», tra la pretesa, positivistica “oggettività” dei fatti e la soggettiva solitudine dell’interpretazione, affini a quelli che travagliavano l’autore della Lotta politica).
13 Le pagine crociane, risalenti al 1908, si leggono in Letteratura della Nuova Italia, vol. III, Roma-Bari 1914-1915, pp. 230-262.
14 A. Oriani, La lotta politica in Italia, vol. II, Bologna 1925, p. 92.
15 Cfr. in proposito S. Mattarelli, Il Mazzini di Alfredo Oriani. Appunti per un percorso, «I Quaderni del Cardello», 13, 2004, pp. 33-49.
16 Sull’aspetto ideologico dell’operazione letteraria di Oriani, la quale sarebbe incentrata su un preciso ideologema – nel senso che il Barthes del Grado zero della scrittura attribuisce a questo termine – che impronta di sé la prosa dell’autore, configurando una vera e propria, e in certo modo organica, «ideologia letteraria», si può vedere S. Corrias, La scrittura critico-filosofica di Alfredo Oriani, «I Quaderni del Cardello», 10 (2001), pp. 141-175 (che insiste peraltro, in un’ottica di estetica della ricezione, sul rapporto fra lo scrittore e il suo reale o potenziale pubblico, più che sugli intendimenti e sugli sforzi della solitaria individualità creatrice).
17 Cfr., circa questo atteggiamento individualistico, O. Barbella, Il romanzo della negazione vendicativa, «I Quaderni del Cardello», 11, 2002, pp. 33-102. «La volontà di attrarre a sé il lettore», osserva la studiosa, «[…] viene […] come neutralizzata dall’ostentazione di un distacco aristocraticistico» (p. 102); si conferma così, ancora una volta, il dato essenziale della solitudine della scrittura.
18 A. Oriani, Viaggio in bicicletta, cit., p. 34.
19 Idem, La disfatta, cit., p. 89
20 Ibidem, p. 118.
21 H.-F. Amiel, Fragments d’un journal intime, introduction de B. Bouvier, Paris 1949, pp. 367 e 376.
22 A. Oriani, La disfatta, cit., p. 262.