Metafore dell'Aids nella letteratura contemporanea: Harold Brodkey, Susan Sontag, Dario Bellezza, Paolo Ruffilli 

(apparso in "Cartapesta", 2004, n. 8, pp. 6-7)

Le taglienti riflessioni sviluppate negli ultimi anni da Susan Sontag (da Malattia come metafora a L’Aids e le sue metafore, riuniti negli Oscar Mondadori sotto il primo titolo) hanno mostrato come i linguaggi della medicina, dei media e, in qualche caso, della stessa letteratura, adibiscano spesso la metafora a mezzo terroristico, a strumento di una specie di sortilegio che avvolge la malattia (il cancro come l’Aids) entro un alone di minaccia inesorabile, di fatale castigo, di degradante contaminazione. 

A questo tipo di metafore della malattia gli scrittori possono però opporre una retorica di segno diverso, non necessariamente minacciosa e intimidatoria, che presenta la malattia non tanto o non solo come un’infermità fisica, un’alterazione organica, ma piuttosto come uno stato esistenziale, una chiave di lettura del reale, a volte addirittura come una paradossale scelta di vita, una forma di allontanamento dal mondo, una condizione sospesa ed estatica che prelude alla creazione: basti pensare a certe pagine decadenti (il Baudelaire degli scritti su Poe, il D’Annunzio del Piacere, il Mann della Montagna incantata), o al mito crepuscolare del “mal sottile”, o ancora alla malattia sveviana, intesa come “convinzione”, disagio psicologico, esasperata attitudine autoananalitica che paralizza l’azione. 

Negli anni Ottanta, l’irrompere dell’Aids ha suggerito agli scrittori un nuovo impiego della retorica della malattia. 

Qualcuno ricorderà, in proposito, certi versi di Libro di poesia di Dario Bellezza, in cui l’Aids appariva personificato come un “nero angelo” che recava con sé un iniquo e paradossale castigo destinato ai “vecchi peccatori di un minuto”, e il poeta, quasi delineando una fosca profezia del proprio destino, chiedeva di essere “leccato” e “bevuto” dal morbo.

L’Aids è divenuto uno dei temi ricorrenti della narrativa d’ispirazione minimalista, che ha nella deriva e nella dispersione dei significati, nel frenetico spostamento dei centri e dei punti di riferimento, nella disgregazione delle strutture, uno dei suoi elementi essenziali; quasi che la malattia, con le ferite e le deturpazioni che infligge alle carni, non potesse trovare una compiuta espressione letteraria se non attraverso una scrittura analogamente lacerata, dilaniata, decostruita.

Nondimeno, anche davanti alla sofferenza e all’orrore, la parola letteraria può conservare un suo spessore e una sua dignità. 

Ne sono testimonianza due volumi usciti recentemente, il cui accostamento, dovuto al tema (l’Aids, appunto) è reso allettante anche e proprio dalla diversità di formazione, indole e vicende individuali che divide i due scrittori. 

Il primo dei due libri in questione è Questo buio feroce (storia della mia morte) di Harold Brodkey, una sorta di allucinato diario d’infermità scritto nell’imminenza della morte ormai certa, dopo la diagnosi di malattia conclamata. In questo senso, Questo buio feroce rappresenta quasi un’estrema, cupa propaggine, tesa fino alla soglie del buio, dell’effuso discorso autobiografico già sviluppato nel romanzo fiume The runaway soul

E si ritrova qui - per quanto ormai impallidita, prossima alla definitiva disgregazione - la stessa immagine che Brodkey volle lasciare di sé in quell’opera più vasta: il ritratto di uno scrittore ribelle e maledetto, che aveva alle spalle una giovinezza segnata dall’inquietudine, dall’estraneità, dalla diversità sessuale e caratteriale, e che proprio della diversità faceva la propria bandiera, la propria maschera, il proprio difficile tramite per rapportarsi con il mondo della comunicazione. 

La scrittura si snoda lungo l’esile lembo di luce che separa la vita dalla morte, la voce dalla quiete. La parola batte alle porte del silenzio, “un silenzio dolcemente indiscreto e irresistibile”, in cui l’autore intreccia con se stesso un “dialogo muto”, e che è poi anche il “silenzio di Dio”, che egli ha sempre avvertito, condizionato in questo anche dalle sue radici ebraiche. 

E l’imminenza della morte segna anche la percezione del tempo, che diviene “durata reale”, tempo dell’anima, dello scavo interiore, della rievocazione autobiografica a volte impietosa, tutta giocata sul “tremolio di questo limite del tempo che ti rimane”; un tempo che a volte - segnato com’è dall’”andirivieni dei significati” - appare privo di ordine e di senso. 

Ci si può chiedere che cosa resti, che cosa vada immune da questo ”andirivieni dei significati”. Ciò che permane, ciò in cui l’autore continua a nutrire un’incrollabile, quasi umanistica fiducia, è la scrittura, il linguaggio, con la sua “immediatezza ammiccante e debolmente radiosa”, il suo potere quasi narcotico. L’autore si definisce un “tossicodipendente del linguaggio”, pervaso da “un desiderio struggente delle parole degli altri, di amare gli altri per le loro parole”. 

È proprio il tema della malattia e della morte ad accomunare l’opera di Brodkey a quella di uno scrittore da lui tanto diverso per indole, sensibilità e formazione, cioè Paolo Ruffilli, autore del poemetto La gioia e il lutto. Passione e morte per Aids

In questa raccolta è possibile ritrovare, anche sulla scorta della prefazione di Pier Vincenzo Mengaldo, lo stesso respiro metrico che animava le prove precedenti, da Piccola colazione a Diario di Normandia a Camera oscura: un inconfondibile verso breve, che raramente eccede la misura dell’ottonario, e che può svariare, volta a volta, con grande versatilità, da un andamento melodico e cantabile, che si direbbe rievochi certe serene e limpide armonie settecentesche, ad un’essenzialità lirica e ad una concisione rastremata che ricordano Ungaretti, per arrivare a volte ad un gusto postmoderno per il frammento, l’aforisma, la scrittura segmentata e nervosa (era Roland Barthes a parlare, a proposito di un precedente lavoro dell’autore, di una scrittura intesa come “spazio di morte” e “lettera della trafittura”).

Il poeta coglie il tragico paradosso di un male –  “delitto atroce” di una leopardiana “natura indifferente” – che costringe i genitori a piangere i figli: “i padri seppelliscono / i figli, si prendono cura / delle loro vite perdute, / li stringono feriti / fra le braccia, li / vegliano morenti”. 

Sennonché, uno dei messaggi più forti e più limpidi che emergono da libro è proprio la compenetrazione di morte e vita, la percezione (presente anche nella Montagna incantata) che la vita trae alimento dalla morte, e che l’esperienza della morte può essere iniziazione alla vita: la morte non è se non “l’altra faccia / rimasta in ombra / della vita”; “il lutto / chiama la vita, non altra morte”. 

Ruffilli, che tra le altre cose ha tradotto Il Profeta di Gibran e il Tao-teh-ching, sembra avere appreso dall’uno che il segreto della morte va cercato “nel cuore della vita”, “perché la vita e la morte sono una cosa sola, così come una cosa sola sono il fiume e il mare”, dall’altro che “Essere e non-essere si generano l’un l’altro”. 

Né manca, in quest’idea dell’essere vivente che muore “per essere rinato” e si consuma “per essere risorto”, un possibile richiamo alla concezione del Cristo primogenitus mortuorum, dell’uomo che “muore corpo mortale” e “rinasce corpo spirituale”.

E il discorso poetico di Ruffilli si risolve infine in un’apoteosi di luce e di silenziosa armonia cosmica, che può ricordare il “miro gurge” e il “lume in forma di rivera” del Paradiso dantesco, così come certe folgoranti epifanie dei Four Quartets di Eliot. Oltre la morte, dice il poeta, “nello splendore / cosciente della luce”, “fluisce un grande / fiume di energia / che spande e che riversa / oltre le porte / l’eterno nel presente”.


                                                                                                                       Matteo Veronesi