(apparso dapprima in Punto. Almanacco della poesia italiana)
Questo finissimo, coeso volume (nuova tappa di quella poésie ininterrompue, di quel carmen perpetuum, di quell’assiduo e sommesso colloquio con il profondo del proprio vissuto e della propria interiorità, così come, più e prima ancóra, con l’essenza stessa, prelinguistica e linguistica insieme, della Parola, che da anni Silvio Ramat conduce, partendo dalle premesse dell’ermetismo e dalla grande lezione di Bigongiari, ma recandovi una più diretta e sentita nota autobiografica, di romanzo familiare, di cronaca nel senso più alto, quasi medievale, metastorico, del termine) ripercorre, nella forma del “diario in versi”, o forse di un moderno machiavelliano “decennale”, l’esperienza che ha legato il poeta al mondo dell’istruzione, da scolaro a studente a docente liceale ed universitario.
Come il protagonista di un racconto di Borges, Ramat, memorioso, vittima della voluttuosa condanna a ricordare finanche i minimi dettagli, anche quelli più marginali e grigi, della sua vita e della sua esperienza ‒ o, se si vuole, assorto, come il giovane Dante, nel «libro de la sua memoria», tante volte ripercorso e «cercato» ‒, ci involge, direbbe il Borgese lettore di Proust, nel «miele del sonno», nella sublime, ondulante e dolcissima monotonia di un mormorio rimemorante, di una sorta di soliloquio affidato alla pagina, di discorso solitario al quale però ci è dato, da lettori, assistere (l’atto della lettura è, in fondo, dice Brodskij, incontro e confronto di due solitudini, che si fondono e si specchiano e si autenticano vicendevolmente).
Questo libro è l’ideale, affinata e letterariamente sorvegliata (in un endecasillabo metricamente impeccabile, eppure segretamente e sottilmente innovativo, per il modo in cui, con frequentissimi enjambement e con accentazioni sovente anomale, accoglie il ritmo discontinuo del parlato calandolo però nella misura predestinata, quasi sovratemporale, del metro antico, codificato ed inclito, pur se ridotto, in molti casi, a non più che ad una lontana reminiscenza, una traccia, un’eco, una sinopia) prosecuzione di quel «flusso di righe» che l’autore bambino tracciava, nella «lingua materna», «per amor delle parole», sulla sua agenda.
La storia individuale si intreccia a quella collettiva ‒ o meglio è, all’interno di essa, come una cella minuta e riparata. «Corre / l’ottobre del Quarantacinque. Fuori, / pacificato ufficialmente il mondo. / Dentro, c’è la maestra. Io la conosco».
Il tempo sembra correre a ritroso, a partire dal dopo, dal quasi-presente, come nell’antologia del Flora, Le stagioni e le Muse, letta da ragazzo; le geometrie della vita (giacché «ogni vita / s’imbatte in molti angoli e figure / non però della specie astratta e assurda») non seguono un ordine euclideo, ma si piegano alle movenze del cuore, ai soprassalti della memoria, alle prospettive, alle proporzioni e alle proiezioni della memoria e del vissuto.
Irrompono, a volte, nella rievocazione le improvvise epifanie della Bellezza, anche se mai pienamente attingibile: «Quel Pisanello: / in alto, troppo in alto, per goderlo / pienamente. Eppure toccò il colmo / la mia emozione, mai più cancellata».
All’Università, fra le altre cose, l’incontro con Eliot, in séguito al quale «il poeta / che in me spremeva la sua incerta vena / a quell’intreccio di lirismo e prosa, / di libresco e vissuto, rimaneva / a bocca aperta, sbalestrato». «Così l’amore / dell’arduo e del moderno penetrava / in alcuni di noi, seme non vano».
Anche la tragedia si insinua, quasi come un dettaglio, in questa sonore, vaine et monotone ligne, in questo quasi ipnotico rimemorare, scandito e quasi necessitato dall’inanellarsi del metro. «...tragica / la sorte: arso e perduto mio padre / sull’Autostrada del Sole, il 2 maggio» (dove rotante, sibilante e dentale evocano, fonosemanticamente, durezza, fatalità, eterno ritorno della memoria e del destino, pace del silenzio ‒ e la data è in cifra, con una freddezza quasi burocratica, o meglio con la nettezza e la scarna nudità del fato già compiuto).
Il poeta è lo scriba di se stesso, parla di se stesso come di un altro. «Nulla nessuno in nessun luogo mai» (come in un archivio poetico, in una poesia che dell’archivio ha l’inesorabile immutabilità, la tragicità a posteriori, pacificata), per citare un verso di Sereni riportato in esergo ad Ironia immeritata su un antico me stesso, un testo de Gli sproni ardenti che già profila, pur se all’interno di un lirismo evocativo di stampo ancora ermetico, quella dissociazione/ricomposizione, quella coincidenza/divaricazione, di presente e passato, di io presente e io passato, di presente della rievocazione e passato del vissuto, che animano le ultime raccolte del poeta: «La vita / fresca fluisce altrove, fango argilla / ghiaia, come tutto scorre lontano / da questo affresco» (quasi come nell’amato Montale: «Si deforma il passato, si fa vecchio, / appartiene ad un altro»; «Ne tengo un capo; ma tu resti sola / né qui respiri nell’oscurità»).
Questa nuova raccolta (che si apre alla narrazione, quasi al romanzo in versi, ma arioso, lirico, meditativo, rimemorante, come in Bertolucci, e come già nel Ramat di Mia madre un secolo) sembra quasi costituire una sorta di dittico con Il Canzoniere dell’amico espatriato, edito nel 2009 da Viennepierre. Lì il metro era la quartina di endecasillabi, rimata, con richiami all’epigramma greco come ad Omar Khayyam: una misura, perfettamente dominata nella forma come nello spirito, che spingeva, e quasi forzava, data la sua brevità, ad una maggiore concisione, ad una più sorvegliata e condensata essenzialità lirica. Il poeta, nella classica finzione del manoscritto che un amico gli invierebbe d’oltreoceano, è il proprio stesso alter ego: una sorta di vita parallela, immaginata, possibile, di spazio-tempo virtuale o di dimensione parallela in cui si muoverebbe la parola poetica.
«Come in un paradosso di Zenone», in cui lo spazio-tempo è indefinitamente ed infinitamente sminuzzato e spezzettato in infinitesime unità, tanto da non poter mai essere colmato e pienamente percorso, così è anche del vissuto interiore, che la parola poetica può perlustrare infinitamente senza mai giungere al limite e al confine ultimo. Il «lunghissimo addio» non è separazione, ma permanenza; o una separazione che permane, un allontanamento interminabile, che si converte in perpetua vicinanza/lontananza ‒ lontananza nello spazio-tempo, prossimità nel ricordo. «Lo spazio è futile, il tempo una fola». «Rileggo la mia vita rigo a rigo».
Come in Bigongiari, e in Blanchot, e secondo quanto già si leggeva in Corpo e cosmo, una raccolta precedente, la scrittura è un altrove, un doppio, una dimensione altra, inesauribile come le dimensioni di un multiverso o le vite possibili che ogni esistenza determinata, come principium individuationis, esclude, e insieme presuppone e sottende.
Nell’Arquà di Petrarca, «Uno spazio rimane vivo altrove». «È il margine / della pagina appresa, è il bianco tutto da scrivere, / il fondo a cui ancorarsi, l’oscuro da non chiarire». Il giorno presente era legato, dal filo sottile della scrittura, al tempo intemporale affondato «nel blu notte del sonno giottesco». Il segno «scolpisce l’infinito». «La notte non è frattura / mentre satura la stanza del suo azzurro, eterno virtuale». La scrittura è un bianco nulla che si colma d’azzurro, un vuoto che si fa soglia d’alterità ‒ alterità individuale, altro-da-sé e se-stesso-come-altro, ma forse, allusivamente, analogicamente e anagogicamente, anche totaliter Aliud come entità metafisica.
Ancora, in Orto e nido: dall’assonanza notte/morte il Soggetto si rifugia «nel grembo / dell’Indistinta Citazione» ‒ Citazione, borgesianamente, dal passato e insieme da se stessi, dal Sé e dall’Altro, sia esso Essere oppure Nulla.
Il poeta ‒ cito ancora dalla nota finale di Orto e nido ‒, diviso fra la dantesca «speranza de l’altezza» e l’onnipresente, tutta moderna, post-baudelairiana, post-mallarmeana, «eventualità dell’Abisso», continua a perseguire felicemente la sua «tentazione poematica», il suo Livre, il suo alchemico Opus Magnum, il disegno apparentemente predeterminato e predestinato (eppure realizzato a poco a poco, di decennio in decennio, di raccolta in raccolta, per continui ripensamenti, per reiterate svolte, per sottili mutamenti di direzione) di un cammino in apparenza omogeneo, incardinato su modelli ben precisi, da Montale agli ermetici (o meglio alla “terza generazione”).
«Fino all’ultima sillaba, / srotolando il messaggio di me stesso / che non conosco». Obscurum per obscurius, ignotum per ignotius, sempre secondo quella simbologia alchemica cara agli ermetici come prima di loro ai simbolisti; un’autocoscienza esistenziale e letteraria che si fa apocalittico volumen, rinsaldando o sovvertendo l’inizio e la fine, il prima e il poi, nel gorgo luminoso e cieco della scrittura.
Ma infine, su questi Banchi di prova, deve calare, non senza una sottile amarezza, il «sipario». «Ma altre cattedre / e altri banchi, per mesi e anni, mi accadde / di sognare e rimpiangere». «Occorrono troppe vite per farne una»; «La tua favola è ancora troppo breve / se ti contiene»: ancora Montale. Ogni esistenza, nell’infinito del possibile, ne esclude infinite altre. E l’amarezza di ogni esistenza, l’hegeliana “coscienza infelice”, è data proprio dall’impossibilità di abbracciare, interiorizzare e far proprio l’infinito del possibile. Così come l’arte stessa del poeta, il suo scrivere, sono di per sé, come fu detto, rinuncia: ogni parola, ogni verso, come ogni scelta di vita, esclude altre possibilità, altre scelte, altre vie, virtualmente indefinite, poiché sterminate, impossibili da tracciare, sono le geometrie della vita. La difficoltà innegabile di un poeta come Ramat sta, forse, proprio in ciò che il suo dettato ha escluso, e dunque sottintende; nella profondità del non detto, celata, come diceva un grande maestro fiorentino, Giuseppe De Robertis, «fra sillaba e sillaba», nel bianco, nello iato, nel silenzio.