27 gennaio 2022.

Giornata della Memoria (1945-2022)
a cura della redazione

Musica e parole.

Che poi non è solo musica e non sono solo parole…

E’ fare memoria.


Stamattina nei corridoi della nostra scuola abbiamo fatto memoria di ciò che è stata la deportazione nei campi di concentramento.

Lo abbiamo fatto insieme, grazie ad alcuni ragazzi e ad alcuni insegnanti, che hanno dato voce alle parole di Liliana Segre "Fino a quando la mia stella brillerà"e di un quattordicenne "Lettera da Chaim", entrambi deportati nel lager.

Le letture sono state accompagnate da due brani musicali tratti dal repertorio yiddish: "Laila Laila" e "Hora medura".

Musica, parole e occhi attenti…

Per non dimenticare il grande compito che ciascuno di noi ha: vegliare sul diritto di essere ragazzi e ragazze liberi!

A voi la lettura....e l'ascolto...


“Ad Auschwitz superai la selezione per tre volte. Quando ci chiamavano sapevamo che era per decidere se eravamo ancora utili e potevamo andare avanti, o se eravamo vecchi pezzi irrecuperabili. Da buttare. Era un momento terribile. Bastava un cenno ed eri salvo, un altro ti condannava. Dovevamo metterci in fila, nude, passare davanti a due SS e a un medico nazista. Ci aprivano la bocca, ci esaminavano in ogni angolo del corpo per vedere se potevamo ancora lavorare. Chi era troppo stanca o troppo magra, o ferita, veniva eliminata. Bastavano pochi secondi agli aguzzini per capire se era meglio farci morire o farci vivere. Io vedevo le altre, orrendi scheletri impauriti, e sapevo di essere come loro. Gli ufficiali e i medici erano sempre eleganti, impeccabili e tirati a lucido, in pace con la loro coscienza. Era sufficiente un cenno del capo degli aguzzini, che voleva dire “avanti”, ed eri salva. Io pensavo solo a questo quando ero lì, a quel cenno. Ero felice quando arrivava, perché avevo tredici anni, poi quattordici. Volevo vivere. Ricordo la prima selezione. Dopo avermi analizzata il medico notò una cicatrice. «Forse mi manderà a morte per questa…» pensai e mi venne il panico. Lui mi chiese di dove fossi e io con un filo di voce ma, cercando di restare calma, risposi che ero italiana. Trattenevo il respiro. Dopo aver riso, insieme agli altri, del medico italiano che mi aveva fatto quella orrenda cicatrice, il dottore nazista mi fece cenno di andare avanti. Significava che avevo passato la selezione! Ero viva, viva, viva! Ero così felice di poter tornare nel campo che tutto mi sembrava più facile. Poi vidi Janine. Era una ragazza francese, erano mesi che lavoravamo una accanto all’altra nella fabbrica di munizioni. Janine era addetta alla macchina che tagliava l’acciaio. Qualche giorno prima quella maledetta macchina le aveva tranciato le prime falangi di due dita. Lei andò davanti agli aguzzini, nuda, cercando di nascondere la sua mutilazione. Ma quelli le videro subito le dita ferite e presero il suo numero tatuato sul corpo nudo. Voleva dire che la mandavano a morire. Janine non sarebbe tornata nel campo. Janine non era un’estranea per me, la vedevo tutti i giorni, avevamo scambiato qualche frase, ci sorridevamo per salutarci. Eppure non le dissi niente. Non mi voltai quando la portarono via. Non le dissi addio. Avevo paura di uscire dall’invisibilità nella quale mi nascondevo, feci finta di niente e ricominciai a mettere una gamba dietro l’altra e camminare, pur di vivere. Racconto sempre la storia di Janine. È un rimorso che mi porto dentro. Il rimorso di non aver avuto il coraggio di dirle addio. Di farle sentire, in quel momento che Janine stava andando a morire, che la sua vita era importante per me. Che noi non eravamo come gli aguzzini ma ci sentivamo, ancora e nonostante tutto, capaci di amare. Invece non lo feci. Il rimorso non mi diede pace per tanto, tanto tempo. Sapevo che nel momento in cui non avevo avuto il coraggio di dire addio a Janine, avevano vinto loro, i nostri aguzzini, perché ci avevano privati della nostra umanità e della pietà verso un altro essere umano. Era questa la loro vittoria, era questo il loro obiettivo: annientare la nostra umanità.”


Tratto da "Fino a quando la mia stella brillerà", di Liliana Segre



Miei cari genitori,

se il cielo fosse carta e tutti i mari del mondo inchiostro,

non potrei descrivervi le mie sofferenze e tutto ciò che vedo intorno a me.

Il campo si trova in una radura.

Sin dal mattino ci cacciano al lavoro nella foresta.

I miei piedi sanguinano perché ci hanno portato via le scarpe..

Tutto il giorno lavoriamo quasi senza mangiare e la notte dormiamo sulla terra,

ci hanno portato via anche i nostri mantelli.

Ogni notte soldati ubriachi vengono a picchiarci con bastoni di legno

e il mio corpo è pieno di lividi come un pezzo di legno bruciacchiato.

Alle volte ci gettano qualche carota cruda, una barbabietola, ed è una vergogna:

ci si batte per averne un pezzetto e persino qualche foglia.

L'altro giorno due ragazzi sono scappati, allora ci hanno messo in fila e ogni quinto della fila veniva fucilato...

Io non ero il quinto, ma so che non uscirò vivo di qui.

Dico addio a tutti, cara mamma, caro papà, mie sorelle e miei fratelli, e piango...

Lettera da Chaim, ragazzo di 14 anni dal lagher di Pustkow


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