TI RACCONTO UN GIUSTO

Attraverso l’iniziativa ‘’Ti presento un giusto’’, i ragazzi di 3A vogliono rendere testimonianza ai Giusti tra le Nazioni, raccontando in prima persona le vicende di alcuni di questi uomini e donne, esempi di coraggio, solidarietà e umanità. Con il termine ‘’Giusti tra le nazioni’’ si indicano infatti tutti i non-ebrei che nel corso della seconda guerra mondiale agirono in modo eroico, mettendo a rischio la propria vita per salvare anche un solo ebreo dal genocidio nazista della Shoah. A partire dal 1962, quella di ‘’Giusto’’ è inoltre un'onorificenza conferita dal Memoriale ufficiale di Israele Yad Vashem, ente ufficiale che protegge e conserva tutti i dati relativi alla Shoah. Le loro voci sono dunque voci di speranza, voci di chi non si fece vincere dal disinteresse e riuscì a comprendere che l’indifferenza talvolta può essere più temibile della morte.

Caterina Frigo, 5 CL


GINO BARTALI

Mi chiamo Gino Bartali, la bicicletta è la mia forza: le gambe mi spingono veloce, la mente ed il cuore mi spronano per superare la fatica. So di poter salvare la vita di quegli ebrei che mi stanno aspettando.

Oggi, 23 marzo 1944, sto partendo da Cortona. È l’alba e devo arrivare ad Assisi. Ci vorranno circa 5 ore: ho già fatto questo percorso a tappe, per allenarmi. Ad Assisi dovrò consegnare i documenti falsificati che consentiranno ad una famiglia di fuggire alle persecuzioni naziste, espatriando in Israele. Ho nascosto i documenti falsi nel manubrio e nella sella della mia bicicletta. Nessuno sospetterà di un’atleta…Questi documenti mi sono stati dati dagli amici di don Angelo Elia Dalla Costa. Una tipografia di Città di Castello lavora senza sosta, segretamente, per la stampa di documenti che salveranno la vita a molte persone.

Si è creata una rete ebraico-cristiana e io mi muovo tra i raggi di questa rete con la mia bicicletta, che è diventata uno strumento di liberazione a seguito dell’occupazione tedesca e dell’avvio della deportazione degli ebrei.

Questa guerra ha cambiato ogni cosa, i carri armati attraversano le strade della mia città, irriconoscibile ai suoi stessi abitanti, smembrata e violentata nell’anima. Non posso guardare immobile lo scempio della guerra con le mie medaglie al collo! Voglio che il mio talento diventi un dono per coloro che hanno perso tutto, per coloro che non vengono più considerati come esseri umani. I trofei devono avere un senso. 

Il successo nel salvare vite sarà silenzioso, segreto, palpiterà in me e scorrerà nel sangue di chi riuscirò a salvare, di chi resterà vivo.

Con la bicicletta io prendo parte alla resistenza contro gli orrori di questi anni. 

Il bene si fa, ma non si dice. 

La mia staffetta continua sui pedali, per condurre alla pace, alla vita; il mio percorso deve essere il filo che ricuce l’Italia, squarciata dalla guerra. Non esistono differenze tra gli uomini, agli occhi di Dio siamo tutti uguali.

Anna Dal Dosso, 3 A


LUCIANO SERTI

MI chiamo Luciano Serti. Ho sempre pensato che una delle cose più belle della vita fosse la gioia che ciò che facciamo sia utile a qualcuno o a qualcosa, che rimanga nei cuori e nella memoria di chi si prepara alla vita.

Era l’anno 1938 ed io ero un qualunque docente di italiano e latino presso il liceo “Francesco Petrarca” di Trieste quando vennero promulgate le leggi razziali del regime fascista nella piazza della mia città.

Ho sempre posto fede nei valori di una civiltà democratica, sono sempre stato parte dell’antifascismo ed è proprio per questo motivo che ho deciso di mettere a rischio me stesso per poter aiutare chi, quelle leggi, voleva colpire.

Per effetto delle leggi razziali una mia studentessa, Bruna Levi Schreiber, come tanti altri ormai, fu espulsa dalla scuola perché ebrea, espulsione che, per calpestare la sua dignità, iniziava dal negarle la possibilità di conseguire un diploma meritato. È stato un evento forte che mi ha scosso e mi ha fatto muovere affinché la mia esistenza e il mio lavoro non fossero inutili, e le mie azioni producessero quel piccolo spiraglio di speranza per chi, come me, crede nel bene. Ho così deciso di aiutare questa giovane offrendole la possibilità di continuare lo studio attraverso lezioni private con me. 

Non si trattava però di semplice studio della materia in questione, erano per me vere e proprie lezioni di vita che rappresentarono un puntino di luce nel buio immenso. Ho messo a rischio la mia carriera pur di aiutare tutti quelli che a causa di un regime sbagliato subiscono ingiustizie, in fede di un futuro migliore e uguale per tutti. Qual è il compito di un docente, di un insegnante, di colui che forma? Pretendere che gli studenti imparino e ricordino o far sì che ragionino grazie a coloro che hanno cercato di prepararci a comprendere il bello e il vero?

Se non avessi aiutato Bruna avrei tolto un senso alla mia vita, perché la vita non sempre si  può scegliere, questo ci ha insegnato il nazismo, ma si può scegliere di darle un senso e questo ce l’hanno insegnato quei tanti genitori ebrei che di fronte alla morte preannunciata dalle guardie tedesche, in quegli anni bui, stringevano la mano ai loro bambini raccontando loro storie meravigliose... così, per distrarli dall’orrore e dare un significato fiabesco alla loro vita, momenti prima di chiudere gli occhi per sempre.

Dunque, io non ho fatto nulla, se non dare un senso alla mia vita e al mio lavoro perché davvero credo che in questo mondo siamo tutti fratelli.

Cosa potevo insegnare ai miei studenti di fronte a tanto orrore se non a credere che il bello esiste come il giusto e che entrambi, vanno perseguiti, sempre!?

Greta Munno, 3 A


CLELIA CALIGIURI

Follina, 1943

Caro Renato,

Oggi con le nostre figlie ci siamo spostate sulle Prealpi, sotto consiglio del medico. La più piccola è malata e la frescura di questo luogo l’aiuterà.

Oltre ad aver scelto l’appartamento che sarà la nostra casa per ora, ho incontrato una donna. Non mi ha rivelato nulla della sua identità ma dai suoi comportamenti ho capito che è spaventata e che qualcosa non va nella sua vita. Piano piano abbiamo fatto amicizia. Si chiama Sara Karliner. Sai, non è stato facile convincerla a raccontare di sé. Mi ha fatto promettere di non rivelare a nessuno la sua storia, ma tu, mio amore, tu puoi sapere. Sara è un’ebrea jugoslava, è scappata da Zagabria due anni fa, nel 1941, un anno dopo la tua triste morte. Mi ha raccontato che ha una sorella, ma non sa dove si trovi, ma ha intenzione di cercarla appena la guerra finirà. 

Domani ho intenzione di compiere qualcosa di pericoloso, non credo che ti piacerà.


9 settembre 1943, Piavon

Siamo tornate a casa. Le bambine erano così felici! Non smettevano di canticchiare e correre su e giù per le scale che ormai stanno cadendo a pezzi perché tu non le hai mai riparate.

Sarina ora è al sicuro, ieri l’ho fatta scappare. Le forze dell’ordine la tenevano confinata a Follina a causa delle leggi razziali. Qui a Piavon siamo tutti spaventati: l’Italia è divisa tra nord e centro-sud e qui comandano i nazi-fascisti. Abbiamo paura, non sappiamo se quello che arriverà domani sarà il futuro o la fine. E se io ho paura non riesco a pensare a Sara e a tutte le persone che non hanno fatto nulla di sbagliato e che vengono perseguitate, catturate, uccise senza un motivo valido.

Alla paura che provo io, per loro si aggiungono di certo terrore, rabbia, angoscia.

Sara si trova bene qui a casa. Una volta ho scorto un sorriso sul suo volto e ho sentito il mio cuore battere più forte. Ora fa parte della nostra famiglia. Ora fa parte di me.


Novembre 1944

Abbiamo passato delle settimane movimentate: truppe tedesche si trovano non lontane da qui. Tu mi conosci molto bene e non sarai sorpreso di sapere che ho convinto Don Giovanni ad ospitare Sara. Questa sera l’ho portata lì. È diverso senza di lei qui, manca sia a me che alle bambine, ma io le porto soldi e cibo due volte la settimana.


Dicembre 1944

Oggi stavamo andando tutte assieme, io e le bambine, a trovare Sara. Ci hanno fermate. Non pensavo che stessero controllando i miei spostamenti, invece mi hanno notata. Sentivo il cuore fino dentro le orecchie, non riuscivo a respirare, Pensavo che le bambine avrebbero detto qualcosa, se l’avessero fatto saremmo potute morire o noi, o Sara. Non è accaduto. Per fortuna ho inventato che andavamo a pregare per la tua morte. Ci hanno lasciato andare. Siamo al sicuro. Sara è al sicuro.


1945

È finita, la guerra è finita. Sara ha scoperto che sua sorella si trova a Bologna, parte domani e poi andranno in Israele. Sono così contenta, anche se non credo la vedrò più, ma lei è libera ora. Tutti siamo liberi.

Priscilla Rossignoli, 3 A


WILM HOSENFELD

Sono Wilm Hosenfeld e nel dicembre 2008 fui annoverato come Giusto tra le nazioni. Avevo già combattuto nella prima guerra mondiale, ma nella vita facevo l’insegnante, in particolare delle elementari: quel lavoro mi piaceva, adoravo stare con i bambini, le persone mi consideravano gentile, cortese e affettuoso, la persona adatta a quel ruolo.

Durante la seconda guerra mondiale servii il mio paese nel partito nazista e arrivai perfino ad ottenere il ruolo di capitano nella Wehrmacht. Lavorai principalmente in Polonia, ma sapevo di non essere dalla parte giusta, di contribuire a fare qualcosa di orribile a moltissimi innocenti. la mia volontà allora fu quella di aiutare chi stava subendo un genocidio. 

Allora decisi di agire, anche se il prezzo era rischiare la mia vita tutte le volte che ne salvavo una, come quella volta in cui salvai un ragazzino che doveva essere fucilato, rischiando io stesso quella sorte; o quando quel ragazzo scappò dal treno di deportazione e per salvarlo lo assoldai sotto falso nome al mio servizio, inoltre comprai cibo, vestiti e scarpe per i bambini, nella speranza che gli inverni polacchi sembrassero un po’ meno freddi. 

Tra le persone che salvai trovai anche un amico, Stanislaw, un soldato, conobbi tutta la sua famiglia, salvai anche un prete suo parente; questa esperienza di un legame così forte con una di quelle persone che avrei dovuto considerare mio nemico mi aiutò a comprendere ancora meglio l’enorme follia che la guerra rappresentava e ad avere la conferma che stavo facendo la cosa giusta. 

Salvai anche un pianista, Władysław Szpilman, che è anche la persona per cui sono ricordato; lui si stava nascondendo da noi nazisti quando un giorno lo trovai, il mio compito sarebbe stato quello di fucilarlo all’istante, senza alcuna esitazione, ma ovviamente non lo feci, poi era anche bravino a suonare, sarebbe stato uno spreco di talento; perciò innanzitutto lo aiutai a nascondersi meglio, poi gli portai cibo, vestiti e coperte. Lui disse questo di me “l’unico essere umano con addosso l’uniforme tedesca che io abbia mai conosciuto”, probabilmente era vero, ero l’unico che avesse conosciuto, ma nel mondo c’erano molti altri tedeschi che sapevano riconoscere la giustizia.

Fui catturato il 17 gennaio 1945 dai soldati sovietici a Błonie, non lontano da Varsavia, fui condannato a 25 anni di lavori forzati per crimini di guerra solo sulla base d’appartenenza al partito nazista e nonostante vari ebrei polacchi firmassero petizioni in mio favore, i sovietici continuarono a ritenermi responsabile di crimini di guerra. Morii il mattino del 13 agosto 1952 mentre ero sotto tortura in un campo di lavoro presso Stalingrado. 


“Ora noi abbiamo sulla coscienza sanguinosi crimini a causa delle orribili ingiustizie commesse nell’assassinare i cittadini ebrei” […] “Come siamo codardi a pensare innanzitutto a noi stessi e a permettere che ciò accada. Dovremmo essere puniti per questo” […] “Noi permettiamo che vengano commessi simili crimini, rendendocene complici” […]  “Perché Dio non interviene?” […] “Quando i nazisti sono saliti al potere non abbiamo fatto nulla per fermarli. Abbiamo tradito i nostri ideali e ora noi tutti dobbiamo accettarne le conseguenze”.

Michele Savio, 3 A


CARLO ANGELA

Mi chiamo Carlo Angela e sono nato da una famiglia contadina a Olcenengo. Laureatomi in medicina nel 1899 all'Università di Torino, sono stato ufficiale medico della Croce Rossa Italiana. 

Ho prestato servizio durante la prima guerra mondiale presso l'ospedale territoriale "Vittorio Emanuele III" di Torino e presso il Comitato regionale della Croce Rossa Italiana di Torino, ottenendo due Croci al Merito di Guerra.

Appassionato di politica ho aderito al movimento della Democrazia Sociale, perché credevo molto negli ideali di fratellanza tra gli uomini, contro ogni forma di schiavitù. Sono stato contrario al fascismo e dopo l'assassinio di Giacomo Matteotti, nel giugno del 1924, ho accusato i fascisti sul settimanale Tempi Nuovi per il nefando delitto che aveva macchiato indelebilmente l'onore nazionale.

Dopo alcuni anni passati come medico condotto del piccolo paese di Bognanco, in Val d'Ossola, durante il periodo della dittatura fascista mi sono trasferito a San Maurizio Canavese, con l'incarico di direttore sanitario della casa di cura per malattie mentali "Villa Turina Amione". Fu qui che, durante l'occupazione tedesca e la Repubblica Sociale Italiana di Mussolini, ho offerto rifugio a numerosi antifascisti ed ebrei, falsificando le cartelle cliniche e facendo fingere loro di essere malati, per giustificarne il ricovero. Sospettato dalla polizia fascista, fui convocato e interrogato a Torino e rischiai anche la fucilazione.

Fui sindaco di San Maurizio Canavese e poi divenni presidente dell'ospedale Molinette di Torino.

Mi è stata conferita l'onorificenza di Giusto fra le Nazioni e il mio nome è stato inserito nel Giardino dei giusti di Yad Vashem di Gerusalemme, per aver salvato ebrei, per averli salvati sotto la minaccia di un grave pericolo per la propria vita, per non aver mai percepito alcun compenso.

Sono fiero e felice di aver contribuito alla salvezza delle vite di alcuni ebrei, perseguitati solo per l'appartenenza a un'etnia ritenuta inferiore.  Oggi più che mai, in un mondo diviso dalle guerre e dai conflitti, voglio ricordare il genocidio di tanti ebrei innocenti e meditare sulla crudeltà umana, che produce sempre dolore e sofferenza.

Umberto Saturnini, 3 A


GIACOMO BASSI

Tra i Giusti tra le nazioni che si ricordano in Italia ci sono anche io, Giacomo Bassi. La mia vita inizia a Como il 18 marzo 1896. Durante la giovinezza, nonostante le dure condizioni dettate dalla guerra, riesco a conseguire il diploma da geometra, in seguito vengo mandato al fronte durante la prima guerra mondiale come ufficiale di fanteria. Dopo gli anni del conflitto mi iscrivo al partito fascista e ottengo due lauree: quella in farmacia nel 1927 e quella in medicina veterinaria del 1930.

Nonostante i titoli di studio mi permettano di proseguire nell’ambito della medicina, a causa delle complicate condizioni economiche in cui vive la mia famiglia, decido di seguire le orme di mio padre, segretario comunale, prendendo parte attiva nella vita pubblica del comune di Canegrate e poi anche di Legnano, entrambi in provincia di  Milano.

Un giorno del 1943 si presentarono nel mio ufficio due persone, entrambe ebree, che erano appena scappate dal massacro di Meina. Si chiamavano Paola Zipora e Nissim Contente ed erano una madre e uno dei suoi tre figli che, secondo le autorità del tempo, sarebbero dovuti morire solo per il fatto che erano ebrei. Paola spiegò che la sua famiglia aveva provato ad uscire dall’Italia ma era stata bloccata sul confine con la Svizzera: l’unica speranza che rimaneva loro era quindi nelle mie mani. Io rimasi bloccato per qualche istante senza dire niente. Non perché la paura delle circostanze di una politica nazista provocasse in me alcun tipo di esitazione, ma perché mai avrei pensato che la rabbia di un individuo verso una popolazione potesse recare tanto dolore. 

Cercai una soluzione che potesse migliorare la condizione precaria in cui vivevano i Contente ormai da qualche anno e che salvasse loro la vita: creai per Paola, suo marito e i loro figli dei documenti falsi e trasformai una famiglia di ebrei fuggitivi in una famiglia di emigrati siciliani di Messina, di nome De Martino. Dopo pochi giorni mandai la nuova famiglia siciliana nella scuola elementare di San Giorgio su Legnano, dove esercitavo la mia seconda professione, sempre come segretario comunale. Mi assicurai che un'aula venisse arredata in modo che quel luogo diventasse la nuova casa dei rifugiati. Per farlo misi a disposizione dei mobili della mia casa, sapevo che in quel momento chi ne aveva più bisogno non ero di certo io. Nissim Contente, al tempo diciassettenne, sopportava a malapena una vita rinchiuso in quattro mura. Come biasimarlo, era un ragazzo e come tale aveva bisogno di crescere e diventare indipendente. Per questa ragione gli assegnai un posto di lavoro presso il comune dove lavoravo, e così la sua famiglia riuscì anche a guadagnare qualche soldo per comprare i beni primari con cui vivere.

Ogni tanto andavo ad accertarmi che la famiglia fosse al sicuro e che avesse cibo a sufficienza per sopravvivere, ma il mio interesse era personale, affettivo, di quelli che si instaurano con persone a cui si vuole bene. Infatti nonostante non avessi modo di passare molto tempo con i Contente, l’effetto dei loro volti sconsolati durante il nostro primo incontro avevano fatto in modo che fossero sempre al centro dei miei pensieri. Che le mie preghiere fossero riservate anche a loro. Sapevo di rischiare la vita ogni giorno a causa di quello che facevo, ma continuai a farlo fino alla fine della guerra, senza aspettarmi alcuna riconoscenza. Questa tuttavia arrivò il 6 settembre 1998, trent’anni dopo la mia morte, con l’inserimento nel giardino di Yad Vashem di un albero che porta il nome di Giacomo Bassi, il mio nome.


Ciò che si invita a fare durante la giornata della memoria non è solo ricordare ciò che molti uomini hanno fatto di sbagliato, tutte le stragi che hanno causato e le cose disumane che hanno ideato.

Bisogna riflettere anche sull’esempio che altri uomini hanno lasciato nella storia, ed emularli nel coraggio e nell’amore per il prossimo:poichè nonostante gli innumerevoli esempi passati ci sarà sempre qualcuno disposto a combattere per i propri interessi mettendo a repentaglio migliaia di vite, quello che possiamo fare noi è non tirarci indietro davanti a certe situazioni, e  cogliere l’occasione di essere persone giuste.


Noemi Quaiato, 3 A


GIOVANNI PALATUCCI

Mi chiamo Giovanni Palatucci, sono nato a Montella il 31 maggio del 1909 e ho vissuto sulla mia pelle l’immane tragedia della guerra e della “caccia” agli ebrei.

Come molti della mia generazione, mi sono iscritto al Partito Nazionale Fascista convinto che le nuove idee proclamate da Mussolini fossero quanto di meglio ci fosse per rendere l’Italia una grande nazione e che nulla ci fosse di male nelle sue parole e nelle sue azioni. 

Nel 1937 sono stato mandato alla questura di Fiume, prima come responsabile dell’ufficio stranieri e poi come commissario di Polizia. Nell’anno successivo è stato diffuso il Manifesto degli scienziati razzisti e, poco dopo, il regio decreto legge Provvedimenti per la difesa della razza italiana.

Con questo assurdo decreto, in poco tempo, gli ebrei della città di Fiume (circa 1600 persone) vennero privati della cittadinanza italiana, limitati nelle loro libertà personali, privati dei loro averi. Il mio compito era quello di schedare gli ebrei, controllare i loro dati anagrafici e proibire ogni tipo di interazione con i cittadini di razza ariana. Gli ebrei di Fiume potevano spostarsi verso altre provincie italiane solo se in possesso di un visto da me firmato. 

La mia formazione cattolica mi ha imposto di aprire gli occhi di fronte a tanta ingiustizia e, grazie al mio lavoro, ho aiutato molti ebrei a spostarsi verso altre località nelle quali forse sarebbero stati più al sicuro. 

Nel novembre del 1943, subito dopo la mia adesione alla Repubblica Sociale Italiana, Fiume è diventata parte della zona d’operazioni del Litorale Adriatico, cosicché le truppe delle SS tedesche potessero comandare direttamente questo territorio, ma ho deciso di rimanere nonostante il pericolo che correvo.

Sempre in quegli anni mi è stato proposto da un mio carissimo amico, Emilio Bonzanigo, il console di Trieste, di fuggire in Svizzera; ho accettato, ma al posto mio ho fatto partire Mika Eisler, una mia amica ebrea pedinata dalle autorità tedesche.

Da quando sono stato nominato questore reggente della questura di Fiume nel 1944, ho iniziato ad attuare delle misure drastiche per cercare di rallentare i tedeschi vietando il rilascio di certificati alle SS se non su esplicita autorizzazione, per poter avere notizia dei rastrellamenti programmati e darne avviso ai fuggitivi.

Per cercare di ostacolare ulteriormente i tedeschi, inviavo continue relazioni al governo della Repubblica Sociale Italiana, segnalando vessazioni delle SS, limitazioni nello svolgere il mio dovere e il disarmo dei poliziotti italiani.

La mia storia è ancora oggi oggetto di studio e controversie perché alcuni negazionisti non ritengono vero il mio impegno per salvare gli ebrei.  Al contrario, lo Yad Vashem mi ha inserito tra i Giusti fra le Nazioni.

Chi salva una vita salva il mondo intero

(Talmud)


Matteo Rizzi, 3 A


ANGELO ROTTA

Sono Angelo Rotta, sono nato il 9 agosto 1872 e provengo da una famiglia benestante.

Tra il 1888 e il 1891, nel seminario minore di Milano, ho portato a termine i miei studi che mi hanno fatto conseguire una laurea in filosofia e una in teologia. Il 10 febbraio 1895 sono stato ordinato sacerdote e dal 1897 al 1904 sono stato docente di teologia presso il Seminario Maggiore a Milano.

Nel 1904 sono tornato a Roma come rettore del Seminario Lombardo e fino al 1922 ho ricoperto molteplici incarichi a stretto contatto con il Papa arrivando a essere nominato arcivescovo titolare di Tebe dal neoeletto pontefice Pio XI. Il 20 marzo 1930 successi a Cesare Orsenigo come nunzio apostolico in Ungheria, impegno che mantenni con grande caparbietà fino al 6 aprile 1945.

Oggi volevo parlare proprio di questo periodo della mia vita, forse il più duro e difficoltoso, ma, anche il più appagante: essere nunzio apostolico di uno Stato significa rappresentare il Papa, compito di per sé già impegnativo, che non mi venne affatto facilitato dal momento che il periodo in cui assunsi l’incarico era quello del secondo conflitto mondiale.

Io, in quanto persona seria e tenace, mi schierai subito contro il razzismo nazista già nel 1936 e, insieme ad altri membri dell’episcopato, cercai di mettere in guardia la Santa Sede. Tutti gli sforzi non portarono a nulla e, sebbene fossero continui, non impedirono l’approvazione e l’inasprimento delle leggi antisemite tra il 1939 e il 1941.

Io e i miei colleghi capimmo fin dall’inizio che la situazione era grave e, dal 1943, ci adoperammo nell’organizzazione di convogli diretti in Palestina. Scrissi anche personalmente al Papa affinché ammonisse l’operato nazista; invito che, seppur da parte mia con toni abbastanza critici, non portò ad alcuna conseguenza o reazione.

Il 19 marzo 1944, con l’occupazione nazista dell’Ungheria, iniziò ufficialmente la deportazione degli ebrei da parte delle SS coordinate dal noto Karl Eichmann. A questo punto io agii in favore dei perseguitati in due modi: la via diplomatica e quella pratica sul campo; per la prima partecipai e sostenei attivamente le proteste ufficiali contro le deportazioni, per la seconda creai una fitta rete di scambi tra me,  i miei colleghi, diplomatici neutrali e volontari, volta a garantire rifugio nella nunziatura o in case appositamente affittate e sotto la protezione della Santa Sede. Distribuimmo falsi certificati di battesimo e “lettere di protezione” in bianco, per un totale di circa 20mila, tutte firmate dal sottoscritto e con brevi dichiarazioni che dessero prova del fatto che i proprietari erano sotto la custodia della Chiesa. Le persone che mi affiancarono nell’impresa furono tra le più coraggiose che io conosca: tra queste c’erano il mio segretario Gennaro Verolino, Giorgio Perlasca, il seminarista ungherese Tibor Baranski, il diplomatico svedese Raoul Wallenberg e alcune donne come Rosi Szalaj e Marghit Schlachta.

Un episodio che mi rimane ancora impresso nella memoria molto chiaramente è quello in cui, giunto alla stazione ferroviaria, sapendo che stava per partire un treno con i vagoni pieni di ebrei avviati alla deportazione, posi la mia figura davanti a questo e, ostruendone temporaneamente la partenza, favorii la visione dei passaporti cattolici e dei falsi certificati di battesimo dei prigionieri, liberandone più di un centinaio; in un secondo momento fui costretto a farmi da parte e il treno ripartì con ancora un considerevole numero di deportati al suo interno. Il salvataggio mi rese felice ma la vista di tutti coloro che erano rimasti nei vagoni mi assaliva poiché sapevo a cosa andavano in contro.

Nel gennaio del 1945 la Nunziatura venne bombardata, io e i miei colleghi scampammo alla morte per miracolo fuggendo nelle catacombe al di sotto dell’edifico. Il 6 aprile i Russi ci cacciarono dalla città obbligandoci a salire su un treno alla volta di Istanbul; raggiunsi Roma solo nel luglio del 1945 quando la guerra si era ormai conclusa.

Il 16 luglio 1997 sono stato proclamato Giusto tra le nazioni dallo Yad Vashem, ovvero l’Ente nazionale per la Memoria della Shoah.

Zeno Bottacini, 3 A

Irena Sendler.mp4

Emanuele Esposito

Odoardo Focherini.mp4

Anna Turrina