Capitolo III

Quanti fatti che mi raccontavi. Quanta fatica da giovane. Quante fascine che hai portato sulla testa. Rilegarle era la tua specialità. Ancora ce ne sono nell'orto. Ancora mi riscaldano, mentre sono solo, al buio, al buio dell'anima. Quante cose che hai portato sulla testa dalla “rrobba” su una pezza arrotolata che non mi ricordo come chiamavi. Mi raccontavi che trasportavi merce finanche da San Pietro, a piedi, sempre a piedi.

A volte tiravi fuori qualche termine in dialetto antico, e io ti chiedevo meglio e prendevo appunti sul calendario. Per un’estate intera, quando era ancora vivo papà, facemmo tutti e tre insieme il Vocabolario del dialetto altavillese.

Io l’ho scritto al computer, ma tutto quello che contiene viene dalla vostra bocca. E’ un altro ricordo.

E ti ricordi quando mi hai aiutato a fare la storia del bucato e del sapone? Mi spiegavi come si faceva la “lissia”, cioè di come si candeggiava il bucato con la cenere. Eri contenta anche tu quando hai visto al computer il lavoro finito.

E ancora prima mi raccontavi del nonno e della nonna. Quante piccole, grandi cose. L'albero di Natale che ti portava il nonno dalla ferrovia, i peperoncini che mangiava. Purtroppo non li ho conosciuti i nonni.

Mi raccontavi di quando imparasti a far la sarta. Oh quanta roba che mi hai cucito: calzoni corti, camicie, pantaloni, finanche vestiti di carnevale. Alcune camicie, tra le più belle, le hai poi ristrette per metterle tu, quando a me non piacevano più. Mi ricordo che una volta, a Cosenza, ho scoperto una specie di emporio, a due o tre piani. Si vendevano tantissime, ma proprio tantissime stoffe. Ti ci ho portato e tu hai comprato diversi scampoli di seta. Mi hai fatto quattro o cinque camicie o più, bellissime, elegantissime. Eri contenta di andare là, ma presto non ce l'hai fatta più.

E quante maglie e maglioni mi hai fatto ai ferri, specialmente per l'inverno. Mi ricordo che me ne hai fatto uno che era così pesante, che non c'era bisogno del cappotto! Quante risate ci facevamo. Lo mettevo quando nevicava. E ci sudavo pure. L'ultima maglia che hai messo era una aperta, marrone, che avevi, anni fa, fatto a me e che ti eri adattata. Non ho avuto il coraggio di buttarla.

Poi la vista quasi l'hai persa. Bruciori e lacrimazioni continue. Solo ancora mi accorciavi i pantaloni.

D'inverno spesso me li allargavi, perché ingrassavo. D'estate invece me li restringevi, perché perdevo anche dieci chili! Dopo Natale punto e a capo. Quanta pazienza che avevi.

Quanto caffè che mi hai fatto. Ettolitri forse. Bottiglie e bottigline che mi portavo al casino o, meglio, al mio casolare in perenne ristrutturazione e ampliamento. Bottigline che puntualmente mi scordavo di riportare. E spesso panini, che mettevi prima nella carta stagnola e poi in un tovagliolo di carta ben ripiegato e fermato con un elastico. Per finire lo infilavi in una bustina del freezer che chiudevi con l'apposito fermaglio. Solo tu eri in grado di fare una cosa simile.

Al casino ormai mancavano solo le imposte e l'imbiancatura. Ti avevo preparato una stanza tutta per te al piano terra, con il bagno vicinissimo, per non farti fare scale e per darti la possibilità, una volta andati là, di uscire nella terra e curare le tue piantine. Ma un po' il ritardo delle varie ditte, un po' la mole dell'edificio, un po' i troppi soldi che ancora ci volevano, un po' anche la mia indecisione, non ti hanno dato più tempo.

Estati intere, anche per 12 ore al giorno ho lavorato. E tu mi aspettavi, e mi facevi trovare sempre un piatto caldo che mi ristorava. Era sempre tutto pronto.

Avevi sempre gli occhi su di me. Sapevi che ero distratto. Ero capace di uscire anche senza calzoni. Volevi che facessi sempre tutto nel migliore dei modi. Mi controllavi, ma amorevolmente. A volte ho come l'impressione che tu mi stia guardando. Guardo la tua sedia vuota, e vedo la tua sagoma armoniosa conformata ad essa. Nella mia retina la tua immagine è sempre là, indelebile. Veglierai su di me?

Anche la casa che abbiamo abitato ti ha fatto soffrire. Dichiarata pericolante, non l'abbiamo per lungo tempo potuta ammodernare. Anzi ci avevano sfrattato, per colpa di quella maledetta frana, che frana non era, che per quarant'anni non si è mai mossa, a parte uno scivolamento di terra superficiale causato dal mancato incanalamento dell'acqua piovana. Il tetto era un colabrodo. Avevamo bagnarole e secchi per tutta la soffitta. Il solaio del primo piano era fatto ancora con travi di legno e tavoloni marciti. Non avevamo il bagno. Poi appena un water, niente doccia, niente bidet, niente lavandino, niente acqua calda. Per mezzo secolo, forse, hai lavato sempre tutto a mano, con acqua fredda. Come hai fatto a resistere? Il piano interrato sempre umido. Una umidità che ti è entrata nelle ossa e te le ha corrose, deformate, indolenzite. Oltre alla normale umidità, una volta c'è stata anche una perdita fognaria lungo il vicolo esterno che, quasi certamente è durata anni. Un liquido nerastro fuoriusciva spesso dal caminetto, e noi cercavamo di tamponarlo con cemento. C'è ancora questo cemento. E tu poi ogni anno lo disinfettavi con una pittura di calce. Un giorno che piovve molto, mi ricordo che forse questo liquido fuoriusciva più del solito. A contatto col fuoco ha prodotto probabilmente come una gas e io, tu e papà, abbiamo appena fatto in tempo ad aprire la porta e a proiettarci fuori. Stavamo per svenire!

Quando c'era vento, si sentivano spifferi dappertutto e, sempre quando pioveva, entrava acqua dalla porta e dal balcone, e mi ricordo che tu erigevi una diga di stracci, che quando erano inzuppati, torcevi in un secchio. E questo anche per giorni. A volte volevo aiutarti, ma me lo impedivi. Sapevi che quell'acqua gelata mi avrebbe fatto quello che poi ha fatto a te. Preferivi ammalarti tu.

Anche dopo che è morto papà, c'era ancora rimasto il solaio di legno del piccolo magazzino. Da sopra entrava acqua, perché quella casa, che prima era del nonno e che poi comprarono estranei - papà mai volle, e forse fu uno sbaglio - non è stata mai ristrutturata. E' rimasta com'era cento anni fa. Dalle fessure entravano continuamente topi, che a volte svicolavano anche in cucina. Ogni tanto qualcuno riuscivamo a prenderlo. Una volta uno ti ha rosicchiato tutti i fili della lavatrice, e così hai dovuto chiamare il tecnico. Uno, forse per un mese, ci ha dato veramente filo da torcere. Faceva sempre rumore, ma, quando ci avvicinavamo per scoprire dove si nascondesse, stava zitto. Stava divorando tutto, anche i bidoni e le bagnarole di plastica. Siamo riusciti finalmente a pizzicarlo. Era così grosso, che quando il gatto lo ha visto, è scappato via dalla paura! Il solaio un giorno è crollato. Per puro caso non ti sei trovata sotto. Siamo stati così costretti a sistemarlo a nostre spese. Lo abbiamo fatto fare in cemento e poi di sotto ho sistemato tutto io. Ho messo pure il pavimento e ci ho passato un’altra estate. Quando l’ho finito tu eri contenta, e ci hai portato diverse cose che prima erano in soffitta e che ti costringevano a fare diverse volte al giorno le scale. Non è molto grande, ma ci sono entrate cose che non sarebbero entrate nemmeno in un grande magazzino. L’unica cosa è che non hai aspettato che lo pulissi io e perciò hai preso altra umidità. Risultato: ti si è bloccato un braccio e altre via crucis a Cosenza, ogni giorno terapie. Punto.

I gatti non fanno che cercarti, spiano dalla porta in cucina per intravederti, per scoprire se stai cucinando qualcosa anche per loro. Sono come sbandati. Come li sapevi accogliere, come li chiamavi con quella tua vocina. Il più grande però ha capito, infatti s’intrufola dentro quasi tranquillamente, mentre prima, sapendo che tu non volevi, se ne stava tutto il giorno sdraiato sullo zerbino davanti alla porta.

Per mezza giornata stavi sempre ai fornelli. Mi piaceva sentirti rumoreggiare di là, mentre io ero nell’altra stanza. Cercavo di capire dall’odore quale cosa buona mi stavi preparando. Il forno... chi lo accederà più?... Dopo pranzo già iniziavi a cucinare per la sera. Io ingrassavo, ma tu eri costretta a farlo perché il medico ti aveva prescritto di mangiare ogni giorno verdura. Per almeno trent’anni non hai fatto che stare a dieta. Nessuno, al posto tuo ci sarebbe riuscito. E se sei vissuta fino ad ottant’anni è anche per questo. Sei stata bravissima.

Io ci provo a cucinare, diciamo che me la cavo, ma a volte faccio proprio sciocchezze. Oggi ho bruciato una pentola. Cerco di ricordarmi come facevi tu, le tue raccomandazioni, ma quello che ottengo non è un granché. Avrei voluto il tempo di imparare meglio, come volevo imparare meglio ad usare la lavatrice. Chissà quante cose non hai fatto in tempo a dirmi. E io faccio mente locale, cerco di ricordarmi ogni tua parola. Mah... Un altro anno, almeno un altro anno ancora, la casa era quasi finita... Mio Dio com’è crudele la vita...

La legna... come sapevi accatastarla... insegnasti anche a me... le frasche spezzate ad una ad una con le tue mani, i fiori di malva e di camomilla seccati al sole e conservati nei sacchetti per le tisane e le centinaia di bottiglie e di vasetti vuoti che conservavi per la salsa, per le melanzane o i pelati che mettevi sulle tue pizze di pane, dal sapore unico. Quante me ne hai fatte, oh mamma... vasetti per il peperone, per i tuoi minestroni già pronti che mi portavo a Farneta, ricordi?... vasetti anche per i funghi che ti portavo, e ancora prima quanti funghi abbiamo raccolto insieme un tempo anche con papà. E com’eri contenta quando li trovavi; ne trovavi sempre più di me. Qualche anno fa avevi anche le galline. Quante uova ci hanno dato, come le accudivi. Poi piano piano le forze ti venivano meno e non ne abbiamo comprato più.

A proposito di Farneta mi ricordo quando sei venuta con me, per vedere com’ero sistemato. Al ritorno ti ho fatto vedere il mare di Amendolara. L’ultima volta lo avevi visto da giovanissima, a Paola. Non mi ricordo chi ti avesse portato. Eri contenta. Come lo eri quando un giorno ti portai in Sila, con la macchina nuova. Ti portai sul monte Botte Donato, ma presto dovemmo scendere, perché già allora avevi la pressione altissima. Parlo di 25 anni fa ormai...

A Farneta ho imparato a vivere da solo. Ma allora ero contento quando tornavo a casa e tu lo eri ancor di più. Tu c’eri sempre, e mi aspettavi a braccia aperte. Ora in casa ci sono sole ombre. A volte mi sembra di intravederti in controluce, ma è solo un’illusione, un ricordo che avrò sempre vivo.

Mi comprasti tutto quello che mi occorreva. Mi insegnasti a cucinare, a farmi il letto... tutto. Ricordo che girammo tanto insieme per trovare una branda pieghevole da trasportare lì. Io ti portavo le cose sporche e tu mi davi vasetti con cibi precotti, con salse già pronte.

La tua sedia sulla quale ti addormentavi con la testa penzoloni e io che quasi ti sgridavo e ti portavo un cuscino per appoggiarti, ma ti dava fastidio anche il cuscino, il tuo collo era saldato e non riuscivi a stare nemmeno seduta sul divano o a letto... il tuo letto (quest’estate avremmo dovuto cambiare il materasso)... tutti i tuoi oggettini, il piccolo presepe, la stufa a legna che non riesco nemmeno ad accendere, i tuoi vestiti che darò in beneficenza, i tuoi anelli, le tue collane e tutti i tuoi cenci che sapevi sempre dove trovare e come utilizzare... i tuoi Rosari uno lo terrò per sempre al collo o comunque con me. tutto hai lasciato, mamma. E tutto mi sembra avere un’anima. E l’olio che Bernardino ci aveva dato, chi lo mangerà? E il vino che avevamo provato a fare col piccolo torchio e che non sapeva di nulla, ti ricordi? E la marmellata di melograno, così buona, che avevi fatto con le tue mani... Ce n’è ancora. Nel congelatore ci sono ancora cose che hai preparato tu: il pepe arrostito, i polpettini per la pasta al forno di quando veniva Eduardo... O Signore, abbi pietà anche per tutte queste piccole cose fatte con tanto amore e infinita passione.

Mi ricordo le sere d’estate davanti alla porta. Le conversazioni con i vicini. Ma ora non c’è rimasto quasi più nessuno nel quartiere. C’è un silenzio di morte, quasi irreale. Un tempo era il quartiere più popolato. Si sentiva un vociare fino a tarda notte, anche se tu ti ritiravi molto prima.

Mi ricordo le cose viste insieme in TV. I quiz che ti divertivano, Piero Angela, il figlio, i documentari degli animali, ma ti piacevano specialmente gli spettacoli, ti distraevi. In particolar modo ti piaceva La Corrida. Poi, quando c’era Pippo Baudo, eri particolarmente attratta; lo chiamavi Pipo Baldo... Non ti sei goduta nemmeno il televisore nuovo. Dormivi, dormivi sempre di più. Iniziavi dall’imbrunire, d’inverno dalle cinque e mezza, e continuavi anche fino a mezzanotte, fino a quando non ti chiamavo per andare a letto. Ti svegliavi quei pochi minuti per cenare e per mettere le gocce e poi riprendevi. Quella sonnolenza era già quasi come un coma.

Qualche mese prima mi avevi detto che non volevi più prendere il Lasix. Chissà come ti dovevi sentire le viscere. Non volevi più e io ti insistevo. Avresti dovuto bere almeno un litro e mezzo di acqua al giorno, ma proprio non ti andava giù.

Mia carissima mamma, mi raccontavi a volte della tua infanzia. C’era povertà. Una vita di stenti. Poche cose. Principalmente la devozione al Signore. Sento ancora la tua voce. Mi parlavi di tuo padre, di tua madre, delle piccole gioie, di quello che si mangiava, delle casse piene di fichi secchi e di castagne, della campagna, della scuola che hai potuto frequentare solo fino alla seconda elementare. E avevi ancora la scrittura di quando eri piccola, con errori che mi facevano tenerezza. Conservo i tuoi appunti, le tue ricette, la lista delle cose che non potrai più comprare. E mi dispiace per le cose che comprerò e che tu non vedrai, per le cose che farò e che tu non saprai. Piccole cose, rispetto alla grandezza degli eventi, ma grandi cose rispetto alle piccole gioie possibili.

Mi raccontavi poi di quando imparasti a far la sarta, degli abiti che cucivi a tutti. Di quando andavate alla fiumara a lavare i panni con la cenere. E poi di quando ti sei sposata con papà, appena ritornato dalla guerra, che presto si era ammalato. Di quando andaste a Scigliano, per farlo stare un po’ più tranquillo. Ti voleva bene, ma era scorbutico e dispettoso, lui mi perdonerà.

Gli dedicasti quasi tutta la vita, sempre ad assisterlo. E tu pure sempre malata. Conservo ancora l’elenco di tutti i tuoi malanni. Lo feci per il giorno che dovevamo andare a passare la visita per l’invalidità. Sofferenze, sempre sofferenze, fisiche e morali.

Avevi anche un meningioma, un piccolo tumore al cervello, che comprimeva sempre di più un’area della tua testa. Con mia sorella, tre anni fa, quando lo abbiamo scoperto, in occasione del tuo precedente episodio ischemico, abbiamo deciso di non dirti nulla. C’era poco da fare, non ti saresti potuta operare. E intanto i tuoi mal di testa aumentavano sempre più.

Mi ricordo altri racconti, di quando abitavate ad Aprigliano, dove io sono nato, dopo l’altra grande sfortuna di aver perso un figlio già nato, a causa mi pare di una malattia infettiva. Sciagure, altre sciagure. E mi parlavi di com’era la casa, dei vicini, di Savaglia, che ho incontrato poi dopo tanti anni.

Mi ricordo quando da piccolo, mi portavi col pullman a Cosenza a far la spesa alla Standa o dal compare del chiosco, sotto il ponte di San Francesco. Immancabilmente ti chiedevo un panino con la mortadella o un gelato, ed ero felice. Giravamo anche per gli altri chioschi di Lungo Crati, e tu compravi tessuti, scarpe e altro. Mi ricordo come se fosse adesso, persino quando toglievi i soldi dal borsellino per pagare. Ieri disperatamente sono andato alla piccola fiera dell’Arenella, per vedere se trovavo una vecchia cartolina del posto, per ricordarmi ancora meglio, ma niente. Non c’è più né una cartolina, né ci sono rimasti chioschi, persino le pietre a terra non ci sono più, ma ho rifatto tutto il corso, sono passato sopra il ponte, e qualche vecchia pietra e qualche inferriate dove ci fermavamo per fare una sosta l’ho trovata. Ho pianto ancora, ho pianto tanto, mamma. Com’era bello. Mi portavi per mano e a volte mi portavi da Annabella, a comprare scarpe o le giacche per papà, che facevi provare a me, perché lui già non si muoveva più da casa. Te la dovevi vedere per tutto tu. E poi mi facevi fermare davanti al negozio di chitarre. Come mi piacevano. Magari mi prendevi un piccolo gioco. Me ne ricordo in particolare alcuni: un triciclo di latta, un’elica che se tiravi una cordina si metteva a volare, un aereo con le ali di polistirolo, più di uno. E prima ancora di questi un Topolino di gomma, che strombettava se lo premevo, ma quello ce lo avevo forse da quando ero proprio in fasce. Mi ricordo che poi ci trascinavamo quelle pesanti lattine di olio Topazio, e le buste di plastica piene di tanta roba. Com’è bello ricordare quei tempi, quando tu, nonostante i mali si facessero già sentire, eri una giovane energica, umile ma piena di sé, con le idee molto chiare in testa.

Com’eri buona mamma, quanto mi volevi bene. Ah, se potessi tornare indietro, ti consumerei di baci, ti terrei sempre stretta a me.

Quando ero ammalato mi accudivi amorevolmente. Quante tisane e quanti infusi mi portavi a letto. Come ho detto prima seccavi malva, camomilla e mettevi tutto in sacchetti che ancora ci sono. Ancora c’è tutto quello che hai fatto, tutto quello che è tuo. Mi sento morire. A volte sto ore e ore fuori casa senza conclusione, per non vedere le cose di casa, ma poi sento il bisogno di toccarle, e allora ritorno in fretta, e quando arrivo ripiango. Sono dimagrito, sfinito, è stato uno shock indescrivibile. Sono diventato uno straccio.

Poi la scuola. Ci tenevate tanto tu e papà che andassi bene. Per fortuna non mi dispiaceva. Mi ricordo anche i bellissimi schiaffi che mi davi quando ti facevo arrabbiare…

Poi la scuola superiore. Eri tanto contenta quando venivi a chiedere ai professori. Poi il militare. Quando sono partito quante belle lettere che mi hai scritto le conservo tutte e quanto affetto quanto amore e quanta sofferenza trasuda ancora da quelle parole. Le ho rilette e ho pianto così tanto, che ho sentito il mio cuore spezzarsi. Sapevo che mi sarei sentito male, ma non potevo non rileggerle. Sono tue, sono la tua anima, mamma, sono quello che di te mi è rimasto.

Iniziano tutte con “Mio carissimo figlio..” E poi quanti baci, quanti abbracci. In famiglia non siamo mai stati molto espansivi, e si nota che ti trattenevi... ma dietro ogni parola chissà quante lacrime anche da parte tua. Ci sono anche aggiunte di papà, burbero, ma in fondo anche lui buono e tutto il resto. Dentro mi mettevi diecimila lire e mi mandavi anche i saluti di parenti e amici. La lettera che mi ha di più trafitto è quella dove mi raccontavi di quando mia sorella si è gravemente ammalata. Per non farmi preoccupare troppo mi scrivevi che aveva “un po’ di leucemia”, come se questo male potesse colpire anche in forma leggera. Ma che tragedia, che tragedia che è stata. I segni li avete portati per tutta la vita. Mi ero dimenticato che voi per mesi e mesi siete andati a dormire a San Pietro – cosa che mio padre non avrebbe mai fatto in altre circostanze – perché mio cognato non c’era, era a Roma da mia sorella e voi dovevate crescere Eduardo...

E mi ricordo quando poi sono andato anch’io a Roma e ti ho dovuto telefonare da una cabina, per dirti di prepararvi al peggio. Ma poi qualcosa è successo, qualcosa di inspiegabile razionalmente. Mia sorella diceva di aver sentito il profumo di Padre Pio, e io credo che in tutta la vicenda le tue continue preghiere abbiano fatto sì che accadesse il miracolo. Era il lontano 1985. Ventitrè anni fa. Altri tempi. Nonostante avessi già i tuoi malanni, eri una donna forte, risoluta, caparbia e con un cuore immenso.

Mi ricordo che avevi ricamato le mie iniziali su tutti i fazzoletti e le mutande che mi sono portato. Circolano ancora, perché ne ho dozzine e dozzine. Lo avevi fatto affinché la mia roba non si confondesse quando la portavo in lavanderia. Che ingegno che avevi.

Ma non posso non ripensare a quel periodo bruttissimo. Un giorno mia sorella si è sposata, col corredo preparato da te. E poi il suo male. Era quasi morta. Ci stavamo preparando. E il tuo dolore, che non mostravi mai, sarà stato qualcosa di atroce. E quante lacrime, quante lacrime. Ma quante preghiere che hai detto. Hai cresciuto Eduardo. Io ero militare, ma mi hai raccontato che lo portavi persino a funghi e che lui era contentissimo. Tanto che quando la mamma è ritornata lui voleva stare con te e non con lei.

Poi il miracolo. Mia sorella ha abbandonato tutte le cure e nessuno ancora sa come sia guarita. Prima ne parlavamo solo un po’ così, ma ora so che è opera del Signore che ha ascoltato le tue parole. Sicuramente hai offerto la tua vita in cambio della sua, ma questo lei non lo sa. Del fatto che tu ti sia offerta al Signore per amor nostro ne sono certissimo, perché nel tuo libro di preghiera dei frati missionari ho trovato un unico appunto che recita così: “Vi do e rinunzio tutta la mia volontà, gli affetti e tutte le cose mie”. Quando ho letto questa frase, che è pura poesia e che manifesta la volontà totale con la quale ti sei offerta a Dio, non solo ho pianto, ma mi sono reso veramente conto della tua grandezza. E’ qualcosa di maestoso, di inconcepibile per una persona comune.

Ma il Signore, nella sua immensa bontà, quella volta non ti ha fatto morire. C’ero ancora io che avevo bisogno di te. E quante preghiere che hai detto anche per me. Ero sempre nei tuoi pensieri, ma io, da sciocco, lo davo per scontato. Hai offerto le tue sofferenze e i tuoi sacrifici anche per me. So che la tua vita l’hai data anche per me.

Hai fatto sempre tutto per me. Per quarantaquattro anni. Significa che per oltre sedicimila volte mi hai rifatto il letto, che per quasi cinquantamila volte mi hai preparato da mangiare. Hai fatto tutto il possibile e immaginabile, anche se le mani non riuscivi più a stringerle da qualche anno, non riuscivi più a stringere nemmeno la pompetta del misuratore di pressione, tanto che ne hai voluto uno automatico. Non riuscivi più a sollevare completamente le braccia per prendere i piatti nella piatteria sul lavello. A volte ci provavi, ma ti cadevano, specialmente negli ultimi giorni.

Quanti piatti, casseruole, padelle, bicchieri. Ci sarebbero volute tre cucine. Ma ora capisco perché compravi e mettevi da parte, compravi e conservavi. Non volevi farmi mancare niente, quando saresti mancata.

Non potevi stare con la testa nemmeno al tiepido sole, ma ti mettevi un fazzoletto e via, a far qualcosa. Quante ne hai fatte. Quante ne abbiamo passate. Un giorno abbiamo fatto anche un incidente. Avevo una cinquecento, la mia prima macchina. Ho tirato dritto ad uno stop e una 126 mi è venuta addosso. Ero ancora un imbranato. Ti ho fatto sbattere con la testa al parabrezza. Meno male che eravamo proprio all'incrocio dell'ospedale...

Cucinavi piatti che solo uno chef era in grado di preparare. E quanti dolci, quante torte. Ce n’era una veramente speciale, che facevi una volta all’anno, quando era San Valentino, e che anche le mie colleghe più brave in cucina ti invidiavano. Volevano la ricetta. Tu non avevi segreti, ma il vero segreto era che, mentre loro usavano il frullatore, tu facevi tutto a mano, come lo sminuzzare le noci. Mia sorella ha finalmente capito come si cucinano i broccoli. Glielo avrai ripetuto decine di volte.

E quando Eduardo veniva la domenica, tu eri la donna più felice del mondo. Ti preparavi sin dal giorno prima per fargli trovare una prelibatezza. E quando si è laureato e poi sistemato, anche se lontano, credo che tu sia stata veramente contenta. Chissà quanto hai pregato anche per lui. Forse questo è stato il tuo ultimo desiderio.

Quando il pomeriggio del 20 gennaio è venuto a salutarci, mi ricordo che ho avuto sensazione strana. Tu avevi avuto un forte mal di stomaco e avevi chiamato la mamma per dirle che quel giorno non era il caso che lui venisse a pranzare da noi. Lui stava partendo, perciò, nel pomeriggio, è venuto comunque. Per una frazione di secondo, quando ci ha lasciati, sull’uscio ho pensato: - L’avresti rivisto? Sì lo hai rivisto ma eri già nel letto dell’ospedale. Lo hai riconosciuto, ti sei commossa, gli hai accarezzato la mano, ma non gli hai potuto dire più niente. Io sono uscito e sono scoppiato a piangere. Lo hai rivisto per l’ultima volta.

Tenevi la casa come poche donne sanno e hanno la voglia di fare. Quasi mi vestivi tu. Pochi erano i capi di abbigliamento che mi compravo da solo. Io non ero in grado nemmeno di comprarmi un paio di pantaloni. Lasciavo scegliere te anche su cosa mettermi l’indomani. Mi fidavo più di te che di me, nonostante le animate discussioni.

Mi hai lasciato un corredo di cose maschili che mi bastano per anni e anni.

Quante cose, piccole e grandi. Le tue telefonate, il tuo modo di sistemare le cose, il tuo parlare, seduti accanto al caminetto. Mi dicevi tutto, tranne che stavi sempre più male. Chissà che forti dolori di testa hai avuto negli ultimi tempi. Il tuo modo di alleviarli era di strofinare sulla testa dell’alcol con un batuffolo di cotone. Credo che tu li nascondessi per non farmene accorgere. Ne ho trovato parecchi nei tuoi cassetti e nei posti più impensabili.

Un giorno hai detto che non volevi più andare dall’oculista. Ti aveva provato tutte le sue lenti, ma tu non ci vedevi bene con nessuna. Ti aveva cambiato forse sei o sette colliri, ma nessuno ti facevano più effetto. Una volta al mese andavamo a visita, ma non c’era più niente da fare. Parcheggiavo la macchina e ti facevo scendere, poi ti portavo a braccetto perché eri barcollante. Non eri più tu. Di quella donna minuta ma forte, di quella donna un tempo sempre accorta e attenta non era rimasto più nulla.

Anche la tua sagoma era inclinata a destra, persino nel letto d’ospedale non riuscivi a stare dritta, e la posizione ti faceva soffrire ancora di più. Ti tenevi sempre il fianco, giorno e notte. Hai sofferto dolori indescrivibili. Un paio di notti non me ne sono andato proprio a casa, tanto ti contorcevi.

Non voterai più, mamma. Quest’anno andrò da solo. Ti ricordi? Papà andava per conto suo, la mattina presto; votava sempre per primo. Io e te, invece, andavamo subito dopo pranzo, quando non c’era nessuno, per evitare che ti confondessi. Chiedevi sempre spiegazioni sulla politica. Il fatto era ed è che chi ci capisce più. Sono avvenute cose che manco i bambini sarebbero stati in grado di produrle.

Oggi mia sorella è andata a trovare la zia. Non ha chiesto come stavi, né dov’eri, perché lei lo sa che sei morta, senza che nessuno gliel’abbia mai detto. O meglio, gliel’hai detto tu, in sogno. Il Signore può fare anche questo, e se lo ha fatto significa che farà grandi cose per te. Quello che è successo è niente. E’ solo un ulteriore segno della Sua grandezza. E’ un ulteriore segno che mi ha dato per fortificare la mia fede e per darmi, forse, ancora una speranza.

Una donna d’altri tempi, piena di valori. Per tutti hai portato il lutto per tempi lunghissimi, come poche altre. Per tutti un pensiero, un regalino. Tantissimo affetto. Il Signore ti renderà merito di tutto questo. E se la sofferenza ha un valore, come diceva Papa Voitila e come io credo, tu certo sarai in prima fila nella schiera degli eletti, perché pochi hanno sofferto come te, per così tanto tempo.

Una piccola grande storia la tua. La storia di una donna che attraverso il suo coraggio, i suoi sacrifici, il suo lavoro e a volte la sua testardaggine, è riuscita tante e tante volte ad ottenere l’impossibile. Tutto quello che facevi aveva un garbo, uno stile inimitabile e ineguagliabile.