POESIE DI PASQUALE SICILIANO, MIO PADRE

Pasquale Siciliano, mio padre, classe 1916, con nelle membra i segni della guerra, piaghe che lo condannarono ad un destino beffardo, è morto col sogno di pubblicare un libro di poesie. Conosceva molti canti della Divina Commedia a memoria, leggeva sempre, era un autodidatta; aveva una passione immensa per i versi in stile classico. Aveva partecipato a numerosi concorsi nazionali ed internazionali ottenendo diversi riconoscimenti. Anche l'Accademia Tiberina lo aveva annoverato tra i suoi membri. Parecchie sue opere erano state pubblicate da giornali, riviste e antologie. Ma in quegli anni chi leggeva più poesie? Era il periodo in cui si affermava un altro tipo di stampa... che fotografava una fondamentale crisi di valori. Eppure le offerte editoriali non mancavano. A volte in un solo giorno ne arrivavano anche due contemporaneamente, ma tutte, alla fine, proponevano all'autore di versare qualche milione e di piazzarsi da solo centinaia e centinaia di copie. Era per lui una cosa umiliante, alla quale aveva sempre detto di no. Giustamente.

Da giovane già si era cimentato nella sceneggiatura de “I promessi sposi”, di cui fu regista e suggeritore nelle rappresentazioni che si tenevano in uno stanzone di una casa vicino alla chiesa della Madonna Assunta di Altavilla di Lappano (CS), suo paese natio.

Moralista e religioso, come amava definirsi, tra le passioni predominanti, sin dalla sua giovinezza, il suo lavoro, lo studio instancabile della letteratura, la libertà delle idee ed il costante desiderio di una maggiore giustizia sociale. Tutte cose che traspirano dalle sue poesie in stile classico, che tuttavia precorrono i tempi moderni.

Sfruttando le potenzialità delle nuove tecnologie, ho pensato di mettere online alcune delle sue centinaia di poesie, semplicemente per farlo conoscere, rendergli merito e per ricordarlo a tutti quanti lo conobbero in vita.

Il cattivo pastore

Un pastore amava poco il suo gregge.

Appena lo cacciava dall'ovile

al prato, sconfinava senza legge

nei campi del bel grano, in pieno aprile!

Quel pastore per nulla lo curava:

si spassava nei vizi e nel dormire;

a lui la gente, spesso, reclamava

per danni, che doveva risarcire.

E le pecore, senza il buon pastore,

col tempo si viziavano di più,

sconfinavano quasi in tutte l'ore,

perdevano la timida virtù.

Ma un giorno il gregge pascolava al piano;

il pastore sotto un albero dormiva.

D'improvviso il fragor di un uragano.

Poco tempo passava e giù veniva.

Le pecorelle tutte soffocava

e un lampo folgorava anche il pastore;

nell'ovile una sol morbosa stava,

che belava straziata dal dolore.

Il giunco e la piena

Un giunco se ne stava in un pantano,

vicino a un fiume dalle quiete acque;

ed ecco scatenarsi un uragano,

mentre esso se ne stette calmo e tacque.

Ben presto venne giù l'acqua dal cielo,

a catinelle cadde e a più non posso!

L'umile giunco abbassò il suo stelo,

sì che la piena gli passò addosso.

Chi alla piena resistenza oppose

finì travolto dalle acque furiose

nel mare; il giunco che chinò la testa

al sole s'alzò, dopo la tempesta.

Na gaddina e nu vermuzzu

Nu vermuzzu, chianu chianu,

sriscia mmienzu de la via;

na gaddina, du luntanu

li se lanza ccu allegria.

Pue se 'ncricca la gaddina

e le mina 'u pizzulune;

è ppe iddu 'na ruvina

e s'arrunchia a cursune.

Pue l'aggranca ccu ri piedi,

cci nne duna natru forte;

iddu va avanti arriedi

e cumbatte ccu ra morte.

Pue lu piglia ccu ru pizzu

e a 'nna vota si lu codda;

ncudduratu cumu 'u rizzu,

'ntra la vozza si lu ammodda.

Mpressa mpressa ppe ra via

si 'nne va aru gaddinaru,

'ntra lu nidu pue facia

n'uovu gruossu aru massaru.

Sportunati i picciriddi!

E' na storia vecchia d'anni:

su mangiati sepre iddi

de la vucca di cchiù ranni.

Calabria bella

Terra tu sei di natural ricchezza

che, qual miraggio di fata Morgana,

attiri, colla pura tua bellezza,

chiunque vien da terra pur lontana.

Di bianche spiagge tutta intorno orlata,

che i figli tuoi giammai hanno inquinato,

d’ogni altra region tu sei invidiata

poiché a te sola Dio quei doni ha dato.

Son le tue valli e innumeri colline

di città sparse, borghi e casolari,

d’aranci folte, d’ulivi e susine,

di dolci fichi e d’uve sui filari.

Nel mezzo il grande acrocoro dei monti

offre un’incomparabile visione:

pinete, laghi, cristalline fonti

ancor più belle d’ogni descrizione.

Ivi a branchi le bianche pecorine

pascolano, e la bruna pastorella

le guarda e con sua voce chiara e fine

canta, armoniosa la “Calabrisella”.

Terra di braccia forti a lavorare,

di gente generosa e odorata,

ma povera, costretta ad emigrare,

lasciando te, Calabria sempre amata ...

Tu, Scilla, mitologica vedetta,

difendila dal turpe e dal manesco,

poiché fu mille volte benedetta

di Paola dal gran figlio San Francesco.

Calabria mia

Quanta nel cor mi desta delusione

il mancato progresso in te, mia terra,

chè di miseria sei rimasta serra,

colma più d'ogni italica regione.

In tempi non lontani quante voglie

di lavor nelle verdi tue colline:

ora una selva sembri tu di spine,

che pungono la mano, e nessun coglie.

Non vedo fumaioli d'opifici

nel cielo tuo incantevole innalzarsi;

costretta è ancor la gente tua a recarsi

in terra estranea a far sacrifici.

Quei che rimangon sono rassegnati;

mirano ancora del tuo cielo l'azzurro...

tenaci e muti, senza alcun sussurro,

ma stanchi sono e tanto sfiduciati.

O buon Governo, pensa al Mezzogiorno,

ove ancor manca il pane quotidiano;

il tuo prometter non sia vano,

provvedi alacremente, ancor ch'è giorno!

Dai il lavoro alla nostra cara prole,

quel lavoro santo, che tanti vizi sana!

La mala lascerà l'oscura tana

e cercherà il lavoro al suo bel sole.

Cosenza

Ogni giorno, da quando aprii ciglio,

vedo Cosenza dalle mie verande;

essa arrivava solo fino al Triglio,

adesso nella valle pur si spande.

Mettevo nella tasca bei soldini,

e vi arrivavo a piedi o in carrozzella,

per far la carità ai poverini

volevo passar presto la "Gabella".

Io, provinciale, ben ero conosciuto

dai cittadini, nel dire e nel fare,

e, generosamente ricevuto,

contento ritornavo al casolare.

Ora Cosenza è tutta cambiata:

un trambusto di macchine e di gente!

quasi cosmopolita diventata,

l'occhio ho da aprire e tanto più prudente.

Ecco perché m'affiorano i ricordi

della città cui auguro grandezza;

vorrei i cittadini tutti concordi;

che passin gli anni nella floridezza.

Il Crati

Ti ricordi, o Crati, quando scorrevi

limpido, mormorando verso il mare:

pesci nell'acque saporiti avevi,

mandrie a te venivan a dissetare.

Anche la lavandaia bruna e bella

coi panni sporchi veniva a lavare;

lieta, cantava la "Calabrisella",

mentre il bucato stava a sciorinare.

Nella notte di Luna risplendevi

come una lunga via di argento vivo,

e col sole di giorno riflettevi

come cristallo; miracol visivo!

Tu non sei più quel d'una volta:

tutto inquinato, non luccichi più;

di sporcizia ne porti tu pur molta

e il mare Ionio l'accoglie laggiù.

La colpa non è tua, naturalmente,

ma la gente non è quella d'un dì,

è quella del progresso, certamente...

che sponsali fa pure il venerdì.