Capitolo II

In questa casa è rimasto solo silenzio, ma ogni angolo è pieno di ricordi, di episodi di vita passata che mi stringono il cuore, che non si ripeteranno più. Ogni centimetro quadrato è testimone di un fatto e mi rinfresca la memoria, mi parla. Nella mia mente rimangono echi di parole, di rumori, di suoni. Il sole entra dalla porta, ma non ti illumina. La notte scende e le ombre avvolgono tutto, spengono i miei entusiasmi, i miei desideri.

Qualche anno fa mi hai detto di comprare delle candele, perché erano finite. Non ne avevo trovato, ma presi dei piccoli lumini racchiusi in un contenitore di metallo. Abbiamo provato ad accenderne qualcuno, ma quando hai trovato le candele, non li abbiamo usati più e non abbiamo mai saputo che farcene. Ora ne accendo uno ogni sera, davanti alla tua bellissima foto, racchiusa in una magnifica cornice di silver, molto luminosa. Ho girato tanto per trovarne una che mi piacesse. E’ sul tuo comò, in mezzo ai tuoi santini, sopra un meraviglioso centro fatto da te all’uncinetto.

Quante cose che hai fatto all’uncinetto, non solo centri, ma anche tovaglie, coperte e altro. E quanti ricami, punti a croce. In un cassetto ho trovato anche i tuoi modelli, i tuoi disegni, insieme a migliaia di bottoni e centinaia di rocchetti di filo.

Ti dico tutto questo perché così posso sentirti ancora vicino, ma anche perché so che non puoi non ascoltarmi.

Quante volte mi hai detto “Quando non ci sarò più”... Diversi anni fa nemmeno tu credevi di raggiungere gli ottant’anni, ma ce l’hai fatta.

La nostra famiglia non esiste più. Mio padre ci aveva lasciato esattamente cinque anni fa. Per lui provavo lo stesso dolore, ma insieme a te era diverso. Ci siamo confortati a vicenda, e presto ci siamo fatti forza. Ma ora non è la stessa cosa, e poi, come si dice, una mamma è sempre una mamma. Credo che il dolore per te non mi abbandonerà mai, qualsiasi cosa mi succederà. La nostra famiglia è distrutta. Non esisterà più niente di quello che è stato tra queste pareti. Tutto quello che è in casa mi sembra ormai inutile. Le voci, il calore, l’allegria, il tuo sorriso non ci sono più. E’ finita. Niente sarà più come prima. Il nostro focolare non potrà ascoltare più nessuna storia, nessuna confidenza.

A volte sovrappongo l’immagine reale dei miei occhi col ricordo, e ti vedo mentre sali o scendi le scale, mentre esci, mentre entri, mentre vai verso la credenza, e vedo il tuo incedere, i tuoi gesti, i tuoi modi di fare e sento le parole che mi dicevi o che mi potresti ancora dire. E’ una illusione, ma mi permette di continuare a vivere.

Non ci siederemo più insieme a tavola, e tuo nipote non verrà più qui la domenica a gustare i tuoi piatti. L’ultima volta avevi fatto gli gnocchi. Erano una squisitezza. Non mi sveglierai. Non mi risponderai più al telefono. Non potrò più guardarti. Non potrò più toccarti. Non ti porterò più con me. Non mi aspetterai più sveglia. Non mi guiderai più.

Ancora mi sembrava che potessi andare avanti, ma mi illudevo. Non pensavo che sarebbe finita proprio ora. Eri ancora lucida, riuscivi in casa a fare tutto. Certo non potevi più pitturare le stanze come una volta o a impastare il cemento per fare qualche riparazione, ma per i lavori casalinghi, nonostante io ti offrissi sempre il mio aiuto, te la vedevi ancora da sola.

Oggi, ventuno marzo. Primavera. Non vedrai più la primavera. Non ti affaccerai più al tepore del primo sole. Oggi, venerdì Santo. La lapide ti ha posto di là per sempre. Di là dello stargate, di là della porta delle stelle. Tu eri una stella lucente, ma non appariscente. Ma una luce ferma, sicura, costante.

Quando esco, però, finisco sempre in posti dove sono stato con te, e allora mi ritornano le stesse sensazioni, lo stesso dolore, che da due mesi forse è aumentato, piuttosto che diminuito, perché, a caldo, le mie reazioni erano state diverse, più lucide, tutto sommato; poi c’era maggiore vicinanza di parenti e amici. Ma ora, ora che c’è solo silenzio, il dolore avanza e vince.

Oggi sono passato davanti alla vecchia Cassa Mutua. Quante file che abbiamo fatto lì. Partivamo all’alba. Prima eravamo con l’INADEL, io ero piccolo. Mi portavi spesso a far visite, per i bruciori all’intestino, per le orecchie, per il naso, per la gola.

Mi portavi alla fiera di San Giuseppe, mi compravi sempre un’ armonica nuova. Mi piaceva tanto. E poi i mostaccioli, che piacevano pure a te, i cagnolini di caciocavallo... E quanti piatti, casseruole, in fiera risparmiavamo un po’.

Penso e cerco di ricordare tutto di te, affinché niente vada perduto, affinché la tua luce possa illuminarmi ancora. Voglio ricordarmi anche di come facevi i nodi alle buste di plastica... Per scioglierli ci voleva un quarto d’ora...

Voglio ricordarmi tutto di te. Di tutte le tue cose, di tutte le tue parole, di tutto quello che hai fatto, di tutte le cose che ti hanno fatto sorridere, di tutto quello che ti piaceva, di tutti i tuoi modi di essere, della tua sana caparbietà per realizzare i tuoi piccoli sogni quotidiani. Piccoli, ma grandi, come le squisitezze che mi preparavi, come i sapori che realizzavi e che non sentirò più. Mai più. Mai più.

La tua era arte. Eri un’artista in tutto. Con le mani eri in grado di fare qualsiasi cosa. Mi ricordo che un tempo realizzavi panieri e ceste con le pigne del nostro pino, che lo scorso anno, purtroppo, ho dovuto tagliare, a causa della processionaria. Ci è dispiaciuto a tutti e due quando lo abbiamo dovuto abbattere. Ci dava anche le pigne per ravvivare il fuoco. L’ultima pigna è diventata cenere quando tu ti sei spenta.

Voglio ricordarmi di tutte le provviste... “Dentro ci deve stare sempre qualcosa” dicevi con saggezza. E infatti, se non ci fossero state le tue provviste, ora sarei morto di fame, perché non ho nemmeno voglia di passare per i negozi. Mi bastano per sei mesi. La casa sembra come un rifugio antiatomico. Grazie.

Mi sento un estraneo in casa mia. Ho dovuto mettere le mani dappertutto, per riscoprirla. C’erano angoli che avevo dimenticato, oggetti che non vedevo più da anni.

Poche volte ti stavo a sentire, ma eri un punto fermo, volevo sempre la tua opinione. Su come mi vestivo, su com’erano i miei capelli, su un lavoro che dovevo fare, su qualsiasi altra cosa.

Oggi faccio le tue stesse cose, i tuoi stessi gesti, in cucina, in camera da letto e penso le migliaia e migliaia di volte che li hai fatti tu. Quanti panni lavati, stesi, stirati. Quante volte hai portato legna e acceso il fuoco. Quanti pranzi, quanti letti sistemati alla perfezione... io mi ci danno! Quante volte hai fatto su quest’agenda la lista della spesa, che al supermercato spuntavi per non dimenticare nulla. Mamma segna questo, mamma segna quello. Gli ultimi giorni forse stavi così male che non riuscivi nemmeno a fare questo.

Una cosa che mi ha particolarmente colpito è che te ne sei andata e non hai lasciato una cosa fuori posto. Prima di accasciarti hai persino lavato i piatti e acceso il fuoco. Mi hai lasciato tutto pronto. Che mamma straordinaria, che mamma dolce, che mamma santa.

Mi facevi e ti facevi anche i capelli. Mai forse sei stata dalla parrucchiera. Per farteli dietro volevi un rasoio di quelli che usava papà, con le lamette. Ancora se ne trovavano, ma non erano più come quelli di una volta.

Il computer ti è sembrato sempre una macchina strana, e in effetti lo è. Lo hai sempre considerato solo una macchina da scrivere, nonostante ogni tanto ti facessi vedere foto o altro, come per esempio lo schema di posa del pavimento della casa nuova, dove insieme dovevamo andare. Non apparteneva al tuo tempo il computer. Ci sarà sempre la tua foto nel mio computer. E non apparteneva al tuo tempo nemmeno la casa nuova e tu lo sapevi. Ti avevo anche chiesto consigli su come fare il caminetto come una volta. Quando il tempo sarebbe migliorato saremmo dovuti andare a vedere se tirava. Te lo avrei fatto accendere. Ma non è stato più possibile. Qualche anno fa mi seguivi spesso, mentre io andavo a fare qualche lavoretto. Poi sempre di meno. L’umidità, il vento o il sole ti dava sempre più fastidio. In una busta appesa a un albero ci sono ancora i tuoi piccoli attrezzi. Ogni tanto però ti portavo e ti facevo vedere i miei progressi con i muri e i muretti che costruivo, con altre cose... E tu eri contenta. Mi lasciavi il caffè, il panino e poi ti riaccompagnavo. Non potrò più farlo.

Sono accanto al camino e m’illudo che tu mi sia ancora di fronte, sull’altra sedia, a intavolare qualche discorso, a ripercorrere i tempi passati. Com’era bello, mamma, com’era bello. Era forse il momento più bello, più sereno. Stare vicino al fuoco e parlare. Come mi manchi.

Il tempo produrrà una sostanza nel cervello che allevierà il mio dolore, se vivrò. Ma sto scrivendo queste cose anche per non dimenticare nulla, per rinfrescare e conservare il mio dolore, l’unica cosa in me che ho di te.

Consumo i tuoi ultimi pasti, che ancora sono nel frigo, le ultime cose che tu avevi preparato per me. E ogni boccone una lacrima e un singhiozzo.

Questa casa era il tuo mondo. Senza te non è più la stessa. E’ morta anch’essa. Stanze percorse milioni di volte, gesti ripetuti, immagini, rumori, echi.

Ti ho immaginato appoggiata alla ringhiera, come facevi spesso d’estate, quando non c’era corrente, quando ci guardavamo e parlavamo l’uno di fronte all’altra; e poi quando pulivi la strada dai piccoli pezzi di corteccia o dalla terra lasciata dalla legna, quando guardavamo i gatti giocare o mentre ci venivano affettuosi in mezzo alle gambe, quando discutevamo del da farsi l’indomani riguardo a questo o a quello... anche questo era il tuo mondo, il tuo spazio.

Ognuno ha una storia da raccontare. Io ho questa.

Quanto freddo che ha fatto quest’anno. Cenavi piegata sulla stufa. Non riuscivi nemmeno più a riscaldarti. Il tuo sangue non era più sangue. Una piccola ferita, un puntino, per rimarginarsi c’è voluto oltre un mese, e ancora si notava.

Eri stanca, ormai. Eri arrivata. Avevi resistito fin troppo. Lo avevi fatto per me, solo per me. Facevi i gradini a piedi uniti ormai da diversi anni. Scopavi a terra con una paletta giocattolo che aveva il manico lungo, per evitare di piegarti. Fare la discesa per andare a buttare la spazzatura era diventata un’impresa. Avevi sbandamenti e i tuoi piedi ardevano. Negli ultimi tempi dicevi a me di andare a buttare i sacchi. Mai me lo avevi detto. I dolori oramai erano diventati insopportabili. Non c’era più niente che poteva farti star bene o almeno migliorare.

Tra le cose più terribili, poiché con mia sorella temevamo già il peggio, è stato andare a vedere la valigia dove tu avevi preparato gli abiti per il tuo letto di morte. E stato dilaniante aprirla. A parte le scarpe, tutto era stato da te predisposto con cura. Una veste nera, con delle barchette a vela beige. Mi ricordo quando te la cucivi, qualche anno fa. Ti sentivi pronta ad affrontare il viaggio. Non te l’ho vista mai addosso. Ora capisco perché. Era bellissima, elegantissima. E poi il libretto di preghiere, il fazzoletto, il rosario.

Ogni giorno mi sto rendendo conto sempre di più che la cosa più grande che mi hai lasciato è proprio il Santo Rosario. Per anni e anni quasi non ci avevo fatto caso. E ora mi accorgo che ne avevi ben quattro. Semplici, ma molto usati. E m’è venuta voglia improvvisamente di farlo anch’io. Ho avuto quasi come un’ispirazione, una grazia. Lo sto recitando ogni sera e a volte quando sono in attesa da qualche parte. Lo sto studiando. Ne ho appreso la tradizione, le forme, lo scopo per il quale viene recitato. Un giorno sono entrato nella chiesa del Carmine, a Cosenza, volevo dire una semplice preghiera. D’un tratto mi è stato dato un libretto: Il Rosario delle sette sante parole. Poco dopo i presenti hanno iniziato a recitarlo. Mi sono seduto e l’ho fatto anch’io. Ho provato una gioia immensa. Mi sono sentito vicino al Signore, alla Madonna e vicino a te, mamma. Finalmente ho trovato un po’ di pace. Ora lo ascolto anche alla radio. C’è a mezzanotte, su Radio Maria, che prima non mi sarei mai sognato di ascoltare. Ho stampato anche un libretto con il Rosario completo, perché spesso non mi ricordo i misteri e per non usare sempre il tuo libretto, in quanto spesso mi ci addormento sopra e rischio di sciuparlo.

Ancor prima che papà peggiorasse, parlo di almeno sette anni fa, a maggio andavi sempre al Rosario della Madonna della Neve, e poi, a giugno, a quello della Madonna Assunta. Era la tua unica uscita, a parte quando andavi a segnarti le medicine dal medico. Quanto hai pregato, per me, per tutti. Poi non ce l’hai fatta più. Il pomeriggio il sole ti faceva male alla testa e hai dovuto rinunciare. Da tre o quattro anni non andavi più nemmeno alla novena prima della festa: troppo tardi per te. A quell’ora già ti assopivi. Da novembre, mi pare, non andavi nemmeno più alla Messa della domenica: troppo freddo, barcollavi già, stavi cedendo, anche se quando camminavi sembravi una piuma e che portamento, sembravi una modella. Ma dentro avevi già gli organi che non ti funzionavano più.

Mi dispiace anche per come sei morta. Ancora, nemmeno io temevo il peggio. E invece, proprio mentre già ti attivavi per le cose della domenica, avevi appena sceso le scale, quando ecco l'agguato, ti ha in pochi secondi mutilato, ti ha fatto barcollare nelle mie braccia, ti ha reso assente, inespressiva, ha ucciso prima la tua mente e poi lentamente anche il corpo. Non mi hai mai più parlato. E' una scena che mi ha traumatizzato, mi ha fatto leggere nei tuoi occhi la fine. Una scena che avrò sempre davanti agli occhi per tutta la vita. E mi ha impressionato la tua voglia di resistere, di non crollare, di opporti al demone assassino. Non volevi sdraiarti, non volevi assolutamente cedere. Chissà se sei riuscita a pensare a qualcosa, chissà lo strazio che hai sentito.

Per più di un mese credo che tu comunque sia stata lucida, cosciente. Credo che capivi le mie parole. Provavi a rispondermi ma non ti riusciva e ti uscivano le lacrime. Piangevi anche quando veniva a trovarti qualcuno, ti commuovevi, poi però gli sorridevi e gli prendevi la mano. Quando se ne andava lo salutavi con un cenno e diventavi pensierosa. Mi guardavi con occhi che mi dicevano tutto, comunque, non avresti voluto lasciarmi, ma non volevi essere di peso per nessuno e forse ti sei lasciata anche andare. Eri cosciente di essere diventata un vegetale. E’ stato come se ti avessero torturato giorno e notte. Mai nessun segno di miglioramento sempre peggio, da sveglia mai un’ora tranquilla. Ti contorcevi di continuo e noi sempre un’ansia che ci ha tolto il respiro e a me anche lo spirito.

Non avevo mai visto una cosa simile. Intorno a te c’erano altri malati che sorridevano, parlavano... in confronto a te loro erano già guariti. Una addirittura faceva baccano apposta, perché voleva stare sempre al centro dell’attenzione. Gli infermieri e gli inservienti ridevano e scherzavano, gridavano all’inverosimile!. Erano bravi, ma quasi non avevano rispetto per la tua sofferenza e, abituati a situazioni del genere, avevano perso quel senso di umanità che si acquista solo quando poi è il proprio turno.

Tu eri l’unica a non farci caso. Eri quasi già dall’altra parte.

Mentre ero al tuo capezzale, pensavo, non potevo far altro che pensare. Mi ricordavo di tutta la tua vita, di quello che eri stata, di quello che eri, di quello che saresti stata. Immaginavo scenari, dai più nefasti ai meno peggiori. Ma una cosa era certa: a casa tua non saresti mai più tornata. Non avresti più fatto le tue cose.

A casa facevi tutto tu. Non c’è un ordine in quello che scrivo, ma proprio adesso mi ricordo che conoscevi a memoria il giorno e finanche l’ora in cui arrivavano i fruttivendoli che ora non si fermano più ma suonano, in segno di rispetto. Veniva anche Lorenzo, da Fuscaldo, a portarti il pesce: alici, ricciole, cernie e calamari. Qualcosa ancora nel freezer. Ogni tanto veniva anche Ivo, dal quale compravi maglie, camicie e calzini per me, solo per me. Nessuno gli ha detto che eri morta, e quando l’ha saputo non poteva crederci. Ti ha lasciato nella cassetta della posta un bigliettino, con l’ultimo saluto. Te lo sono venuto a leggere al cimitero. Spero tanto che tu mi abbia ascoltato.

Ora anche Ivo è morto. Tragicamente, in un incidente.

Eravamo rimasti d’accordo che mi avresti insegnato la lavatrice, ma non hai fatto in tempo. Mi ricordo che parlavi del programma numero otto, ma per me è più semplice il computer che la lavatrice. Sono proprio negato.

I regali che mi hai fatto... Per te non compravi più niente. Tempo fa lo hai pure detto.

Nei giorni in cui tutti ti sono venuti a trovare piangevi, non per te, ma per me. Un po' mi stringevi la mano e un po' me la accarezzavi. Poi in clinica, non volevi più mangiare, non volevi farti vedere in quelle condizioni, né più infastidirci. Stavi sempre più male. Mi hai accarezzato fino all'ultimo giorno, fino a quando non sei andata lentamente in coma. L'ultima immagine di te sveglia che ho è quando per pochi secondi ti sei svegliata, hai fissato intorno a te dei punti ben precisi, ma che forse non erano più là, in quella stanza, ma nell'al di là. I tuoi genitori? Tua sorella e i tuoi fratelli che ti accoglievano? Chi lo sa.

Quante volte hai detto “Quando non ci sarò più”, “Chissà se ci sarò”. Sentivi forse che la fine stava arrivando. Ogni giorno eri più pensierosa, ogni giorno pregavi sempre di più. Sapevi che non avresti potuto resistere ancora molto. Le forze diminuivano e l’attesa della morte deve essere stata terribile. Erano ormai rari i momenti in cui ti scappava un sorriso. Pensavi solo a me, mi facevi gli ultimi avvertimenti, poi stavi sempre più con le tue figurine, i tuoi libretti, i tuoi giornali di Sant’Antonio, o Dio mio!

Quanti ricordi, quanti discorsi, quanti avvertimenti che mi hai dato.

Tu non eri buona come tutte le mamme, eri davvero buona e generosa. Io ti dicevo di non aprire a nessuno e tu, per fare la carità a chi bussava alla tua porta, andavi dal balcone a calargli giù qualcosa. Una semplice idea geniale!

Quante cose che mi hai fatto, solo quanti rattoppi, quanti bottoni appiccicati. Oh mamma, quanto bene.

Proprio non riesco a rassegnarmi alla tua morte. Non mi sembra la realtà questa. Tu ci sei ancora, guardo le tue cose e ti vedo ancora là, china, seduta o affaccendata. Quando tocco un oggetto che tu avevi riposto o un capo di vestiario che tu avevi ripiegato, mi sembra di violarlo, è come se un soffio del tuo spirito di cui era intriso se ne andasse.

Com’eri bella mamma, quando ti sistemavi per andare a messa sembravi una signorina. Ormai uscivi solo per andare a messa e volevi che anch’io ci andassi.

Mi sta passando tutto davanti agli occhi. Come sono triste mamma. E una tristezza e un dolore che non mi abbandonerà mai. Potrò distrarmi, ma nella mia mente e nel mio cuore ci sarai sempre.

Ti ricordi? Benigni recitava Dante, e a te piaceva tanto. Rinunciavi persino ad andare a letto. E le trasmissioni che volevi seguire in TV... Sardella, te lo ricordi Sardella? Come ti piaceva... Sai, ha ripreso; peccato, non lo potrai vedere. Seguivi con attenzione anche Mi manda RAI Tre e Geo & Geo. E “Don Matteo”, ti ricordi di Don Matteo? In clinica c’era un piccolo televisore e quando c’era cercavo di spingerti a dare un’occhiata, ma non ce la facevi, non ce la facevi proprio. Quante volte, poi, hai guardato “Chi l’ha visto?”, ti dispiaceva in particolar modo dei bambini smarriti, avevi un cuore grandissimo. Com’è terribile. Com’è stata crudele con te la vita.

Avremmo sistemato le ultime cose, ti avrei fatto un regalo, ti avrei portato alla casa nuova, sempre in costruzione, che non so più che farmene. Come ti piaceva. Volevi sempre strappare le erbacce. L’ultima volta hai raccolto anche i fichi per terra, e ne hai fatto una squisitezza. Avevi voluto che mettessi la ringhiera alle scale, anzi, me l’avevi regalata tu. Peccato, che peccato. Quando eri in clinica si è allagato tutto, quasi un presagio.

A chi potrò dire tutte queste cose? Solo a te e a Dio, perché nessuno mi capirebbe, e poi a che scopo?

L’orto... Oggi ho tagliato l’erba, l’ho tolta dai tuoi vasi ormai secchi, dalle tue aiuole. Per l’inverno li avevi protetti con dei teli, ma è stato tutto inutile. Per due mesi e mezzo nessuno più ha dato loro amore. Qualcuno dei vasi, però, non demorde, le piantine si fanno strada e qualche fiore inizia a sbocciare. E’ tutto opera tua. Avevi i fiori più belli del paese. Oltre venti varietà di rose, garofani e altri fiori di cui non sono mai riuscito a ricordare il nome. I tuoi piccoli attrezzi...

Ancora avevi comprato legumi da piantare... le tue piantine... solo tu sapevi curarle in quel modo e com’eri contenta quando negli ultimi tempi ti portavo al vivaio per sceglierne di nuove. Quanti viaggi ogni giorno hai fatto su e giù con i bidoni rimasti dalla varechina per andare ad innaffiarle... Il vento li aveva buttati giù quasi tutti. Oggi li ho riempiti di nuovo e li ho messi un’altra volta in fila lungo la scala, pronti all’occorrenza. Di nuovo qualcosa sembra prender vita, anche quel poco di ordine che sono riuscito a dare alle varie cose sembra ridare un tono diverso a questo pezzetto di terra che per almeno mezzo secolo è stato il nostro piccolo paradiso terrestre.

Non vedrai più i tuoi fiori sbocciare, mamma, ma la tua tomba non sarà mai senza fiori. L’ultima volta che siamo andati al cimitero hai detto “Quello è il mio”, intendendo il loculo. Forse lo sapevi già che da lì a pochi giorni vi saresti salita. Probabilmente avevi avuto dei sogni premonitori, che mai mi raccontavi, per non farmi preoccupare, se non dopo che un fatto era già successo.

Come ci tenevi ad andare al cimitero, per dire una preghiera a tutti e sistemare i fiori raccolti nel tuo piccolo giardino, un giardino fatto con sassolini raccolti qua e là, cocci, sabbia setacciata dalla polvere della strada. Ma bellissimo, bellissimo. Tutti si soffermavano alla ringhiera e lo ammiravano.

Compravi cose e le mettevi da parte. Mi nascondevi le cioccolate sapendo che prima o poi ne avrei avuto voglia. E quando ero quasi disperato perché non ne trovavo più nello stipo, ecco che, con mia grande sorpresa, ne tiravi fuori una grandissima, di cioccolato fondente.

Proprio un paio di giorni fa mi sono tagliato un dito con un coltello. Mi sono messo a piangere non per il dito, ma per tutte le volte che hai medicato amorevolmente le mie ferite. Il ricordo mi ha fatto piangere a dirotto, almeno per mezzora.

Senza di te ho iniziato una vita nuova che non so dove mi porterà. Anzi non l'ho proprio ancora iniziata. Sono circondato dalle tue cose, che non riesco neanche a muovere. Vorrei che stessero sempre lì, così come le hai messe tu.

Trovo ancora i tuoi capelli caduti.

Accoglievi sempre i bambini, proprio come Gesù. Caramelle, cioccolatini, parole dolci, sorrisi e carezze, tante carezze. Regalini. la prima volta che un bambino piccolo varcava la tua porta, avevi sempre pronto, da qualche parte, un regalo più sostanzioso.