Come si viveva

Le sfide con i Sanpietresi

Fu forse nell'800 che nacque una certa rivalità tra gli altavillesi e i sanpietresi. Alcuni gruppi di persone si davano appuntamento (particolarmente la vigilia dell’Immacolata Concezione) "aru ponte!" , cioè al Ponte Mulino, dove avvenivano, alla luce di torce accese, "‘e iacchère", sassaiole e scontri durante i quali qualcuno si faceva pure male. Si parla anche di persone fatte prigioniere da una parte e dall’altra e tenute in gattabuia per qualche giorno. Questi eventi, comunque, erano più una tradizione che battaglie vere e proprie, poiché i due paesi sono sempre stati legati da grande affetto.

E forse proprio allora vennero inventate barzellette sugli uni e sugli altri: quando i Sanpietresi piantavano “simìgie”, cioè i chiodini da calzolaio, per farli diventare chiodi lunghi… quando gli Altavillesi, innalzando “cannizze”, ovvero dei graticci di canne, volevano oscurare il Sole affinché non illuminasse l’altro paese… e quando, a loro volta, i Sanpietresi innalzavano siepi per non far sentire il loro orologio agli Altavillesi… e tanti altri racconti.

“I spirdi” (gli spiriti)

Vennero tramandate nel tempo anche storie di spiriti (i spirdi), che in genere servivano a tenere buoni i bambini, a non farli allontanare e a non farli uscire di sera.

Si diceva, ad esempio, che al Ponte Mulino ci fosse il fantasma di un uomo barbuto precipitato nel torrente a causa dei cavalli imbizzarriti che tiravano il suo carro.

Sempre al ponte Mulino, ma anche in altri posti, alcuni affermano ancora oggi di aver sentito rumore di zoccoli, versi e voci.

Secondo altre testimonianze più di un viandante aveva raccolto tra le braccia un bambino che aumentava di peso ad ogni passo; presi dallo spavento i viandanti scaraventavano il bambino lungo le scarpate, dopodichè sentivano un baccano infernale.

Una persona racconta ancora di aver incontrato, lungo la vecchia strada che conduceva a San Benedetto, quattro figure umane, le quali ad un tratto assunsero le sembianze di un cavallo che sparì subito dopo una curva.

Un'altra persona racconta che sulla strada di Santo Stefano un giorno si rovesciò un carrozzino con due passeggeri, uno dei quali perse la vita. Una signora accorse, ma non potè far nulla. Dopo qualche tempo la signora se ne andava passeggiando lungo la stessa strada col figlioletto, che aveva un paio d'anni; ad un tratto, colui che aveva perso la vita si mostrò solo al bambino, offrendogli delle caramelle.

Le sepolture

Fino agli inizi dell'800 i defunti erano seppelliti in fosse comuni sotto o dentro le chiese. Si pensava che così potessero essere più vicini a Dio. Avveniva così anche ad Altavilla. E' risaputo che sotto il livello del pavimento della chiesa della Madonna Assunta c'era una "carnara", cioè un luogo di sepoltura pubblico, al quale si accedeva, con ogni probabilità, da un ingresso laterare (oggi murato) ricavato forse in un muro perimetrale del vecchio castello.

Il probabile ingresso della "carnara", ove avvenivano le sepolture.

I cimiteri in aperta campagna venivano utilizzati solo in caso di epidemie. Nel periodo di dominazione francese entrò in vigore l'editto di Saint-Cloud, emanato da Napoleone nel 1804 e adottato nel Regno delle Due Sicilie nel 1817, il quale prevedeva che, per motivi di igiene pubblica, le sepolture dovessero avvenire in cimiteri opportunamente custoditi e distanti dai centri abitati. Ma c'erano delle resistenze, tanto che ancora intorno al 1860, come attesta Vincenzo Padula, il cimitero non esisteva nemmeno a Cosenza, con problemi di vario tipo. Per esso ci volle il 1867, quando era capo della città Nicola Mollo. Solo dopo l'Unità d'Italia, con una legge del 1874 fu definitivamente vietato seppellire i defunti nelle chiese. Ma erano periodi ancora di grande confusione, tanto che nella stessa chiesa dell'Assunta, è visibile la tomba di un bambino che cessò di vivere nel 1884.

Il primo "camposanto" nel nostro paese venne realizzato nel 1892, qualche anno dopo quello di San Pietro in Guarano, che risale invece al 1885. Le salme iniziarono così ad essere inumate, cioè interrate. Dopo dieci anni le spoglie venivano poi sistemate nell'ossario. Le prime tumulazioni in loculi, con lapidi incise, risalgono invece al 1920-1930, allorquando nelle città, col diffondersi dei cimiteri monumentali e degli articoli funerari prefabbricati, presero piede le prime concessioni cimiteriali perpetue. Questo fenomeno si intensificò negli anni '60.

Le vecchie costruzioni

Occorre precisare che quasi tutte le case del centro storico furono costruite con malta a base di argilla, tranne il castello e qualche edificio costruito tra la fine dell'800 e i primi 900, compreso il vecchio cimitero, nei quali venne adoperata malta a base di calce spenta proveniente dalle “carcare” ovvero da fornaci del posto. Il materiale "legante" veniva mescolato con roccia gneissica o sedimentaria frantumata ("u scùogliu") che sostituiva quasi sempre la sabbia vera e propria, troppo costosa e quasi impossibile da trasportare dal lontano fiume Crati. Questo surrogato di sabbia, insieme alle pietre da costruzione, trasportate sulla testa spesso anche da donne, proveniva quasi certamente da cave locali. Se ne conoscono diverse e le zone a valle dette “Cava a vutta”, “Cava dell’Edera”, “Cava ‘e Petrascigula” e “Cafaruni” potrebbero indicare proprio i luoghi in cui veniva estratto il materiale insieme alle pietre da costruzione. Altre piccole cave dovevano trovarsi nelle zone dette “Arcuacchiànu”, “Varcu Lappanu” e a valle della collina Iorio. Ma c’erano sicuramente cave anche a San Pietro in Guarano, una dove sorge l’attuale scuola media e un’altra a scendere dalla piazza verso San Benedetto.

A proposito di “cannizze”, già citate nel testo, bisogna dire che sono ormai quasi scomparse, ma un tempo erano usate per riparo, o per stendervi ad essiccare fichi, uva, funghi o come supporto per la malta a base di argilla nelle pareti divisorie delle abitazioni o nei sottotetti, pensate un po’… Nel nostro dialetto il locale sotto le falde del tetto viene ancora oggi chiamato "cannizzu", perché in genere era realizzato in questo modo. In tutta Altavilla, durante la ristrutturazione di diverse case antiche ne sono state ritrovate diverse. C’era ancora qualche traccia nel quartiere disabitato di Via Piè La Terra, ormai demolito e in qualche casa di campagna.

Resti di un tramezzo con struttura in canne.

All'epoca erano caratteristiche anche le architravi di porte e finestre, "i supapuorti", realizzati con uno spesso tavolone di castagno, ancora visibili qua e là.

C’è da dire ancora che i muri delle case venivano resi uniformi esternamente con la tecnica della “ntacciatura” che consisteva nell’inserire negli avvallamenti delle pareti piccole pietre o pezzi di coccio. Per i piedritti delle porte venivano spesso usati mattoni crudi fatti a mano, mentre gli architravi erano di legno o fatti con mattoni disposti ad arco a volte anche ribassato. I solai erano realizzati anch’essi con travi di legno sovrastati dalle “faddacche”, tavoloni in genere di castagno, provenienti dai rigogliosi boschi locali; su questi tavoloni veniva poi steso “u rizzimuötu", strato di malta e pietrisco sul quale poggiavano i mattoni di creta del pavimento.

Per i tetti si usavano coppi (“i ceramili”) molto più grandi di quelli usati attualmente nelle ristrutturazioni; una provenienza probabile di molti di questi coppi, dove c’era una fornace, è "Ceramilìu" nella zona di Santa Lucia di San Pietro in Guarano.

Quelli che attualmente si possono osservare sui tetti delle vecchie case sono di due tipi: alcuni sono molto grandi e irregolari, perciò forse realizzati artigianalmente, di un'argilla abbastanza scura, e che sembrano essere quelli più antichi, risalenti forse ai primi anni dell'800, quando il paese venne ricostruito dopo il terremoto del 1783 che aveva raso al suolo tutto il paese; altri sono più piccoli e chiari, cotti quasi certamente in una fornace di tipo preindustriale e che risultano essere utilizzati per la prima volta in edifici costruiti sicuramente nei primi anni del '900.

Tipica delle vecchie costruzioni era "a rumanedda", cioè la “romanella”, antico sistema per realizzare i cornicioni delle case: venivano usati i coppi di laterizio posti a rovescio sui muri dove scendevano le falde, in maniera tale da creare uno sbalzo. Nelle case più eleganti veniva anche fatta una doppia o tripla romanella. Il sistema è caduto in disuso negli anni ’60, quando sono comparsi i tavelloni.

Col tempo le coperture cambiarono. La tegola marsigliese a doppia conca fu brevettata nel 1851, ma per le prime produzioni su larga scala ci volle il 1874, quando le tegole divennero il primo standard di produzione globale. Questo tipo di tegola veniva semplicemente stampata e consentiva il risparmio di materia prima. Risultava anche più facilmente calpestabile, nonostante la sua leggerezza.

Presumibilmente le prime tegole industriali furono realizzate nell'Italia meridionale nei primi anni del secolo scorso e le ritroviamo in qualche edificio dell’epoca, provenienti dalla fornace pugliese di laterizi De Filippis & C. Esse, ancora rinvenibili, presentano un incastro alternato diverso da quelle più moderne degli anni '60-'70 , che risultano allineate l’una all’altra.

Dopo il terremoto del 1783 i tecnici e i maestri muratori di allora pensarono di rivedere la tecnica delle costruzioni, migliorando ad esempio le fondazioni, usando catene o barre di ferro per ancorare le pareti, sbozzando (“attozzare”) le pietre irregolari, edificando rinforzi e contrafforti ("barbacani") addossati alle case e livellando bene con mattoni, al massimo dopo ogni metro e mezzo, le strutture murarie, per migliorarne la stabilità. Ma la maggior parte delle persone erano povere e gran parte delle vecchie case che ancora oggi si vedono hanno pareti in muratura mista abbastanza precaria: massi di roccia dura, provenienti quasi certamente dal vecchio castello (che non si ritrovano altrove, ad esempio nelle campagne o a Lappano centro), tufi provenienti dalla chiesa parrocchiale, mattoni fatti a mano, cocci di coppo largamente utilizzati per pareggiare le murature, malte ottenute con argille.

Tipiche costruzioni di campagna, praticamente scomparse, erano i pagliai, ricovero di animali e rifugio per i contadini in caso di pioggia. Ci voleva una certa perizia tecnica per costruirli, in quanto dovevano resistere anche al vento e alla neve.

Agli inizi del '900 le murature divennero più regolari e meglio rifinite; vennero realizzate anche aperture ovali e archi ribassati grazie anche all'utilizzo, come già accennato, della calce spenta. Comparvero anche i primi mattoni forati, allora molto piccoli.

Il calcestruzzo armato venne introdotto per la prima volta in Italia nel 1892, a Napoli, grazie all'Ing. Giovanni Narici. La sua diffusione su larga scala risale ai primi anni del 1900. All'epoca l'armatura veniva realizzata con un tondino di ferro liscio, la cui produzione iniziò nelle acciaierie di Terni a partire dal 1922.

Ma occorre dire che il cemento cominciò ad arrivare in paese solo dopo il secondo conflitto mondiale. Come raccontavano persone anziane, esso giungeva da Vibo Valentia Marina, dalla cementeria “Calce e Cementi di Segni”, che avviò il primo forno solo nel 1944.

Per le prime case con mattoni pieni di tipo industriale ci vollero gli anni '60. Fu proprio in quel periodo che ebbero larga diffusione i solai con travi in ferro e tavelloni ricoperti da cemento, cordoli in cemento armato e tegole marsigliesi di moderna concezione.

Per il secondo o il terzo livello degli edifici, per non appesantire la muratura, furono usati anche i mattoni "21 fori"; salendo di livello e le pareti diventavano meno spesse, usando schemi di posa ben precisi.

Negli anni successivi comparvero le moderne tecniche di costruzione antisismica, le coibentazioni, gli infissi di alluminio color oro o argento (oggi in disuso), le tapparelle (prima di legno, poi di plastica), le tegole di cemento e quelle portoghesi, usate ancora oggi, che uniscono all’aspetto di una copertura tradizionale i vantaggi di un moderno stampaggio e di una superiore resistenza meccanica.

La cucina

Quando non c’erano ancora il frigorifero e il congelatore, diversi alimenti venivano messi a seccare al sole, altri sotto-sale, in tinelli, altri ancora sott’olio, in vasetti di vetro.

Molto usato era anche il sistema a bagnomaria, specialmente per la salsa fatta in casa (a cunzerva). Il giorno presatabilito si mobilitava di buon mattino l'intera famiglia: i pomodori, raccolti il giorno prima venivano sbollentati e macinati; il sugo ottenuto finiva, insieme a qualche fogliolina di basilico, in bottiglie di varie misure, accuratamente scelte e conservate, che venivano tappate con i tappi di sughero; le stesse venivano poi riposte, separate da stracci, nella pentola più grande di tutte, a quadara, e quindi bollite per qualche ora. Esiste per fortuna ancora qualcuno che utilizza questo procedimento, ma per quanto ancora?

L'alimentazione era però scarsa. Si mangiavano di solito molta verdura, legumi e patate. La pasta veniva consumata di domenica e nei giorni di festa. Anche il pane scarseggiava e a volte bisognava fare uso di quello fatto con farina di castagne o di segala. La carne era poco consumata e, dato che non c'erano macellerie, bisognava accontentarsi degli animali che ognuno poteva allevare. Il consumo di pesce era raro, vista la lontananza dal mare, ma d’uso comune erano le sarde salate e pepate. La pasta veniva venduta sfusa.

Un piatto ormai scomparso era l’acquasale, fatta con pane riscaldato in acqua, sale, cipolla e un uovo; c’erano anche delle varianti.

La mattina i bambini mangiavano una zuppa di latte di capra. Verso le dieci, quelli che erano andati molto presto a lavorare nei campi facevano "u morsieddru" (spuntino), a base di patate e cipolle fritte, salumi e formaggi. A pranzo e a cena si consumavano anche minestre e soprattutto "‘a minestra maritata" (verdure selvatiche), bollite con "‘a vecchia" (insaccato di maiale).

Il pane si faceva una volta al mese e si conservava su ripiani di canne intrecciate. In casa veniva fatto a volte anche il formaggio e quasi tutti possedevano galline, oche, conigli, capre, pecore e maiali.

Il caffé veniva abbrustolito nel tostino o tostatore, che assomigliava moltissimo alle vecchie urne del lotto. Era macinato, poco prima della preparazione, col classico macinino a manovella. All’inizio veniva usata la “cicculatera”, un semplice pentolino dove il caffè veniva messo a bollire per poi essere filtrato. Ma il successo del caffé fu dovuto in parte all'invenzione geniale della caffettiera. Il tutto accadde a Napoli, dove venne chiamata mocha o cuccumella. Il filtro stava su un supporto a forma di cilindro che veniva inserito in un pentolino; un secondo pentolino col beccuccio veniva posto capovolto sul primo. La cosa buffa era che, quando l'acqua iniziava a bollire, bisognava afferrare dai manici la caffettiera e capovolgerla velocemente, stando attenti a non scottarsi. Bisognava poi aspettare qualche minuto prima di gustare un caffé dal gusto molto delicato. Col tempo prese il sopravvento una nuova caffettiera, la moka spagnola, tecnologicamente forse più avanzata, usata ancora oggi per fare il caffè espresso.

Il tostino

La caffettiera napoletana

Non essendo possibile solo col caminetto cuocere contemporaneamente o tenere in caldo varie pietanze, si usavano le cosiddette fornacelle. Praticamente, a lato del caminetto, veniva costruita una specie di cucina in muratura; i fornelli erano dei cerchi di ghisa concentrici, come quelli delle stufe a legna; questi cerchi ricoprivano una griglia nella quale veniva messo il carbone acceso. Sotto questo fornello a carbone vi era anche un piccolo vano nel quale veniva raccolta la cenere.

Un antico camino con le fornacelle. In basso potete vedere anche un braciere, un tostino e una pignatta.

Una fornacella di ghisa

Per secoli e secoli, da quando l'uomo iniziò a saper lavorare i metalli, le pentole furono costruite di rame. Ci si accorse però che esse erano tossiche, specialmente per il fegato. E' per questo che ad un certo punto si pensò di rivestirle all'interno con uno strato di stagno. Tale operazione, di tanto in tanto, veniva ripetuta dal “quadararu”, ossia dallo stagnino o stagnaro, che arrivava in paese munito di tutti gli attrezzi e che, prima di mettersi a lavorare, annunciava a tutti a squarciagola del suo arrivo. Bambini e ragazzi accorrevano ad osservarlo. E' un evento che ormai è scomparso. Per una descrizione completa di questo mestiere cliccate qui.

Le prime pentole di alluminio arrivarono durante la seconda guerra mondiale, perché il rame occorreva per le munizioni dei soldati. Accadde perciò che il governo requisì tonnellate e tonnellate di pentole di rame. In compenso quelle di alluminio erano più leggere e si riscaldavano presto, facendo quindi risparmiare anche un po' di energia.

Il riscaldamento

Nelle case della gente comune c’era un solo caminetto, costruito in cucina; per riscaldare le altre stanze si usava il braciere, un grande piatto metallico con i manici, posto su un supporto di legno circolare, in cui si mettevano carboni ardenti presi dal camino e ai quali poi se ne aggiungevano altri presi da sacchi che vendevano in giro i carbonai. I panni spesso venivano asciugati su una cupola costruita con sottili assi di legno, detta asciuttapanni, che veniva posta sul braciere.

A scuola, se faceva molto freddo, veniva usato anche un braciere. I bambini portavano una scatola di latta nella quale mettevano qualche carbone. Succedeva altresì che qualcuno di loro venisse incaricato di andare in giro per le case a cercare un po' di brace o un po' di legna.

In tempi più recenti qualcuno iniziò ad usare le cosiddette cucine economiche a legna, usate sia per cuocere che per riscaldare, ritornate un po’ di moda perché danno ai cibi un sapore migliore.

Una stanza col soffitto in legno. Appeso a destra un asciuttapanni.

La scuola

La maggior parte degli scolari frequentava fino alla seconda elementare, per imparare a leggere, scrivere e far di conto, che, per quei tempi, si riteneva sufficiente. Chi voleva proseguire gli studi doveva andare a piedi a Cosenza, andata e ritorno.

I banchi erano tutti di legno, con il piano inclinato che si apriva verso l'alto per riporre i libri e sollevati da terra da una pedana. L'aula, ricavata in una stanza di qualche casa veniva riscaldata da un caminetto e da un piccolo braciere portato da casa; vi erano bambini di diversa età che indossavano un grembiule nero con delle striscioline colorate sul braccio, indicanti la classe. Le cartelle erano di cartone e sulle copertine nere dei quaderni non c'era la pubblicità.

Si scriveva con una cannuccia col pennino, intinto nell'inchiostro di un calamaio. Per asciugare le parole si usava della carta assorbente. Il primo anno si facevano le aste, poi le vocali, le consonanti e i numeri. In seguito si facevano esercitazioni di bella scrittura, copiati, dettati, problemi, temi e attività manuali e pratiche.

L'insegnante era autoritario, non permetteva assolutamente di parlare o muoversi. Le punizioni erano dure e mortificanti. I bambini più vivaci e negligenti venivano messi con la faccia al muro per molto tempo, oppure dovevano stare in ginocchio sui ceci o ricevere sulle mani colpi di "bacchetta", che era il terrore degli scolari.

Per anni gli alunni hanno fatto lezione in diverse case e molti si ricordano del maestro Vincenzo Fiorita. Nel 1954 venne poi ultimato l’edificio di scuola elementare, oggi sede dell’ambulatorio medico. Si racconta che in occasione degli scavi per le fondazioni vennero fuori ossa umane risalenti chissà a quale epoca. Sede con pluriclassi era una istituzione tenuta in grande considerazione. Si ricordano bravi insegnanti, mitiche la maestra Verardi e la maestra Fedora, arcibrave anche la maestra Sganga e la maestra De Luca.

La maestra Grazia Verardi

La maestra Fedora

La maestra Sganga

La maestra De Luca

L’arredamento

In quei tempi i mobili erano essenziali e funzionali; per unire gli elementi i falegnami usavano chiodi, colle naturali e incastri particolari detti "a coda di rondine". Per incurvare alcuni pezzi si usava l'acqua o il vapore.

Un tavolo, qualche sedia impagliata, una cassapanca dove si teneva la frutta secca, la credenza, un baule per lenzuola e coperte, uno comò per la biancheria, un armadio con lo specchio centrale e i letti: questo era tutto l’arredamento.

La credenza veniva usata per conservare e proteggere il cibo dagli animali che spesso stavano in casa. Col tempo a questo mobile vennero aggiunti mensole e vetrine. Facili da ricavare nelle spesse pareti, molto usati erano anche gli armadi a muro, che diventavano il più delle volte delle dispense.

I letti all’inizio erano costituiti da cavalletti su cui poggiavano delle tavole e da un materasso ripieno di paglia o di brattee di mais, dette “foderi”. Successivamente comparvero le brande a rete metallica e i materassi e i cuscini imbottiti di cascame di canapa, lino o lana (“a linazza”).

Alcuni di questi letti erano molto alti, per contrastare il freddo e l'umidità degli ambienti, e a volte erano provvisti di tende, dette cortine, per tenere lontano gli insetti o usate come separé. Queste tende, insieme ai supporti, costituivano il baldacchino.

Prima dell'arrivo del DDT molti letti erano infestati da cimici difficili da eliminare. Qualcuno teneva allora sotto i materassi dei pezzi di sughero nei quali le cimici si nascondevano. Ogni giorno questi sugheri venivano tolti e battuti fuori per eliminare gli insetti.

Un antico cavalletto

L’illuminazione prima dell’energia elettrica

Il primo tipo di illuminazione notturna fu quello delle lampade ad olio vegetale o lumi. Era comunque abbastanza oneroso, per cui, con l’avvento del petrolio, si diffuse l’uso delle lampade alimentate con questo combustibile, che, più precisamente, era cherosene.

Piccole lampade votive erano anche le “lampe”: Preventivamente si assottigliava con un coltello un pezzetto di canna; subito dopo lo si forava con un ferro rovente; si riempiva poi mezzo bicchiere d’acqua, aggiungendo per l'altra metà dell'olio; nel passo successivo, una infiorescenza secca (a forma di piccolo imbuto) della Ballota acetabulosa, un arbusto sempreverde che cresce sulle nostre muraglie (pare sia di provenienza greca), si imbeveva di olio e si infilava nel buco prima praticato; infine il tutto si poggiava delicatamente a galleggiare nel bicchiere. Con un fiammifero si accendeva il piccolo stoppino e il gioco era fatto.

Un passo avanti venne fatto con l’introduzione delle lampade a carburo di calcio. Simile ad una caffettiera, era composta da due contenitori: in quello inferiore c’era il carburo di calcio, in quello superiore dell’acqua. L'acqua, scendeva lentamente sul carburo, innescando una reazione chimica che produceva acetilene, gas molto infiammabile; questo, attraverso un tubicino fuoriusciva dalla lampada e veniva acceso con un fiammifero.

In caso di bisogni particolari e in chiesa si usavano le candele (“i cirogini”).

Il bucato

Ad Altavilla, come in altri paesi, un tempo si lavava tutto a mano, con il sapone fatto in casa, ottenuto riscaldando grasso di maiale, olio di oliva rimasto dalla cucina e potassa. Per fare il bucato le donne andavano al fiume portando sulla testa le ceste con i panni da lavare, il sapone fatto in casa, della cenere ben ripulita e della legna da ardere. Appena arrivate si mettevano in ginocchio, bagnavano i panni, li insaponavano, li strofinavano su qualche pietra e li sciacquavano. Poi li insaponavano un'altra volta e li stendevano per bene in una grande cesta, che ricoprivano con una tela. Intanto qualcuna faceva scivolare la cenere nel pentolone, lo riempiva d'acqua e lo metteva sul fuoco. Quando tutto era pronto si versava sulla cesta la miscela, chiamata in dialetto "lissia" (liscivia in italiano), che penetrava così nelle fibre e rimuoveva lo sporco.

Quando il tempo era rigido questa procedura veniva eseguita in casa, procurandosi prima un bel po' di acqua e usando lavatoi di legno. Per il risciacquo però era più conveniente andare ai lavatoi pubblici o ancora al fiume. Alla fine i panni venivano faticosamente strizzati. Per le lenzuola occorrevano due persone: una torceva da una parte e una dall'altra. Al ritorno si stendeva tutto al sole o, se pioveva, su qualche sedia accanto al caminetto o sull’ “asciuttapanni” collocato sul braciere.

Due pezzi di sapone fatto in casa

L’abbigliamento

Per quanto riguarda l’abbigliamento, va sottolineato che non tutti e non sempre avevano le scarpe. Ci si arrangiava spesso con zoccoli di legno o sandali di fibre vegetali o di tessuto. Si faceva molto uso del cappello, specialmente della coppola e del borsalino. Gli abiti erano veramente pochi, cuciti spesso in casa. Le ragazze imparavano a filare, ricamare, cucire e lavorare a maglia. In tutte le case c’erano fusi, telaietti, ferri da maglia a doppia punta per fare calzini, scarpe da notte e guanti, ferri a punta singola, più grossi, per maglioni, scialli e sciarpe.

Un signore con la coppola

Un signore col borsalino

L’attesa di un bimbo

Quando una donna aspettava un bambino non si sottoponeva a nessuna visita specialistica. L'alimentazione era quella di sempre e si credeva alle voglie: la futura mamma doveva mangiare tutti i cibi desiderati per evitare, nel nascituro, la comparsa di una macchia nel punto in cui la mamma si fosse toccata.

Il corredino

Il corredino veniva tutto cucito e ricamato a mano. Si usava la lana di pecora, il cotone e la flanella. Ovviamente non esistevano i pannolini usa e getta e caratteristiche erano le fasce, lunghe due metri e i coprifasce che, secondo quanto si credeva, facevano diventar dritte le gambe.

Il parto

Il parto avveniva in casa e la partoriente veniva assistita dalla mamma, dalla suocera, dalle sorelle e da qualche amica, oltre che dalla “levatrice”, come veniva comunemente chiamata l'ostetrica. Il fiocco al portone non si usava. Se nasceva un maschietto il papà sparava col fucile molti colpi, in numero dispari; se nasceva una femmina pochi colpi, in un numero pari.

L’allattamento

Il neonato veniva allattato al seno e la mamma mangiava brodo di gallina per fare più latte. A volte la mamma non aveva latte a sufficienza e allora davano al neonato latte di asina diluito con acqua oppure lo facevano allattare da un'altra donna (nutrice), che aveva latte a sufficienza per due bambini. Tale donna veniva chiamata "mamma ‘e latte" (mamma di latte).

Il nome

Al bambino, se primogenito, veniva imposto il nome del nonno paterno (se femmina della nonna paterna); agli altri figli veniva dato il nome degli zii paterni secondo la successione.

I primi passi

Se era occupata nelle faccende domestiche la mamma faceva stare il bambino nel "manganieddru" (girello di legno), che nemmeno tutti possedevano. Se invece lavorava nei campi lo deponeva in una "sporta", (cesta) ricoperta di panni.

A volte, per non portarlo dietro, gli si dava “’a papagna”, un infuso di papaversomniferum, un oppiaceo che induceva il sonno.

“U San Giuvanni”

Fino a qualche tempo fa si faceva “u San Giuvanni”. Si trattava di una vera e propria manifestazione di affetto, di un intimo legame fra amici che veniva sancito con una formula rituale e un pupazzo di pezza che passava da l’uno all’altro. Il tutto terminava in un banchetto. Era usanza, il 24 giugno, giorno di San Giovanni, inviare a casa del futuro compare o della futura comare, alla sua insaputa, anche un mazzetto di fiori con un bigliettino sul quale era scritto: “su mazzettu a ttie te mannu, simu cumpari ppè tuttu l’annu”.

L’uccisione del maiale

L’uccisione del maiale era un vero e proprio evento. Le famiglie si aiutavano a vicenda e, in questo modo, si consolidavano i rapporti sociali, si diventava veramente amici.

Molto tempo fa si allevavano maiali neri, che avevano una carne molto più saporita di quelli attuali. Si comprava prima “u passaturu”, il maialino da allevare e lo si chiudeva nella “zimma”, cioè nel porcile, ove iniziava a mangiare “vrodata”o “viverune”, cioè una brodaglia composta dagli avanzi dei piatti lavati con l’aggiunta di “caniglia”, ossia di crusca; tale mistura era versata in una mangiatoia detta “scifu”. Al maiale veniva dato comunque un po’ di tutto, ma in modo particolare ghiande e castagne che avevano iniziato a marcire.

Dopo qualche tempo gli animali venivano castrati dal “grastature”, per produrre carni migliori. Nei mesi più freddi si decideva il giorno del sacrificio. Si chiamavano gli amici e i parenti più stretti che volentieri prestavano il loro aiuto. Di buon mattino il maiale veniva fatto uscire dal porcile e condotto anche a spintoni verso il luogo prestabilito, mentre le donne mettevano a bollire un pentolone d’acqua. L’animale veniva quindi legato e steso sopra un grande tavolo, dopodiché con un coltello apposito veniva sgozzato. Subito una donna si preparava a raccoglierne il sangue, con il quale, attraverso l’aggiunta di altri ingredienti, quali zucchero, cioccolato, noci o altro, si preparava “u sangiere”, cioè il sanguinaccio, da spalmare poi sul pane, magari a colazione o a merenda. Si passava quindi, aiutandosi con l’acqua calda, a togliere i peli dalla pelle del maiale, il quale, dopo essere stato appeso per le zampe “aru gammieddu”- un attrezzo di legno a forma di boomerang - veniva diviso a metà dopo aver tolto la testa e le interiora. Dalla testa veniva ricavato “u gujulu”, cioè il guanciale, mentre le interiora si lavavano e si usavano per i vari tipi di insaccato: soppressata, salsiccia di carne, salsiccia di fegato, "vecchia" e capocollo, ciascuno ricavato con le carni delle varie parti del maiale. Dal grasso del dorso veniva ricavato anche il lardo, da quello della pancia la pancetta. I prosciutti, pepati e aromatizzati, venivano messi sotto sale nella “majdda” (madia), un grande contenitore di legno. Tutto ciò si iniziava a fare anche il giorno dopo, perché il primo giorno si dovevano pur mangiare i maccheroni col sugo di carne di maiale e assaggiare la stessa carne col sugo e in bianco, insieme alle “frittule” (frittole), ottenute facendo bollire nella “quadara”, un pentolone di rame stagnato, il grasso, le cotiche, gli ossi, il muso, le orecchie e tutti gli altri residui della lavorazione. Non si buttava praticamente niente. Con le frittole che rimanevano si preparava, aggiungendo aceto, la gelatina (“u suzu”) e con quello che rimaneva proprio nel fondo della “quadara”, i ciccioli detti “scarafuogli”. Questi due ultimi prodotti venivano conservati in vasetti ricoperti di grasso, per non venire a contatto con l’aria e avariarsi. Col grasso avanzato, unendo potassa, si faceva il sapone.

La medicina casalinga

Non tutti avevano i disinfettanti in casa. Le piccole ferite venivano lavate e fasciate con un pezzetto di stoffa. Su quelle sanguinanti si metteva, come antiemorragico, la polverina che si formava nelle travi di legno, usata anche contro gli arrossamenti. Se c'era pus allora si spalmava un composto di pane masticato con zucchero. I vermi dell'intestino venivano calmati con aglio spalmato sulle mani e menta, da odorare.

Sulle ustioni alcuni mettevano una mezza patata, una mezza cipolla o albume di uovo sbattuto, altri poche gocce di urina. La cipolla ammaccata veniva data anche alle galline quando stavano male.

In casa si preparavano infusi, impacchi e decotti con miele d’api da bere ben caldi o da usare per gargarismi, per curare patologie non gravi come gonfiori, dolori, raffreddore, tosse, mal di gola, digestione difficile… Per i denti era comune tenere in bocca foglie di lattuga cotte; per le otiti si usava introdurre negli orecchi olio caldo.

Con il progresso vi è stato un allontanamento dalla campagna e le piante medicinali per un certo periodo sono state trascurate, preferendo medicine in apparenza più efficaci e veloci. Oggi, invece, attraverso la fitoterapia, si ritorna ad usarle.

Quando qualcuno non si sentiva bene e non si capiva da cosa derivasse il malessere, si pensava fosse "affascinatu" (preso dal malocchio), allora si portava da qualcuno che lo "spascinava", ripetendo sottovoce una formula tramandata da una persona fidata la notte di Natale. Il tutto poteva avvenire anche in assenza del “paziente”, in quanto bastava portare un oggetto col quale fosse venuto a contatto. Quando questi iniziava a sbadigliare il problema veniva risolto. Erano sottoposti a questa procedura anche gli animali.

Fino al secolo scorso la mortalità era elevata, a causa di:

- cattive condizioni igieniche (nelle case non c'era il bagno e in una stanza vivevano anche più di dieci persone);

- alimentazione insufficiente o squilibrata;

- mancanza di un'adeguata assistenza medica;

- carenza di vaccini e medicinali, specialmente antibiotici.

Alcuni tentativi di cura erano veramente curiosi: per gli orecchioni, ad esempio, si faceva sulla parte gonfia "u signu e salamune" (il segno di Salomone), che consisteva nel fare il segno della stella a sei punte di origine ebraica col pollice bagnato nell'olio.

I giochi e i giocattoli

Una volta i bambini non potevano giocare molte ore al giorno, perché i genitori li portavano con loro a lavorare nei campi o li lasciavano in casa, specialmente le femminucce, a dare una mano nelle faccende domestiche. I giocattoli erano pochi, ma erano frutto della fantasia e bastavano a far divertire ugualmente.

Quelli maggiormente diffusi erano:

- “a fruscia”: consisteva in un bastoncino appuntito alle due estremità (fruscia) che veniva colpito in terra e in aria da un paletto più lungo per farlo andare il più lontano possibile;

- “u piruozzulu” o “u strummulu": una trottola di legno fatta in casa che veniva avvolta in uno spago e lanciata.

- “u piripirìddu”: piccola trottola di legno che veniva fatta roteare con due dita.

- “‘e pupe”: bambole di pezza;

- “‘e stacce”: delle pietre piatte con le quali si giocava come alle bocce.

- “u ruoddu”: antico gioco di grande abilità consistente nel far roteare un cerchio con un manubrio di ferro opportunamente ripiegato.

- le carte napoletane, che usavano nelle cantine anche i grandi per giocare a scopa, briscola, tressette, stop e “patrune”. Quest’ultimo gioco consisteva nel mettere in palio vino o birra. Chi possedeva il punto più alto stabilito decideva chi poteva bere e chi no. Chi non beveva era “lassàtu all’ùmbra”. Una variante del gioco veniva detta “patrune e sutta”, in cui era sutta (sotto) chi aveva il secondo punteggio e poteva essere d’accordo o meno con le decisioni del padrone;

- la dama, spesso autocostruita.

Molto successo, a partire dagli anni '60, ebbero le figurine dei calciatori della Panini.

Negli anni ’70 ebbero molto successo il gioco del 15 e le palline click-clack, chiamate così perché facevano un rumore fortissimo, che assomigliava, appunto, a queste due parole. Erano di una plastica durissima. Avevano un foro centrale, attraverso il quale passava una cordicella collegata ad un anello, che funzionava come una maniglia e che serviva per agitare e far sbattere le palline. I più bravi riuscivano a farle sbattere sopra e sotto la mano, ma, quando si sbagliava, andavano a sbattere al polso o in testa a qualcuno, così, si poteva pure finire in ospedale. Spesso il gran fracasso impediva alle persone di riposare. Un giorno, perciò, furono proibite e non vennero più fabbricate.

Giochi da bar molto famosi divennero il flipper e il biliardino.

Si praticavano molto anche altri giochi, alcuni praticati dai bimbi ancora oggi, ma in genere quasi completamente spariti.

“‘A carraredda” era uno dei vari giochi praticati con le noccioline, simile alle bocce, solo che, al posto di lanciarle, si faceva uso di un piano inclinato per farle rotolare. Il bello era che chi vinceva il turno aveva diritto a prendere le noccioline giocate.

Nel gioco delle “nucidde” si mettevano tre noccioline a terra e una sopra. Con il “carrummulu”, cioè con una nocciolina più grossa, si tirava per far crollare le piccole piramidi e prendersi anche in questo caso la posta in gioco.

Nel battimuro, seguendo regole simili, si facevano rimbalzare delle monetine al muro.

Nelle “petruzze” si lanciava un sassolino in aria e si tentava di raccoglierne sul piano di gioco, con la stessa mano, degli altri, per poi riprendere quello lanciato prima che toccasse terra.

La campana o settimana si giocava disegnando per terra un rettangolo con sei riquadri, confinanti con un semicerchio, il cosiddetto “riposo”, in cui si poteva cioè fare una pausa. Poi si lanciava un sassolino nel primo dei riquadri, senza farlo uscire dalle linee, e lo si andava a prendere saltando su un piede solo, per poi ritornare al punto di partenza senza mai pestare le linee. Dopo averlo lanciato in ognuno di questi riquadri venivano in successione le fasi del “piedino” e della “manina”, durante le quali il sassolino era appunto poggiato prima su un piede e poi sul dorso di una mano, saltando in questo caso di nuovo con un solo piede. Infine c’era il "sarà", che consisteva nell’andare nelle caselle ad occhi chiusi. Finito tutto questo senza errori, il giocatore segnava come suo uno dei riquadri: era la "casa", di cui poteva disporre a piacimento, facendo passare o meno gli avversari, aumentando, in questo caso, le difficoltà del percorso. Se si sbagliava, era il turno di un altro concorrente; si riprendeva poi il proprio gioco iniziando dalla fase nella quale si era sbagliato. Era un passatempo bello, non pericoloso, che consentiva anche di sviluppare la coordinazione motoria.

Un gioco molto popolare, che si svolgeva durante le feste, era “‘a ntinna”, consistente nell’arrampicarsi lungo un tronco liscio, reso scivoloso dal grasso, e in cima al quale erano appesi dei premi.

Altro gioco popolare era quello delle "pignate": a una corda fissata in alto tra due sostegni venivano appese pignatte di terracotta, al cui interno c'erano acqua, cenere,farina o un biglietto con l'indicazione di un premio. I concorrenti bendati, dopo aver fatto qualche giro su se stessi, dovevano cercare di romperle con un bastone.

Gioco molto divertente era quello della "pastasciutta", in cui vinceva il concorrente che era più veloce a mangiare il piatto servito senza far uso delle mani.

La "cursa di sacchi" era un gioco altrettanto famoso e conosciuto anche oggi.

“U bbottarulu” era un cannoncino a stantuffo realizzato con legno di sambuco incavato.

Lo “scupidù” consisteva invece nell’intrecciare due lacci, a volte anche di scarpe, ottenendone un cordoncino da usare come portachiavi o altro.

Più recente fu il gioco chiamato “campu”: era a squadre e si svolgeva su un campo rettangolare diviso a metà. Sulle linee di fondo si schieravano i giocatori delle squadre, che designavano ognuna un compagno, il quale doveva andare al centro del campo a battere tre volte sulla mano dell’avversario oppure ad acchiapparlo, in base alla conta. Dopo la terza battuta questi scappava verso la sua metà campo, mentre i compagni potevano difenderlo partendo dalla linea di fondo ed andando a loro volta ad acchiappare l’avversario. Di una squadra poteva però stare in campo un solo giocatore. L’ultimo che toccava la propria linea era quello che poteva “acchiappare”. Se qualcuno veniva fatto prigioniero era portato in una piccola area ed il gioco si interrompeva. Si riprendeva il tutto con una nuova battuta, questa volta da un segno vicino alla linea dell’avversario. Il prigioniero poteva essere liberato da un compagno attraverso un semplice tocco. Lo scopo finale del gioco era comunque quello di schivare tutti gli avversari e superare la loro linea di fondo. Quando ciò accadeva la partita era finita.

Tradizioni natalizie e pasquali

Un’antica tradizione, che ancora si conserva, erano "i cucchjddi". Il 5 dicembre (vigilia di San Nicola) i bambini, a gruppi, giravano casa per casa per avere "u cucchjddru" (pane di San Nicola) cantando “E cucchiddi cucchiddi cucchiò, la parte mia la vuögliu mo’, e si u mi la voliti dare Santu Nicola ve vo aiutare…” Questa tradizione si rifaceva a San Nicola, vescovo di Mira, in Turchia, che amava i bambini e che divenne patrono della città di Bari. In suo onore le famiglie preparavano dei panini infornati in coppia (detti appunto cucchiddi), che venivano offerti ai bambini che bussavano alle porte. Santa Claus non è altro che San Nicola, che nei paesi nordici diventò Santa Claus e, quindi, Babbo Natale.

La vigilia dell'Immacolata c'era l'usanza (e in molte famiglie c'è ancora) di friggere i "cuddurueddi", ciambelle con una miscela equilibrata di farina e patate, tradizione che proviene dagli antichi Romani.

Dal 13 al 24 dicembre c'era anche la tradizione dei "juorni cuntati", secondo cui ogni giorno di questo periodo corrispondeva alle caratteristiche meteorologiche dei mesi del futuro anno.

In tutto il periodo di attesa si preparavano anche dolci come i "turdiddi", e "scalidde", e "chinulidde" , i "mustazzuòli" e re "pitte mpigliate".

La sera della vigilia di Natale era tradizione consumare tredici pietanze, fra le quali erano d'obbligo la pasta con le sarde, il baccalà fritto e in umido, le carote rosse cotte e preparate ad insalata, i cavolfiori, broccoli neri, frittelle e il pane natalise, con incisa una croce. Nel caminetto intanto si metteva un grosso ceppo, "u muzzune". Dopo la messa di mezzanotte tutti si riunivano attorno ad un grande falò, preparato in piazza dai più giovani. Alcune persone anziane rivelavano a qualche nipote la formula dell' "affascinu".

In tutto il periodo natalizio si cantava "a strina", una stornellata che si faceva spesso a notte fonda agli amici, i quali aprivano la porta e dovevano dar da mangiare e bere a sazietà agli "artisti", che si accompagnavano con qualche strumento improvvisato, come ad esempio un mortaio, ma anche con veri e propri strumenti musicali. Visitate questo link.

Nel periodo pasquale i dolci preparati erano "cuculi", "ncinetti", "pastiere".

Il venerdì santo, invece, bambini e ragazzi giravano per il paese per annunciare le funzioni, suonando le "tòccare", molto somiglianti alcune alle nacchere, ma con una tavoletta centrale munita di manico, altre di diversa fattura.

Una "tòccara" a martelletto

"U ddirroccu"

“U ddirròccu”, gigantesco pupazzo di carta e vimini, caricatura di personaggi reali, come signorotti e governati, o rappresentazione di figure irreali, come mostri o altro, fu una tradizione importata da San Pietro in Guarano, dove la sera della festa di San Rocco, il 16 agosto, la popolazione aspetta ancora oggi con ansia la sua uscita, che è accompagnata da un’allegra musichetta, scritta da un anonimo musicista sampietrese. “U dirroccu” balla al ritmo dei tamburi, fa piroette e inchini, rincorre qualcuno. La folla si accalca. Alla fine viene bruciato. Secondo alcuni questo rito è nato intorno alla fine dell’800. In quel tempo viveva un signorotto locale di nome don Rocco, odiato dalla gente; la costruzione del pupazzo aveva probabilmente lo scopo di irriderlo e la sua distruzione esprimeva il desiderio di liberarsene. La coincidenza con la festa di San Rocco (16 agosto), protettore degli appestati, indica forse anche il desiderio di liberarsi da malattie terribili, come il colera, che in quegli anni colpì la Calabria. Sicuramente oggi “U ddirroccu” consente di vivere momenti di divertimento e di svago, ma in passato avrebbe potuto rappresentare anche il “Saraceno” sconfitto. Sessanta o settanta anni fa qualcuno ancora canticchiava: “Allerta, allerta! E campane sonanu. I Turchi sù calati ara marina! Chin’ani e scarpe rutte si le sola, ch’àdde passà calavruni e spine”. In diverse parti del mondo si osservano riti molto simili. La costruzione del pupazzo non è difficile, ma solo un artista può raggiungere una certa perfezione nelle forme. Una volta i materiali usati erano carta, canne, legacci, colla di farina. Ai giorni nostri si usano anche fil di ferro, nastro adesivo, bombolette spray. Anche ad Altavilla si ricordano diverse feste con serate allietate da questi strani pupazzi.

"Ddirroccu" costruito da Aldo Passarelli

L'agricoltura, l'allevamento ed altre attività quotidiane

Tutti o quasi erano praticamente contadini e allevatori. Il terreno scosceso non consentiva l'uso dei buoi, per cui tutti avevano un buon repertorio di zappe. Il mezzo di trasporto più diffuso era l'asino, ma in gran parte gli uomini trasportavano le merci sulle spalle e le donne sulla testa, aiutandosi con un pezzo di stoffa attorcigliato. Tutti andavano ogni giorno "ara rrobba" , cioè in campagna, dove lavoravano magari secondo le regole della mezzadria, oppure si dedicavano all'orto.

Molti andavano “ara manca”, cioè al castagneto; ad Altavilla oggi c'è ancora qualcuno che raccoglie olive, ma nessuno più raccoglie castagne, nonostante sia circondata da boschi di questo magnifico albero, usato purtroppo solo per ricavarne legna da ardere. Un tempo, invece, file di raccoglitori salivano e scendevano lungo la mulattiera che porta sul colle dell'Imbarda. Per capire e per addentrarsi in quei tempi andati vi invito a leggere queste poesie.

C’era anche chi andava a “pisare”, cioè a battere il grano sull’aia per farne uscire i chicchi e separarli dalla paglia e dalle glume. Altra attività era quella di “mpaiare”, cioè di imbardare un animale da tiro in modo che potesse iniziare a trascinare sull’aia una grossa pietra per trebbiare.

Aia di qualche secolo fa sul colle dell'Imbarda

Molto diffusa era la coltivazione del gelso, perché in diverse case si allevava il baco da seta ("u siricu"). A fine '800 gli ulivi presero il posto dei gelsi, perché le tasse eccessive e la concorrenza dei prodotti del nord Italia non resero più conveniente tale tipo di coltivazione.

Tutti allevavano uno o più maiali, da cui un tempo traevano sostentamento le varie famiglie e c’era chi si recava a raccogliere ghiande per loro. Si pascolavano pecore e capre; una volta lo facevano tutti i ragazzi… e questi animali, a volte, stavano in casa. Si racconta che un giorno una capra, veduta la sua immagine riflessa nello specchio di un armadio, si scagliò con le corna verso lo specchio, frantumandolo!

Si mieteva con la falce, “u runcigliu”, una falce con il manico ricurvo, e “u faciune”, una falce molto grande che si usava con due mani.

"U faciune"

E c’era chi faceva “mattuli, cioè arrotolava erba per farne fieno.

Antico fienile con i "mattuli" secchi di qualche decennio fa...

Erano le donne che poi, abbastanza spesso, andavano a “fare frasche” e “sàrcine”, fascine di legnetti per far partire il fuoco dei caminetti.

Gli uomini invece partivano per far “lume”, cioè scaglie resinose di legno di pino per accendere il fuoco, ormai sostituite da tavolette di paraffina. Era anche comune impagliare sedie o fare da soli panieri e ceste di vimini.

Secondo la tradizione, con la luna calante si poteva potare, vendemmiare, travasare il vino, tagliare la legna da costruzione e concimare; con la luna crescente si poteva invece seminare, trapiantare e innestare.

L'acqua veniva presa alle fontane, riempiendo orciuoli. “U zzulu” era un orciuolo di argilla rossa, mentre “ ‘a ciriglia” era un orciuolo di argilla bianca. Questo tipo di argilla, detta “‘a mavuta”, veniva anche usata per fare i personaggi del presepe.

La fontana "u scifu" che dissetava i raccoglitori di castagne...

La "quasi" industria della seta

L'allevamento dei bachi da seta fu introdotto in Italia dai Saraceni, all'epoca della conquista della Sicilia. Presto si diffuse in tutto il meridione e specialmente in Calabria. Si diffuse poi in tutto il mondo occidentale.

I bachi venivano allevati anche in casa. In primavera le uova venivano messe in un sacchetto al caldo o nel seno delle donne o vicino al fuoco. Appena nati i bachi venivano messi in crivelli o setacci. Diventati adulti si portavano in soffitta e nutriti con le foglie tagliuzzate del moro nero e del gelso bianco. Quando le larve diventavano lucidissime con la testina nera e incominciavano a salire sulle pareti, era segno che erano pronte per fare il baco. Allora si preparava una specie di nido fatto con erica in modo che le larve potessero salirci e incominciare, con la bava di colore rosa-grigio, a fare un cerchio prima più grande e poi sempre più piccolo da rimanerci chiuse dentro. Cominciava così il tempo della raccolta. I bozzoli più duri venivano venduti, mentre quelli più morbidi venivano bolliti, puliti dall'erica e dal verme morto, dipanati e filati al fuso.

Circa duecento anni fa a San Pietro in Guarano si formò un'azienda che produceva la seta: la filanda, appartenente alla famiglia dei Collice. In essa lavoravano quasi solo donne e fanciulle, con turni di dodici ore e con un salario molto basso. Spesso si ammalavano, perché erano costrette a stare in un ambiente maleodorante e umido, a causa del vapore proveniente dalle bacinelle riscaldate col fuoco e che servivano per la trattura della seta .Il prodotto veniva venduto a dei commercianti che lo portavano nella zona di Napoli dove c'erano le industrie tessili. Pare che in Calabria fosse proibita la tessitura della seta in grosse quantità, così la filanda di San Pietro e le filande di altri paesi furono costrette ad arrangiarsi, utilizzando antichi metodi di lavoro che non favorirono lo sviluppo delle imprese. Nella filanda di San Pietro in Guarano, infatti, venivano eseguite solo le prime fasi della lavorazione. Non fu mai introdotta nessuna forma di meccanizzazione. Accadde così che dopo l'unità d'Italia, a causa anche di una malattia che colpì i bachi, la filanda non fu più in grado di stare al passo coi tempi e dovette chiudere.

Il fidanzamento e il matrimonio

Matrimonio anni '40

I ragazzi e le ragazze si fidanzavano molto presto. La dichiarazione d'amore ("a'mmasciata") veniva fatta da un'amica o da un parente, perché le ragazze non uscivano di casa se non in rare occasioni: quando andavano a prendere l'acqua o quando andavano in chiesa. Se i genitori erano d'accordo si potevano fidanzare. Il ragazzo allora andava a casa della ragazza coi genitori e le portava qualche dono. I fidanzati non si potevano sedere vicino, potevano uscire solo in occasione di qualche festa e mai da soli. Allora le ragazze più ricche portavano la dote (denaro, terreni ecc…), quelle più povere, a volte, avevano difficoltà a trovare un ragazzo.

Per arredare la casa la donna portava il corredo, tutto ricamato a mano, le pentole di alluminio e di rame, i piatti, i bicchieri, le posate e qualche mobile. L'uomo, quando possibile, la casa, qualche arnese da lavoro e qualche animale.

Il matrimonio di solito si celebrava di mattina. Il pranzo nuziale si faceva a casa dello sposo. Nel menu erano d'obbligo "i ziti", una pasta a forma di tubo, lo spezzatino e la carne di capra o di pecora. Ovviamente c'era tanto vino e, a fine pasto, i lupini. Gli sposi dovevano stare per sette giorni in casa, durante i quali ricevevano visite. L'ottavo giorno c'era "l'esciuta", cioè la prima uscita come marito e moglie, di solito per recarsi a messa.

La terza età - "'E rumanze"

A quei tempi non c'erano le pensioni e per vivere le persone anziane contavano sull'aiuto dei figli, per i quali era un onore, anche se le famiglie erano molto numerose. I nonni erano tenuti in grande considerazione. Per i bambini erano una fonte inesauribile di “rumanze”, cioè di favole che essi, di solito, raccontavano vicino al caminetto, nelle lunghe sere invernali e che avevano appreso oralmente dai loro antenati, visto che era raro che qualcuno di loro sapesse scrivere.

Alcune di queste favole affondano addirittura nella mitologia greca, altre derivano dall'esperienza e dalla saggezza popolare. Una raccolta completa delle stesse potete trovarla nel meraviglioso libro di Saverio Strati dal titolo Miti, racconti e leggende di Calabria (Gangemi Editore).

Una favola che veniva spesso raccontata era "La camicia della felicità" o "... dell'uomo felice", di origini antichissime, ripresa in varie versioni da diversi autori quali Lev Tolstoj e Italo Calvino.

A me questa favola è stata raccontata così: C'era una volta un re che aveva un figlio ammalato di depressione; convocò allora, per le visite mediche, i più noti dottori di quei tempi; ma a nulla giovò.

Egli era nella più grande disperazione, ma un giorno si trovò a passare un uomo questuante, al quale il capo degli inservienti aveva negato ogni accoglienza; chiestene le ragioni gli fu detto che il re era molto addolorato per la malattia del figlio. Animato di spirito, il questuante insistette affinché fosse condotto dal paziente, in quanto sapeva come guarirlo; il re allora decise di riceverlo e acconsentì a farglielo vedere.

L'ammalato gli spiegò che era molto infelice. Congedatosi da lui e trovatosi davanti al re disse che il figlio aveva bisogno solo della "camicia della felicità" e che per trovarla bisognava andare in giro per il mondo. Allora il re ordinò al capo degli inservienti di organizzare una spedizione con muli e cavalli carichi di ogni bene e con a capo il figlio.

Dopo aver girovagato per diverse miglia, giunsero su una montagna, dove viveva un pastorello col suo gregge che suonava allegramente un piccolo piffero. In presenza del principe, il capo degli inservienti gli chiese:

-"Tu sei felice?"

Questi gli rispose:

- "Più felice di me non c'è nemmeno il figlio del re!"

- "Giacchè tu sei felice - continuò l'altro - il re ti farà padrone di quanto tu vedi in cambio della tua camicia".

Ma il piccolo pastore, sorpreso, chiese:

- "Che cos'è questa camicia? Io ho solo questa pelle di pecora..."

Sentite queste parole il principe capì che non era la camicia, nè i beni materiali a fare la felicità e, rassegnatosi, guarì.

Il lutto

Quando moriva qualcuno i parenti stretti portavano il lutto. Le donne vestivano di nero anche per diversi anni, usando quasi sempre anche un foulard. Gli uomini oltre alla cravatta nera, mettevano fasce dello stesso colore intorno alla manica della giacca o sul risvolto intorno al cappello e per un mese si facevano crescere la barba. Col tempo poi si diffuse l'uso di attaccare al petto un bottone rivestito di stoffa nera e nera ancora era la striscia che veniva posta sulla porta o in prossimità di essa.

“A magaria”

Si trattava di una fattura magica, fatta dalla “magara”, praticamente da una strega, che poteva essere tolta solo da un’altra magara. I più lo facevano per fare innamorare di sé un’altra persona. Si mettevano capelli nei materassi e altro…

Cose scomparse

    • I cappelli (non li porta più nessuno!)

    • le vecchie lire;

    • le lampade ad olio, quelle a petrolio e quelle a carburo;

    • il ferro da stiro che si riscaldava sul fuoco;

    • il ferro da stiro a carboni;

    • il carillon;

    • il fuso per filare la lana;

    • i ferri per le maglie;

    • i grammofoni e i giradischi con i dischi di vinile;

    • le pignatte per cuocere al fuoco i fagioli;

    • i rasoi con le lamette;

    • gli orologi e le sveglie con la carica a molla;

    • i carri e le carriole di legno;

    • la pompa per spruzzare il DDT;

    • le stufe a cherosene;

    • i giocattoli di legno;

    • le radio di legno e di bachelite;

    • le macchine fotografiche con i rullini;

    • le macchine istantanee Polaroid;

    • le cineprese;

    • i proiettori di diapositive;

    • gli stereo otto;

    • le audiocassette;

    • le videocassette;

    • i videoregistratori;

    • i televisori in bianco e nero;

    • i televisori col cinescopio;

    • i proiettori di diapositive;

    • i giradischi e i mangiadischi con i dischi neri di vinile;

    • il jukebox;

    • i telefoni pubblici, le relative schede telefoniche e i gettoni telefonici;

    • le macchine da scrivere;

    • la carta carbone;

    • le stampanti ad aghi;

    • i wolkmann e i lettori CD portatili;

    • il trapano a mano;

    • le bilance con i pesi;

    • le calcolatrici a manovella;

    • le macchine da cucire a pedale;

    • i teledrin cercapersone;

    • tanto altro ancora.

Relativamente a tutti questi oggetti, non più presenti nelle nostre case, ho in mente di realizzare un museo virtuale della tecnologia domestica. Già alcuni amici, appassionati come me di questi oggetti da collezione, si sono offerti di aiutarmi, ma mi ci vorrà, penso, la prossima estate.