Nel primo capitolo si narrano le vicende di Don Abbondio, un curato di un paesino che sorge sul ramo del lago di Como. In una delle sue passeggiate serali, questo incontra due "bravi". Li riconosce subito dall'abbigliamento: con dei baffi arricciati sul volto, indossavano un cappello con una piuma sulla punta e il pugnale in tasca, il quale era indispensabile per loro, insieme alla pistola. Don Abbondio è molto spaventato, così prova ad evitarli, facendo finta di leggere il breviario, il libro delle preghiere, ma senza alcun successo, purtroppo. I bravi lo minacciano, dicendo: "il matrimonio non s'ha da fare, né ora né mai". Il prete va a casa con l'anima turbata, molto spaventato, e la notte non riesce a dormire perché pensa continuamente alla loro minaccia. La domestica, Perpetua, se ne accorge e gli chiede i motivi di quell'atteggiamento. Lui non vuole rivelare niente, ma lei riesce a convincerlo a parlare. Sentendo cosa è successo, gli consiglia di scrivere una lettera al suo superiore, il cardinale Federigo Borromeo. Don Abbondio è un personaggio dal carattere opposto ad un cuor di leone, infatti viene descritto, nel primo capitolo, come un vaso di terracotta in mezzo a dei vasi di ferro. Inoltre, fin da bambino è un leone senza artigli e senza zanne. Cerca di farsi aiutare dalle forze della legge, ma nel '600, invece di essere scritte, diluviano nel cielo. Le chiamano "le grida": leggi fatte di proposito per tutti i cittadini e i capi di stati le urlano, perchè la maggior parte del popolo non sa leggere e scrivere.
Nel secondo capitolo, Don Abbondio non riesce a dormire perché sta pensando una scusa da dire a Renzo per impedire di celebrare il matrimonio. Il mattino dopo Renzo, dopo essere arrivato a casa del curato, rimane sorpreso dall'atteggiamento scontroso del curato. Il parroco, però, gli disse di non poter celebrare perché non si sente bene. Successivamente aggiunge che mancavano ancora dei documenti e per confondere il giovane inizia a parlare in latino. Don Abbondio cerca di convincere Renzo ad avere pazienza ancora per quindici giorni. Renzo, arrabbiato e infastidito, si dirige verso la porta salutandolo. Appena varcata la soglia della porta vide Perpetua entrare nell'orto e la raggiunse sperando di ottenere maggiori informazioni. Perpetua difende Don Abbondio e incolpa uomini prepotenti. A quel punto Renzo fece finta di allontanarsi ma invece rientrò nella casa infuriato. Il giovane domandò in modo minaccioso chi fosse il prepotente che vuole impedire il matrimonio. Don Abbondio, a quelle parole, rivela che è Don Rodrigo. Il giovane allora decide di andare a casa della sua amata Lucia, pensando come potersi vendicare. Dopo essere arrivato a destinazione e dopo averla vista, si pente di quei pensieri omicidi che aveva fatto contro don Rodrigo. Successivamente Renzo comunica a Lucia che il matrimonio è posticipato nominando in nome di Don Rodrigo. A quelle parole, Lucia, divenne molto triste e andò subito ad avvertire le donne che il matrimonio si sarebbe celebrato un altro giorno. Tutte le donne che avevano aiutato Lucia a prepararsi si disperano per il loro lavoro inutile. Alcune donne invece non erano convinte della motivazione ricevuta e quindi andarono alla casa del curato.
Il capitolo inizia con Lucia che racconta degli incontri con Don Rodrigo ai due nella stanza. Dopo aver preso coscienza della situazione, Agnese propone a Renzo di andare a Lecco per incontrare l’azzecca-garbugli, pensando che fosse una persona disposta ad aiutarli. Così Renzo decide di ascoltare Agnese, e, intimorito, inizia ad andare verso lo studio legale. Arrivato al luogo prestabilito, dà tre capponi alla cameriera che lo accoglie, dopo essere entrato nella stanza in cui lo aspetta l’avvocato.
Manzoni fa notare al lettore il disordine e le assidue pile di libri. Il proprietario dello studio scambia il giovane uomo per un bravo e si complimenta con lui per l’astuta mossa di aver tagliato il ciuffo, per poi iniziare a leggere le grida giuste sulla situazione del “bravo”, ma andando avanti con la lettura inizia confondere Renzo per le troppe parole avvocatesche. ad un certo punto quest’ultimo gli fa il nome di Don Rodrigo, cosa che fa infuriare l’avvocato, che caccia Renzo perché non voleva mettersi contro i potenti. Nel frattempo, dalle due donne arriva fra Galdino per elemosinare delle noci per il convento, e visto l'obiettivo di chiedere aiuto anche a fra Cristoforo chiedono al frate, con una discreta donazione di noci, di far venire subito fra Cristoforo alla loro casa. Vediamo poi Renzo ritornare in quella casa lamentandosi che Agnese aveva detto che l’avvocato poteva aiutarli.
.Il capitolo comincia con fra Cristoforo che si reca a casa di Agnese e Lucia. Manzoni narra il passato di colui che, nella narrazione presente, è conosciuto con il nome di fra Cristoforo: il suo nome di battesimo era Lodovico. Veniva da una famiglia di ricchi mercanti e frequentava membri della nobiltà, ma non si era pienamente integrato nel suddetto gruppo. Un giorno, Lodovico stava passeggiando, quando incontrò un nobiluomo. In seguito ad uno sciocco diverbio, l'arrogante sconosciuto lo sfidò a duello. Lo sconosciuto trafigge il suo servo, e Lodovico vinse la sfida, uccidendo l'avversario per rabbia e vendetta. Le persone del popolo erano contente che qualcuno li aveva liberati dal nobile prepotente, ma Lodovico si pentì delle proprie azioni. Alcuni passanti gli consigliarono di rifugiarsi tra i frati cappuccini, cosa che lui fece. Dopo essere stato per un po' di tempo in compagnia dei frati, il giovane decise di prendere i voti e diventò "Frate Cristoforo". Lodovico venne sistemato in un convento del suo ordine per evitare la morte. Insieme alla scelta di prendere i voti, scelse anche di donare il suo patrimonio alla famiglia del suo fidato servo. Fra Cristoforo, inoltre, volle incontrare i familiari del nobile che aveva ucciso. Durante un banchetto, chiese perdono per le sue azioni e venne perdonato.
Padre Cristoforo, appena arrivato alla casa di Lucia, capisce che qualcosa di grave è successo: lo conferma la reazione di Agnese.
Sdegnato dal racconto, ragione su diverse ipotesi: mettere paura a Don Rodrigo, informare l'arcivescovo o chiamare in aiuto i suoi confratelli di Milano.
Infine decide di affrontare egli stesso Don Rodrigo per tentare di farlo ragionare dai suoi propositi con le preghiere.
Nel frattempo Renzo è arrivato e, informato dell'accaduto, esprime il suo desiderio di vendetta.
Padre Cristoforo lo tranquillizza e convince i due sposi ad avere fiducia in Dio e lasciarsi guidare da lui.
Il frate si reca poi in convento per recitare una preghiera e subito si mette in cammino verso il palazzotto di Don Rodrigo.
Padre Cristoforo, accompagnato da un vecchio servitore nella sala da pranzo, dove siedono gli altri presenti: oltre al padrone di casa, sono presenti suo cugino Attilio, il podestà del paese, l'Azzecca-garbugli e altri due invitati.
Stanno discutendo su una questione di cavalleria, un ambasciatore bastonato. La questione vede scontrarsi il conte Attilio, che pensa che l'unica legge sia la forza, e il podestà, che segue le leggi.
Incoraggiato ad esprimere il suo parere sulla questione, il frate con la tipica ironia manzoniana sostiene che sarebbe meglio se certi episodi non accadessero affatto.
Don Rodrigo interrompe la questione e ne inizia un'altra sulla situazione politica. È infatti in corso una guerra per la successione del ducato di Mantova, di cui si è impadronito il duca di Nevers, aiutato dai francesi e osteggiato dagli spagnoli.
Anche in questa discussione il Conte Attilio e il podestà non si trovano d'accordo: quando il primo si zittisce, il secondo riesce a sfoggiare la sua rozza arroganza.
Ancora una volta Rodrigo interviene per calmare gli animi, proponendo un brindisi per il duca d'Olivares, a cui partecipa di malavoglia anche fra Cristoforo.
Poi, l'Azzecca-garbugli introduce l'ultimo argomento della cena: la carestia.
A quel punto, i presenti intervengono, mescolando pareri sulla situazione sociale e lodi al vino, in modo così confuso da non capire niente.
Alla fine, Rodrigo si accorge che padre Cristoforo attende in silenzio di parlargli e, capendo che non può evitare quella seccatura, si alza da tavola e conduce il frate in un'altra stanza.
Fra Cristoforo viene convocato in privato da Don Rodrigo, e chiede con disperazione di lasciare in pace la povera Lucia e di permettere il matrimonio tra essa e Renzo. Ma il signorotto si prende beffa del povero Cristoforo, con battute di cattivo gusto, causando una reazione aggressiva da parte sua. Quindi la missione del prete fallisce. Intanto a casa di Lucia avviene una discussione con sua mamma sul modo di aggirare il problema. Lucia non approva il modo di risolvere il problema e vorrebbe prima parlarne a fra Cristoforo, ma Agnese glielo impedisce e la loro discussione finisce nell’esatto momento in cui quest’ultimo ritorna a casa.
Il settimo capitolo inizia con Fra Cristoforo che, uscito dal palazzo di Don Rodrigo, è deluso per aver fatto fallire il piano. Poi va casa di Lucia e Agnese per spiegarle quanto accaduto e chiede a Renzo di passare per il convento il giorno dopo. Nel frattempo Agnese organizza il matrimonio a sorpresa nonostante il disaccordo della sposa. Alla sera dello stesso giorno lui torna a casa. Il mattino seguente Agnese manda un ragazzino per scoprire cosa volesse dirle Fra Cristoforo. Intanto Don Rodrigo, veniva preso in giro nel palazzotto da suo cugino, il Conte Attilio, il quale stava per vincere la scommessa, e ordina al grifo di rapire la ragazza. I bravi di Don Rodrigo, con lo scopo di aiutarlo nell’impresa, si camuffano da mendicanti e si aggirano in tutto il paese. Durante la sera Renzo, Tonio e Gervasio, che erano pronti per il matrimonio a sorpresa, cenano nell’osteria. Il capitolo si conclude con Renzo, i testimoni e Agnese che si presentano a casa di Don Abbondio con il pretesto di saldare il debito di Tonio.
Il capitolo 8 inizia con Don Abbondio che vuole leggere un libro di un noto filosofo greco antico cercando anche di capirne il pensiero.
Ad un tratto arriva la sua serva Perpetua interrompendo il momento di lettura del curato, che gli annuncia l’arrivo di Tonio e Gervasio; nonostante la tarda ora Don Abbondio li accoglie lo stesso siccome Tonio deve pagare un debito al curato.
Nel frattempo nella stanza del curato riescono ad entrare anche Renzo e Lucia con Agnese che trattiene Perpetua mantenendola aggiornata sul fatto che il matrimonio tra i due è saltato.
Perpetua è molto dispiaciuta per il fatto appena raccontato.
Nel mentre nell’abitazione di Don Abbondio regna il caos e si viene a scoprire che i bravi, gli scagnozzi di Don Rodrigo, erano dentro la casa del curato Don Abbondio, il campanaio Ambrogio suona le campane per far fuggire i bravi, riuscendoci ma facendo svegliare il paese.
Don Abbondio dice ad Agnese e a Lucia di seguire il consiglio di padre Cristoforo e di andare con una lettera di raccomandazione, a Monza e rimanere ospitate in convento; invece Renzo, con una lettera diversa, si deve recare a Milano al convento dei cappuccini.
Il capitolo nove inizia con Renzo, Agnese e Lucia che arrivano a Monza dopo un viaggio molto tormentato che dura tutta la notte, qui a Monza la giovane coppia si deve separare Agnese e Lucia restano nel convento invece Renzo deve andare a Milano. Le donne intanto si recano al convento dei cappuccini con la richiesta di protezione di fra Cristoforo.
Il padre guardiano le accompagna al monastero delle suore di clausura, quando arrivano nel parlatorio le due donne incontrano la monaca di Monza, Suor Gertrude.
Gertrude è figlia di una famiglia nobile del luogo e per volere del padre deve diventare monaca. Lei era un’adolescente e non voleva passare la vita in convento. Per questo motivo diventa molto trasgressiva, lasciava sempre una ciocca di capelli fuori dal velo e cede in tentazione di un uomo esterno al convento.
quando torna nella casa paterna la sua famiglia la tratta con disinteressamento e cattiveria.
La situazione per la giovane Gertrude è insostenibile decidendo di chiedere perdono al padre.
Alla fine, a causa delle minacce del padre, decide di prendere i voti per diventare monaca e fare carriera in quel campo. Poi venne esaminata dal padre guardiano per capire se era una sua scelta o no, ma decise di non dire la verità al padre per non peggiorare la sua relazione con il proprio padre, quindi accettò di prendere il voto e rimanere in quel ruolo fino alla sua morte. A causa di questa sua situazione sviluppa un invidia verso le donne libere, sposate e madri. Continuò la sua vita in quella gelosia, finché venne un giovane ad abitare al convento, dall’omonimo nome di Egidio. Costui cominciò a sedurla e i due diventarono amanti, ma ad un certo punto una suora scoprì la loro storia. La suona li minacciò di rivelare tutto ai superiori, a causa di ciò egidio la uccise e seppellì il cadavere vicino al convento, ma Gertrude non disse mai nulla. Finito il flashback di quest’ultima, agnese e lucia vennero accolte dalla “signora”
Don Rodrigo si trova nel palazzotto e stava aspettando il rientro dei Grisi e dei bravi per vedere l’esito del rapimento di Lucia; inoltre Don Rodrigo aveva paura che fosse scoperto. Quando tornarono spiegarono il fallimento del rapimento e lui fu su tutte le furie. La mattina dopo si incontrò con suo cugino Attilio e ricordò che il giorno di San Martino era arrivato e quindi doveva pagare la sua scommessa, accetta la sconfitta. Attilio pensò che nel fallimento del rapimento di Lucia ci fu lo zampino di Fra Cristoforo. Promettendo a Don Rodrigo di risolvere la situazione chiedendo aiuto al conte zio del consiglio segreto di Milano. Attilio uscì per andare a caccia e invece Don Rodrigo resta nel palazzotto in attesa del Griso, per sapere quindi conoscere cosa si è detto nel paese. Ritornato nel palazzotto spiega a Don Rodrigo che Lucia e Renzo hanno tentato un matrimonio a sorpresa e che insieme ad Agnese sono scappate. Don Rodrigo, quindi, manda di nuovo il Griso per sapere delle notizie in più; e scopre che Renzo è andato a Milano, le due donne sono fuggite a Monza. La notte pensò a un piano, e la mattina seguente infatti lo mandò a Monza, non potendo andare, Don Rodrigo andò su tutte le furie. Renzo arrivato nella città di Milano nota che c’è qualcosa sulla strada, ovvero, delle lunghe file di farine e vide dei panni bianchi e tre uomini infarinati; un uomo che trasporta un enorme sacco di farina, donna che trasporta una quantità di farina nella gonna e per finire un ragazzo che sulla testa una cesta di pani. Queste tre figure si imbattono in altre persone, che chiedono dove si può prendere il pane. Renzo capì che la città era in rivolta e aveva un sentimento di felicità. Si recò nel convento dei cappuccini, il portinaio però riferì che il padre Bonaventura non è nel convento e cos' dovette aspettare incuriosito dai rumori e da cosa aveva appena visto, andò anche lui nelle strade fino ad entrare nel tumulto.
Per all'incirca due anni c'era stato uno scarso nel raccolto. La causa in questione era proprio la guerra, i campi non furono coltivati e per questo scoppiò la carestia, di conseguenza il prezzo del pane aumentò. La gente a Milano dava la colpa ai proprietari terrieri e ai fornai che non vendevano abbastanza grano tenendo alti i prezzi. I magistrati, però, non potevano diminuire il bisogno del cibo o produrre raccolti, per questo ci furono degli interventi più decisivi. Antonio Ferrer mise il prezzo del pane basso, anche se non sostenibile. Le persone andarono a prendere più pane possibile, perché questa cosa non continuava sicuramente a lungo. La farina aumentò di prezzo, e i fornai lavoravano duramente. La situazione peggiorò, il prezzo del pane aumentò nuovamente. Quando Renzo arrivò, Milano era invasa da persone che discutevano, però tutti andarono a dormire con l'idea che il giorno dopo la situazione cambiò. Il giorno dopo, all'alba, dai negozi uscirono i garzoni di pane e alcune persone riuscirono a prenderlo, altre invece no, per questo andarono verso il "forno delle grucce". Ci furono sempre più urla, una persona corse a chiamare il capitano di giustizia e arrivò poco dopo dicendo di stare calmi e di tornare a casa. Il popolo sfondò la porta per entrare nel forno, rubarono il pane, i soldi e aprirono i sacchi di farina e li svuotò tra spinte e urla. Alcuni forni avevano chiesto aiuto, altri davano il pane alla gente per farli andare via e altri forni avevano più soldati. Renzo camminò cercando di capire la situazione. Alcune persone accusavano il vicario di provvisione, che aveva proprio il compito di procurare il cibo per la città. Renzo, dopo un po', arrivò al forno delle grucce ma certa gente si era già allontanata. Le persone uscite dalla bottega, si portarono via mobili e attrezzi e Renzo gli seguì. Arrivati in piazza del Duomo bruciavano tutto il materiale e Renzo pensò che questo non era di certo il modo per avere il pane. Quando la fiamma si spense, la gente si diresse a un forno nella piazzetta di Cordusio. Renzo gli seguì.
La folla inferocita si dirige verso il palazzo del vicario, che, con l’aiuto dei servi, riesce a barricarsi in casa e a nascondersi in uno stanzino. Alcuni rivoltosi tentano di scardinare la porta del vicario per ucciderlo e tutto questo davanti ai soldati spagnoli, che fanno finta di niente. Renzo, al centro del tumulto, è tra coloro che si oppongono a una giustizia sommaria. Per questo, dopo aver reagito con sdegno alle proposte sanguinarie di un vecchio, rischia il linciaggio. Dal fondo della piazza fa la sua apparizione il gran cancelliere Antonio Ferrer, il quale, forte del sostegno popolare, interviene per salvare il vicario. Nella folla si creano due fazioni, l'una favorevole e l'altra ostile all'intervento di Ferrer. Il cancelliere procede in carrozza attraverso la piazza gremita di gente. Alcuni, tra cui Renzo, si adoperano affinché egli possa avanzare, anche se con continue fermate. Il cancelliere promette alla folla di arrestare il vicario e di abbassare nuovamente il prezzo del pane, ma il lettore sa bene che le sue promesse non verranno mai mantenute. Ferrer riesce infine, ad entrare nel palazzo del vicario e a trarre in salvo quest'ultimo. Salito sulla propria carrozza, si dirige verso il "castello" continuando a calmare con dolci parole la folla. Scampato il pericolo di un linciaggio, il cancelliere comincia a temere per le reazioni dei propri superiori, mentre il vicario, ancora molto spaventato, annuncia di volersi ritirare in una grotta.
CAPITOLO XIV
L'insurrezione presso la casa del vicario finisce e Renzo cerca un posto per mangiare e dormire . Nel mentre incontra un gruppo di rivoltosi che vogliono discutere e anche lui prende parte al diverbio , e da una sua opinione. Uno dei rivoltosi era un poliziotto travestito. Ascolta il discorso di Renzo e entrano nella osteria “Oste Luna Piena” avendo l’intenzione di portarlo al palazzo della giustizia. Così finge di portarlo in osteria , viste l’è insistenze di Renzo. Renzo ordina del cibo e vino e in poco tempo si ubriaca, l’oste aveva capito che voleva nascondere qualcosa così gli chiede nome e cognome che per legge tutti i forestieri dovevano essere identificati. Renzo ormai ubriaco cade nella trappola del poliziotto e gli dice il suo Nome e Cognome, nel mentre Renzo comincia ad accusare l’oste di averlo ingannato e i clienti iniziano a prenderlo in giro.
Renzo è ubriaco e temendo lo scatenarsi di una rissa l’oste lo porta nella stanza e lo mette a letto. Nonostante sia ormai notte, l’oste si mette in cammino e raggiunge il palazzo di giustizia con l’obiettivo di segnalare la presenza di Renzo come uno dei rivoltosi che aveva assaltato la casa del vicario nel pomeriggio, era nella sua osteria. Il notaio criminale sa già tutto, grazie alla testimonianza del poliziotto con cui Renzo ha trascorso la serata in locanda. Poi il notaio ordina all’oste di non lasciare scappare Renzo e lo invita a tornare alla locanda.
Renzo si approfitta della confusione per scappare, vuole lasciare Milano e progetta di raggiungere il confine di Bergamo dove viveva suo cugino Bortolo. Renzo non si fida delle persone che incontra , ma non conosce la strada e quindi è costretto a chiedere informazioni a un passante che era di fretta il quale lo invita a raggiungere Bergamo passando dalla porta orientale. Renzo riesce a passare indisturbato dalla porta e si mette in viaggio. Non conoscendo la strada cammina per 12 miglia senza allontanarsi da Milano, decide di fermarsi in un’osteria dove una vecchia gli offre il formaggio e li fa domande su Milano e sulle rivolte del giorno precedente, Renzo risponde in un modo vago e si fa dire dalla donna la via più sicura per raggiungere il Gorgonzola, dove poi arriva prima di sera. Cena in un'osteria e cerca di capire come attraversare l’Adda, il fiume che segna il confine tra Milano e Bergamo, mentre Renzo sta mangiando in solitudine arriva all’osteria un mercante conosciuto da tutti che viaggia spesso a Milano per lavoro. L’uomo comincia a raccontare delle rivolte dall’assalto al forno del giorno prima e Renzo senza dare nell’occhio ascolta quanto riferisce. Ad un certo punto il mercante dice che uno dei capi della rivolta era stato arrestato la mattina in una osteria ma che è riuscito a fuggire. Renzo sa che sta parlando di lui e ha paura, aspetta che il mercante cambi discorso per andarsene, cercando di non creare sospetti.
A causa delle parole del mercante, la voglia di scappare via da quell’osteria si fece più vivida: ormai tutti gli facevano paura. Uscendo da Gorgonzola, si mise subito a pensare alle miglia che doveva attraversare per arrivare all’Adda, lui sapeva che fossero sei miglia, ma anche se fossero diventate nove o dieci ormai non gli importava. Nemmeno se, appena arrivato all’Adda, non ci fosse nessuna barca che potesse trasportarlo dove era la sua destinazione. Era sempre meglio della prigione, no? Ben presto vide una stradina e Renzo guardingo si accorse della presenza nulla di persone, peccato però che percorrere quel vicolo lo fece andare in escandescenza pensando a quali parole avrebbe voluto dire a quel mercante, se lo avesse rivisto. Ma a interrompere questi pensieri intrusivi fu la spossatezza del cammino, la paura boia di essere acciuffato, nonostante fosse sicuro di aver percorso abbastanza miglia da non essere preso. Nel cammino della notte, il pellegrino, incontrò vari paesi e ogni volta controllava se ci fossero persone, ma costatando che non c’era anima viva fuori dalle case, solo delle innocue luci accese. Cercò di sentire il rumore dell’Adda, ma non si udì nulla; nemmeno quando arrivò a dei campi incolti la presenza del suono tanto voluto non giunse alle sue orecchie. Piano piano si inoltrò pure in un bosco, che nelle notte fonda, faceva sembrare le sue “creature” mostri, anche il flebile ma ripetitivo suono dello scricchiolio delle foglie diventava spaventoso. Aveva pure le gambe vogliose di correre. La paura lo aveva preso in mano e ci stava giocando liberamente. Niente poteva calmarlo. Un pensiero intrusivo gli fece venire l’idea di svoltare il cammino, ma sentendo un suono di acqua lo fece dimenticare tutta la stanchezza. Dopo poco tempo arrivò alla riva di quel fiume, dove poteva scorgere in lontananza la città di Bergamo. Si mise a esaminare il posto, per vedere se c’erano barchette, ma non adocchiò nulla che lo potesse aiutare, poi si mise a rimuginare finalmente a sangue freddo: Dove poteva accamparsi fino all’arrivo dell’alba? di certo non su un ramo, poteva sentire benissimo quando gli dolessero le sue povere gambe, e anche per la brina, il vento, poteva benissimo capire che coi vestiti che indossava non era posto un adatto. Per fortuna gli venne in mente di aver visto una capanna, quella che usano di solito i contadini, quindi decise di incamminarsi velocemente nella direzione. All’arrivo non trovò nessun catenaccio, così entrò risentendo la stanchezza e ringraziando la Provvidenza divina. Nemmeno al chiudere degli occhi ebbe un po’ di pace, tutti i ricordi amari li trapassavano la mente, solo quelli di Lucia e Agnese portavano un po’ di nostalgia e invece al ricordo del frate si vergognò moltissimo, per non aver seguito i sui saggi consigli. Pertanto non passò una bella notte, per opera di quelle riflessioni notturne. Finalmente si alzò, alle quattro e mezza precise, guardando la giornata che lo aspettava: non si prospettava una brutta giornata. Ripercorse il sentiero della notte prima, rimproverandosi di aver provato fifa per quel sentiero che lo ha portava alla riva dell’Adda. Quando raggiunse la destinazione, notò una barchetta di un pescatore a cui chiese di trasportarlo alla riva opposta. Quando cominciarono a remare, Renzo chiese se quella era Bergamo e per felicità del pellegrino il pescatore disse: << Si, è repubblica di Venezia>> Facendolo esultare. Si voltò verso la riva con rabbia, pensando anche chi lasciava oltre la sponda con nostalgia. Renzo approdò all’altra sponda felice e attraverso un viandante scoprì che mancavano ancora nove miglia per la casa di suo cugino.
Il podestà di Lecco riceve l’ordine di accertarsi se Renzo sia tornato al suo paese perché è ricercato in territorio milanese. l’abitazione di Renzo viene messo a soqquadro e padre Cristoforo preoccupato per lui scrive a padre Bonaventura per avere informazioni. Don Rodrigo, al contrario è felice di quello che è successo a Renzo e capisce che è il momento migliore per prendersi Lucia. Nel frattempo il Griso avvisa il padrone di aver scoperto dov’è nascosta Lucia: si trova a Monza nel convento di Gertrude questo preoccupa molto Don Rodrigo perché sa che sarà molto difficile rapirla lì, ma preoccupato per il disonore che nevica verrebbe a prendere la sua scommessa pensa di chiedere aiuto a un potente bandito. Agnese e Lucia nel frattempo arrivate al convento di Monza e li sentono le notizie riguardo ai tumulti della città: si parla di un giovane proveniente da Lecco di nome Renzo, le due sono preoccupate e temono il peggio per Renzo. Arriva il commento un pescatore di Pescarenico a portare notizia a Lucia e Agnese e dice loro che Renzo è ricercato dalla legge ma che è riuscito a scappare. Intanto Lucia, occupata sempre di più dalle udienze private con Gertrude, piano piano si affeziona lei. Agnese chiede al pescatore di portarla a Pescarenico perché ha un bisogno urgente di parlare con padre Cristoforo, ma quando arriva scopre che improvvisamente è partito per Rimini. In realtà dietro la partenza di padre Cristoforo c’è il conte Attilio che ha chiesto aiuto al conte zio, un potente politico per far sparire il frate che stava dando fastidio a un suo cugino Rodrigo. Il Padre Cristoforo è stato infatti fatto trasferire lontano dal conte zio, affinché Don Rodrigo non avesse più fastidi.
Il capitolo XIX inizia con le considerazioni sul conte Zio, poi si va avanti con la narrazione e, possiamo vedere che il conte Zio invita a cena il padre provinciale, anche se ha un rapporto reciproco, ma va bene così per il sottile compromesso tra i due. Nella sua casa c'è una regola molto importante nelle conversazioni in cui chi ascolta deve ascoltare l’interlocutore e stare zitto, per dirla breve. Il conte Zio è abile a ridire la solita storia sul regno di Spagna, delle corride a cui ha partecipato e che lo considerano un reale. Alla fine della cena si apparta con il padre provinciale da solo. Il conte lo fa sedere e inizia a parlare in modo serio, al padre provinciale, chiedendo se c’è un frate di nome Cristoforo e sicuramente gli avrà dato da pensare, ma il prelato capisce che vuole metterlo in una briga e si incolpa di non averlo messo in un convento di una città grande, invece di campagna per non avere problemi contro nobili, ma ascoltando il conte sembra inevitabile il coinvolgimento del frate Cristoforo, ricorda pure il suo brutto passato, e che potrebbe subire pressioni da Roma. Finisce male per il prelato e alla fine, grazie alla sincerità del conte che appare ad un certo punto, il conte Zio convince il padre provinciale, nonostante le sue deboli proteste, ad allontanare Cristoforo anche a causa della questione di Renzo.
Arriva una lettera al convento di Pescarenico, in cui dice che frate Cristoforo deve lasciare il posto e andare a Rimini per cerimoniare la quaresima: portandosi tutte le sue cose, quindi lasciando definitivamente allo “sbaraglio” i suoi protetti. All’inizio il padre guardiano non accenna questa lettera al frate, solo la mattina dopo lo verrà a sapere.
Mentre frate Cristoforo si incammina verso Rimini, il capitolo finisce con Don Rodrigo che va verso il castello dell’innominato per chiedere aiuto per il rapimento di Lucia, da lui tanto atteso.
Don Rodrigo arriva al castello dell'innominato e chiede il suo aiuto per rapire Lucia. L'innominato accetta l'incarico e, congedato Don Rodrigo, inizia a essere pensieroso per via delle tante nefandezza compiute in vita. Negli ultimi tempi infatti è spesso tormentato da dubbi e rimorsi. Il bandito, messe a tacere queste voci della coscienza, cerca la complicità di Egidio, che abita accanto al monastero di Gertrude. Egidio accetta anche perché sa di poter confidare sull'aiuto della sua amante Gertrude. La monaca, inizialmente riluttante, si persuade a collaborare e convince Lucia a uscire dal convento con l'inganno. Il Nibbio e altri bravi rapiscono la giovane e la portano al castello su una carrozza. Durante il viaggio Lucia è in preda al terrore e i bravi la rassicurano dicendole che non vogliono farle del male, che se avessero voluto ucciderla, affermano, lo avrebbero fatto già da un bel pezzo. L'innominato ordina a una vecchia - vedova di un bravo e che vive in quel castello da sempre di prendersi cura di lei e d farle coraggio.
Lucia, accompagnata da una serva, arrivava al castello ed era così rinchiusa in una stanza. L’innominato si fece dire dal Nibbio lo svolgimento reale dei fatti. A quel punto, andò da Lucia e la vide disperata, ripetendo una frase “Dio perdona tante cose per un atto di misericordia. La trattò con gentilezza e si era fatto scappare una “mezza salvezza”. Lucia rifiuta cibo, ed è stata una notte di confusione e terrore; cercò un un motivo di speranza e salvezza. La notte dell’innominato fu tremenda, e tentò quasi al suicidio. All'alba sente il suono delle campane e vede dalla sua finestra i paesani correre in massa verso un luogo a lui sconosciuto.
Ci sarà un colloquio tra il Cardinal Borromeo e l'Innominato, dove lui chiederà perdono, sentendosi pentito e decidendo così di convertirsi. L'Innominato svela quindi del rapimento di Lucia, allora il Cardinale manda Don Abbondio e "una buona donna" (la moglie del sarto) a liberare la giovane ragazza. Don Abbondio, come sappiamo, sarà spaventato da ciò che sta accadendo e accadrà.
Dopo aver appreso la notizia della liberazione di Lucia, Don Rodrigo, per due giorni, si rinchiude nel suo palazzo e il terzo giorno lascia il paese per dirigersi a Milano perché non vuole incontrare il cardinale Borromeo. Il paese dei promessi sposi viene decorato in occasione dell’arrivo del cardinale. Successivamente Lucia trova ospitalità presso la villa di donna Prassede e don Ferrante. Infine il capitolo si conclude con i rimproveri aspri del cardinale Borromeo verso don Abbondio per non aver fatto il suo dovere.
Il capitolo 26 dei Promessi Sposi si apre con il silenzio di Don Abbondio. Il cardinale interpreta questo suo comportamento come un segno di colpevolezza e di conferma che abbia mentito. Il cardinale non è disposto a perdonare Don Abbondio, quindi quest’ultimo gli chiede che cosa avrebbe potuto fare e il cardinale Borromeo gli dice di amare, pregare e fare il suo dovere. Inoltre avrebbe dovuto informare il cardinale di quello che stava succedendo. A queste parole, il curato pensa a Perpetua; la quale nel capitolo 1 gli aveva dato gli stessi consigli. L’incontro si conclude con Don Abbondio che promette al cardinale che farà il suo dovere. Il mattino dopo la donna Prassede giunge a prendere Lucia per portarla alla villa. Intanto il curato del paese del sarto giunge dal cardinale Borromeo e gli consegna un pacco contenente dei soldi e una lettera dove l’innominato spiega che quei soldi sono destinati ad Agnese come risarcimento per il male ricevuto oppure come promessa del proprio aiuto in qualsiasi circostanza necessaria. Il giorno successivo Agnese si mette in cammino verso la villa di donna Prassede. Appena sola con Lucia, Agnese le riferisce la bella notizia ma la giovane sembra infelice. Lucia confessa alla madre del voto sacro pronunciato mentre era prigioniera nel castello. Inoltre Lucia chiede alla madre di far avere la metà di quel denaro a Renzo come risarcimento per l’annullamento del matrimonio. Renzo, su consiglio del cugino Bortolo, ha assunto una falsa identità e si fa chiamare Antonio Rivolta e ha trovato lavoro presso un filatoio di Bergamo. Nel frattempo il giovane è ricercato da Don Gonzalo Fernandez, governatore di Milano.
Don Abbondio all'inizio sembrava convinto di fuggire, sapeva che i monti non erano sicuri perchè i lanzichenecchi si arrampicavano molto facilmente. Don Abbondio vede in ogni spazio esterno un pericolo. il territorio bergamasco non era molto lontano, però sapendo che era stato spedito uno squadrone di cappelletti, Don Abbondio impaurito seguiva in continuazione Perpetua che la considera il suo rifugio nei momenti di pericolo. Perpetua era occupata a raccogliere gli oggetti più importanti della casa per nasconderli in soffitta.
Don Abbondio dice che scappare e radunarsi tutti in un luogo è come chiamarsi addosso i soldati: all’entrata della valle, vede li vede e ha paura che essi stiano formando un accampamento per assaltare la fortezza, perché è il loro lavoro, e che lo coinvolgano in un combattimento (in una battaglia non mi ci colgono).
Agnese, in cammino per il castellaccio, soffre a pensare che Lucia abbia percorso quella strada, ma Don Abbondio la zittisce perché sono a casa sua (dell'Innominato): egli dice alle donne di pesare le parole (no pettegolezzi), e che nel dubbio a stare zitti non si sbaglia mai. Perpetua gli risponde a tono che a stare zitto dovrebbe esser lui: il loro conflitto verbale è protagonista del capitolo.
L'Innominato accoglie i tre, dicendo che avere Agnese in quella casa è come una benedizione. Il signora rassicura che son protetti nel suo castellaccio (da cappelletti e lanzichenecchi), ma Don Abbondio non si fida (Oh che gente c’è a questo mondo!: lui è abituato alla pace, ha paura di tutto).
Agnese, il curato e la sua domestica passano ventitré-ventiquattro giorni nel castellaccio, insieme a chiunque passasse: tutti i rifugiati vengono perfettamente gestiti e protetti dall'Innominato. Egli istituisce anche una mensa gratuita per i poveri, dove Perpetua e Agnese lavorano per non sentirsi delle approfittatrici.
Il paese accanto subisce un sacco da parte dei lanzichenecchi molto frettoloso: l'Innominato li caccia e libera il paese, che lo adula.
La paura che qualcosa di improvviso possa succedere logora Don Abbondio, che prova anche nostalgia per casa: egli passeggia, mentre cerca un nascondiglio. Storie sempre peggiori arrivano al castellaccio ogni giorno, e nuova gente arriva e se ne va come, dopo un temporale d’autunno, si vede dai palchi fronzuti d’un grand’albero uscire da ogni parte gli uccelli che ci s’erano riparati.
Gli ultimi ad andarsene sono Don Abbondio, Perpetua e Agnese, per paura del curato che i lanzichenecchi fossero ancora a piede libero. Perpetua avrebbe voluto darsi una mossa per non vedere la casa completamente razziata, ma non verrà accontentata.
Il giorno della partenza, l'Innominato regala cento scudi d'oro ad Agnese e le dice di far pregare Lucia, di credere in Dio, mostrandosi grato nei suoi confronti (ditele adunque ch’io la ringrazio, e confido in Dio, che la sua preghiera tornerà anche in tanta benedizione per lei).
Tornati nelle rispettive case, i tre vedono gli effetti delle scorrerie, raccontati anche dal sarto, e della carestia.
Agnese vede la casa razziata e ringrazia Dio d’esser caduta in piedi, mentre Don Abbondio e Perpetua trovano il focolare distrutto: i ladri, coi resti dei carboni, hanno scarabocchiato i muri. Agnese presta loro gli scudi per far riparare l'abitazione.
Il curato e la domestica litigano nuovamente, in segno del rapporto sostanzialmente paritario. Perpetua sollecita Don Abbondio a farsi coraggio e richiedere indietro i suoi averi, ma il codardo dice di star bene così (quel che è andato è andato). La domestica rivela ciò che tutti noi pensiamo del cuor di leone: lei si lascerebbe cavar gli occhi di testa. Rubare agli altri è peccato, ma a lei, è peccato non rubare.
Infatti, tanta è la paura di Don Abbondio di un attacco a sorpresa, che egli fa riparate immediatamente la porta: nulla di ciò che temeva succederà, ma Manzoni anticipa che arriverà comunque un’altra mala nuova.
Ecco svelata la mala nuova preannunciata da Manzoni: la peste arriva a Milano, portata dalle bande alemanne.
Manzoni vuole raccontare la storia del morbo nel Ducato perché è più famosa che conosciuta: tutte le relazioni in merito sono incorrette, totalmente o parzialmente (è tutto un guazzabuglio di grandi mali e grandi errori). Manzoni indaga gli eventi secondo un metodo razionale: vuole solo riportare la cronologia del disastro della peste, dando un senso logico alla storia.
Quando si iniziano a trovare i primi cadaveri in strada e malati in casa, pochi si ricordano della peste di San Carlo (53 anni fa).
Lodovico Settala, protofisico che ha ispirato sentimenti e azioni più memorabili ancora de’ mali come guida, soccorso, esempio, vittima volontaria, è il primo a mettere in guardia Milano sulla nuova peste. Il tribunale della Sanità manda quindi un commissario a recuperare un medico a Como, per fargli visitare i luoghi colpiti (secondo il Ragguaglio di Tadino). I due, il commissario e il medico, si lasciano convincere da un barbiere di Bellano che la piaga non era in realtà peste, ma effetto o delle emanazioni autunnali delle paludi, o, in altri casi, di disagi provocati dagli alemanni. Ciò viene riferito al tribunale.
Le morti, però, non cessano, quindi Tadino e un auditore ripetono il sopralluogo: ormai, il male s’era già tanto dilatato, che le prove si offrivano, senza che bisognasse andarne in cerca. Cancelli sbarrati e abitanti in fuga, città deserte: la mala nuova arriva al tribunale il 30 di ottobre.
Il 14 novembre deve esser fatto rapporto al governatore, il quale si preoccupa per la peste ma maggiormente per la guerra: il 18 emana una grida in cui ordina una festa pubblica per la nascita di Carlo figlio di re Filippo IV. Il governatore in questione è il già citato Ambrogio Spinola, morto durante la guerra a lui tanto cara, morto sul letto d’affanno e di struggimento, per rimproveri, torti, disgusti d’ogni specie ricevuti da quelli a cui serviva. Lo ricordiamo come un valoroso combattente, qualità che non applicò nel debellare la peste.
Chi si comporta in modo altrettanto insensato (maraviglioso) è la popolazione che ancora non era stata contagiata: nessuno chiese una misura di protezione e prevenzione, nonostante gli effetti della peste fossero ben evidenti e il morbo fosse vicino. La medesima miscredenza, la medesima, per dir meglio, cecità e fissazione si ritrovava anche nel Senato. Uno dei pochi coscienziosi fu il cardinal Federigo Borromeo che sollecitò il popolo a riportare i casi di peste e consegnare gli oggetti probabilmente infetti: Manzoni vede in questa lucidità un’altra dote del cardinale, mentre il tribunale della sanità mostrava una premura ben lontana da uguagliare l’urgenza.
Si scopre in realtà che la grida del 30 ottobre è stata stesa il 23 novembre e pubblicata il 29.
Tadino e lo storico Ripamonti cercano quindi di individuare il nome del paziente zero (nasce una non so quale curiosità di conoscere que’ primi e pochi nomi che poterono essere notati e conservati: questa specie di distinzione, la precedenza nell’esterminio, par che faccian trovare in essi, e nelle particolarità, per altro più indifferenti, qualche cosa di fatale e di memorabile). Secondo Tadino, il primo appestato fu il soldato italiano Lovato di Lecco, secondo Ripamonti, Locati di Chiavenna. Il primo sarebbe entrato a Milano il 22 ottobre, l’altro il 22 novembre. Manzoni ipotizza che la data di entrata a Milano sia in realtà intorno ai primi di novembre, ma non ha informazioni certe.
I contagi scoperti dopo il primo sono tenuti sotto controllo, ma i contagi precedenti all’entrata a Milano vengono indagati per sei mesi.
Nel frattempo, la peste si diffonde, ma non capillarmente: ciò allontanava il sospetto della verità, confermava sempre più il pubblico in quella stupida e micidiale fiducia che non ci fosse peste, né ci fosse stata neppure un momento. Rimane però il terrore del lazzaretto e della contumacia: ciò peggiora ulteriormente la situazione, perché non si denunciano i casi, si corrompono i becchini e si comprano falsi attestati per visitare i cadaveri. Il tutto perché riportare un malato vuol dire vedersi cacciati di casa e bruciati gli averi. Così cresce l’odio verso Tadino e il figlio del protofisico Settala, dichiarati addirittura nemici della patria: il popolo odia i suoi salvatori. Ma questo odio ammutolisce anche altri medici che vorrebbero denunciare la peste, per paura di conseguenze non desiderate.
Manzoni scrive che il protofisico Settala era più avanti di loro (il popolo), ma senza allontanarsi dalla schiera, che è quello che attira i guai, e fa molte volte perdere l’autorità acquistata in altre maniere. Ancora una volta, Manzoni denuncia l’ignoranza e l’avventatezza del popolo, che ragiona con le emozioni e non ascolta gli uomini del mestiere. Il popolo accerchia addirittura Settala, e lo costringe a torturare una donna innocente: solo così il protofisico riacquista il rispetto delle genti.
Nel mentre, però, la peste che Settala aveva preannunciato si diffonde, e i medici si inventano il nome di febbre maligna o pestilente per coprire i loro errori di valutazione. Il problema fondamentale rimane: i medici non avevano dichiarato che queste febbri, ossia la peste, si attaccavano per contatto fisico.
Nel frattempo tutti si mobilitavano per trovare denaro sufficiente a coprire le spese dell’emergenza: e pensare che le grandi angosce non erano ancora venute.
Il lazzaretto chiede aiuto ai Cappuccini per mettere un po’ d’ordine, e il commissario propone Felice Casati e Michele Pozzobonelli: essi entrano nel lazzaretto il 30 marzo, e Casati viene nominato Presidente. Egli stesso, lavorando in tutti i campi possibili e immaginabili per il lazzaretto, prende la peste: a differenza di molti altri fratelli, guarì.
Secondo Manzoni, questo malgoverno della situazione è in realtà contrapposto alla forza e abilità che la carità può dare in ogni tempo, e in qualunque ordin di cose, il veder quest’uomini sostenere un tal carico così bravamente. Inoltre è bello sapere che le genti ripongono la loro fiducia nei frati: per questo bisogna ricordare e fare onore ai Cappuccini che aiutano cinquantamila appestati di Milano in soli sette mesi.
Tra i numerosi contagi vi è anche Settala, che però guarisce. Muore in compenso gran parte della sua famiglia, e ciò costringe la plebe ignorante et temeraria a stringere le labra, chiudere li denti, et inarcare le ciglia (Tadino). Nonostante ciò, alcuni continuano a credere che la peste venga propagata apposta tramite ungenti e magie varie ed eventuali. Essi fanno controllare al tribunale un assito di legno, che secondo loro era stato avvelenato davanti al Duomo il 17 di maggio. L’assito e vari oggetti vengono portati fuori dal Duomo per essere lavati, ma la gente che li vede pensa che siano stati coperti di veleno.
Uno scandalo simile accade il giorno dopo, quando le porte delle case e i muri vengono coperti da una sporcizia giallognola, biancastra, sparsavi come con delle spugne: Manzoni traduce ciò in una falsa voce messa in giro da qualcuno o in un sogno collettivo (che non sarebbe il primo). Ripamonti deride chi è cascato nell’inganno.
Nonostante Manzoni sia praticamente certo della falsità dell’accaduto, crede che non fosse fuor di proposito il riferire e il mettere insieme questi particolari, in parte poco noti, in parte affatto ignorati, d’un celebre delirio; perche, negli errori e massime negli errori di molti, ciò che è più interessante e più utile a osservarsi, mi pare che sia appunto la strada che hanno fatta, l’apparenze, i modi con cui hanno potuto entrar nelle menti, e dominarle. Scoppia infatti un subbuglio generale, il timore dilaga ancora di più: non si trova un colpevole per il fatto, ma comunque si presuppone che ci fosse: il tribunale promette un premio a chi lo scagionerà. Inoltre, mentre il tribunale cercava, molti nel pubblico, come accade, avevan già trovato: chiunque poteva essere incolpato da qualcun altro, pur di trovare una spiegazione e un colpevole.
Il popolo è diviso tra chi crede di poter venir avvelenato da lì a poco, chi pensa si stia esagerando e chi non crede proprio nella peste: per questi ultimi, il tribunale pensa di portare su un carro una famiglia di morti di peste, nudi, verso il cimitero di San Gregorio. Il popolo turbato inizia a credere di più alla peste, ma d’altronde il morbo già si sta diffondendo giorno dopo giorno sempre di più: a ogni morto corrispondeva una persona in più che ci crede. Il carro coi morti non fa che spargere ancora di più la malattia.
Manzoni fa quindi un riassunto della vicenda:
1. La peste non esiste, non se ne dica il nome
2. La peste non esiste, ma le febbri sì
3. La peste non esiste, ma forse sì
4. La peste esiste e stanno cercando di farci ammalare
Come soluzione a questo percorso così lungo e così storto, Manzoni propone di osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare.
Lo stesso scrittore si accorge però che parlare, questa cosa così sola, è talmente più facile di tutte quell’altre insieme: noi uomini siamo quindi da compatire.
Don Rodrigo, tornato da una festa, con le gambe pesanti e il fiatone si fa guidare dal Griso con un lume verso la camera dal letto per riposare, magari dicendo che ha bevuto troppo. Dopo essersi messo a letto sentì le coperte pesanti e sente spesso caldo,. Quando poi si addormenta, iniziarono gli incubi, in particolare, lo tormenta un incubo nel quale si trovava al lazzaretto e vede Fra Cristoforo con un braccio alzato. Don Rodrigo prova ad afferrarlo, quando lo fa tira un urlo e si sveglia bruscamente. Chiama il Griso che capisce subito che il padrone è stato contagiato dalla peste. Il padrone gli dice di chiamare un medico che nasconde i contagiati di peste alle autorità per non farli andare al lazzaretto. Invece di soddisfare le richieste di Don Rodrigo, chiama due monatti che lo aiutano a derubare il signorotto. Il Griso, poi, fugge insieme ai due monatti con la roba del signorotto, ma il giorno dopo mostra anche lui alcuni sintomi della peste. I monatti quindi lo buttano su un carro, dove muore. Anche Renzo si ammala di peste, giungendo in fin di vita, ma la sua resistenza psicologica e spirituale lo salvano. La malattia, però, suscita in lui una nostalgia verso Lucia, e decide di partire a Milano per cercarla. Si congeda quindi con Bortolo e inizia a viaggiare verso il suo paese. decide di non andare subito a Milano alla cieca come avrebbe fatto quando era più impulsivo e meno razionale. quindi si dirige verso il suo paese, alla ricerca di informazioni. scegliendo una strada nascosta per non farsi notare, Renzo incontra Tonio, completamente inebetito dalla peste, e Don Abbondio, anche lui passato nella malattia ma già in fase di guarigione. Tramite Don Abbondio Renzo capisce che Lucia si trova a Milano, Agnese è dai suoi parenti, Don Rodrigo non era nel paese e Fra Cristoforo non si sa nulla di dove sia. Poi, il curato gli indica tutte le vittime della peste, tra cui molti conoscenti di Renzo, prima tra tutti Perpetua, e continua a dirigersi verso il paese. passa davanti a casa sua e la vede in stato di abbandono, con il vigneto pieno di erbacce e la casa di roditori. Si ferma a dormire da un suo amico d'infanzia e unico della sua famiglia a sopravvivere alla peste, anche se con la mente annebbiata. Grazie a lui scopre che Don Rodrigo è fuggito a Milano, mentre lui offre a Renzo la cena e un posto per dormire prima di partire per Milano. parte all'alba, l'amico lo accompagna per un breve tratto, poi i due si congedano con l'augurio di rivedersi presto con buone novità. Renzo continua a prendere strade secondarie, compra un paio di pagnotte, dorme sotto il portico di una cascina abbandonata fimo all'alba e arriva a Milano tra porta Orientale e porta Nuova.
Il capitolo XXXIV inizia con l'entrata di Renzo a Milano tramite Porta Nuova. Quando entrò notò che Milano era invasa da peste, tanta gente era ormai morta ed erano posti su dei carri, guidati dai monatti. Renzo, venne scambiato per un untore, ma per fortuna riuscii a scappare saltando dal carro e si dirige al lazzaretto. Arrivato lì, assiste ad un spettacolo di morti e si affacciò sul grande cortile interno.
Renzo, nel dirigersi nella cappella che sorgeva nel bel mezzo del lazzaretto, aveva due pensieri per la testa: la concentrazione era rivolta alla ricerca della sua amata ma nel frattempo era ossessionato dal timore che provocava in lui la figura di Don Rodrigo.
Arrivato all'uditorio, si mise in coda guardandosi in torno per trovare Lucia, però, non riuscendo a distinguere le persone tra quel folto di teste si concentrò sulle parole di padre Felice: cominciò a pregare ed a chiedere perdono per le persone che non hanno degnamente eseguito il proprio compito. Dopo che il frate avviò la processione Renzo rimase nel luogo nella speranza di intravedere l'amata ma quando essa si allontanò di lucia non ci fu traccia; allora Renzo andò ai piedi della Cappelletta per pregare, la preghiera che disse era così confusa che solo lui l'avrebbe potuta intendere.
Dopo aver pregato, Renzo si alzò ed andò a cercare in una via che non aveva ancora visitato ma , la sua ricerca, era ostruita da alcune persone; così per muoversi liberamente si legò un campanello dai monatti al piede che aveva trovato per terra e proseguì a cercare. Durante il cammino incrociò un uomo che lo chiamò per dirgli che in una stanza c'era bisogno del suo aiuto. Capendo subito per chi fosse stato scambiato Renzo li fece un segno con la testa per dirgli che aveva inteso, e, quando capì di essere abbastanza lontano dalla folla si tolse il campanello gettandolo per terra. Nel frattempo sentì una voce, era proprio quella di Lucia!
Appena si incontrarono si rivolsero delle domande a vicenda così Renzo scoprì che l'amata aveva avuto la peste ma ne era guarita, capì anche che mentre lui non era presente Lucia ha fatto un voto, rinunciando al suo amore per Renzo, in cambio della sua liberazione. Appena aver rivelato a Renzo del voto gli disse anche di dimenticarsi di lei e di lasciare il lazzaretto.
Anche dopo queste parole Renzo non si arrese, quindi, cercò di convincere Lucia a parlare con padre Cristoforo dell'accaduto nella speranza che potesse sciogliere la promessa fatta dalla promessa sposa al Signore. Lucia, in preda al panico, non voleva ascoltare quello che gli stava dicendo l'amato, così dopo mille discussioni lo cacciò dicendogli di ritornare dal sant'uomo che gli rimetterà il cuore in pace e di non farsi più vedere da lei. Andandosene Renzo riuscì a dirle i suoi ultimi pensieri che gli stavano passando per la testa, ovvero, che non metterà mai il cuore in pace perché non vuole dimenticarsi di Lucia e che ritornerà da lei con padre Cristoforo. Successivamente, dopo che Renzo ha lasciato la stanza, Lucia scoppia in lacrime e la donna che condivideva la stanza con lei le domandò cosa fosse accaduto. La donna era chiamata mercantessa perché era una commerciante di circa trent'anni a cui era morta la famiglia. Tra le ragazza era nato un forte affetto, così forte, che Lucia tra mille singhiozzi riuscì a raccontarle tutto l'accaduto. Nel frattempo Renzo tornò da padre Cristoforo che gli chiese notizie dell'ultimo periodo. Renzo così gli raccontò come aveva trovato l'amata, in che stato l'aveva trovata e quello che gli aveva detto, così, il padre capì la situazione e decise di tornare insieme al promesso sposo da Lucia. Arrivato al lazzaretto, Cistoforo, rivide con piacere Lucia e le chiese di raccontargli il voto che aveva fatto. Capendo che il sacrificio era stato compiuto in presa al panico il padre scioglie i voto, così i due amati lasciarono il Lazzaretto per tornare al paese da Agnese.
La vicenda inizia con Renzo che lascia il lazzaretto, mentre se ne va, comincia a piovere sempre di più. La tempesta annunciata si sposa perfettamente con l'umore felice del protagonista. La pioggia laverà via la peste, portando infine alla soluzione dei fatti.
Qui trova nuovamente ospitalità dal suo amico ,gli racconta tutti i particolari del suo viaggio e lo invita a fargli da testimone di nozze.
La mattina dopo andò a Pasturo da Agnese, le raccontò tutto e tornò a casa dell'amico.
Il giorno dopo viaggiò nuovamente da Bortolo al Bergamasco, dove aveva deciso di trasferirsi lì con Lucia. Pochi giorni dopo, tornò nella sua città natale, poi a Pasturo, riportò Agnese a casa sua e aspettò che Lucia arrivasse insieme.
I compaesani nel mentre accolgono Renzo con grande entusiasmo; tutti tranne don Abbondio, dal quale il giovane gira alla larga, deciso a parlargli al momento opportuno. Nessuno poi pensa più al mandato di cattura che ancora è in circolo, anche perché nessuno più ha interesse a creargli dei guai.
Lucia nel frattempo fa la quarantena a Milano nella casa della mercantessa, che la informa dell'arresto di Gertrude, su ordine del cardinal Borromeo. In seguito apprende della morte, di padre Cristoforo, causata dalla peste.
Dopodiché prima di lasciare Milano, Lucia vorrebbe avere notizie dei suoi padroni e si fa accompagnare dalla mercantessa alla loro casa, apprendendo che anche loro sono morti per la peste.
All'inizio dell'epidemia don Ferrante è stato tra i più decisi a negare il contagio della malattia, argomentando la sua opinione con dotte disquisizioni filosofiche: è convinto infatti che, in base alla dottrina aristotelica, in natura ci siano solo sostanze e accidenti, e il contagio non corrisponde a nessuna delle due, il che dimostra la sua inesistenza.
Manzoni infine rende anonima l'immagine di don Ferrante: l'uomo incolpa gli influssi astrali del contagio della peste, e secondo lui è inutile prendere precauzioni. Così, senza prendere precauzioni, contrasse la peste e morì.
La vicenda inizia con Lucia, che alla fine torna in città e si riunisce finalmente con i suoi cari.
L'occasione fu felice, ma fu solo rattristata dalla morte di Fra Cristoforo.
Addirittura don Abbondio ha finalmente cambiato idea, infatti dopo le paure iniziali dei primi capitoli , decide ancora di sposare Renzo e Lucia. Questo perché viene a sapere che è morto anche don Rodrigo è che un marchese di suoi parenti è arrivato in paese e gli succederà, come successore.
Mentre la storia va avanti, il marchese, dopo aver appreso la storia di Renzo e Lucia, va da don Abbondio e gli chiede cosa può fare per rimediare agli errori passati commessi da don Rodrigo. Don Abbondio, ha poi risposto che poteva comprare la loro casa per più di quanto valesse. Non solo il marchese fece questo, ma fece anche in modo che Renzo e Lucia potessero organizzare il loro banchetto di nozze nel loro castello, che un tempo apparteneva a don Rodrigo.
Renzo e Lucia in seguito si sposarono e vissero per qualche tempo alla periferia del paese. Ad un certo punto, però, i pettegolezzi si rincorrono: i paesani infatti si aspettano che Lucia sia di straordinaria bellezza dalla storia dei due amanti, ma sono delusi dal fatto che sia solo una semplice contadina. Incapace di sopportare le critiche e le voci, Renzo decise di mettersi in società con Bortolo, cosa che il cugino accetta prontamente. Renzo decide insomma di dedicarsi all'industria della seta e non più all'agricoltura e, dopo la stipula della compravendita, lui e le due donne vanno a stabilirsi nel nuovo paese, dove Lucia è ben accolta e non suscita più alcuna critica, cosa di cui Renzo è molto soddisfatto.
A dispetto di piccole difficoltà, la nuova vita di Renzo e Lucia scorre tranquilla. Gli affari vanno presto a gonfie vele e prima che passi un anno dal matrimonio nasce una bambina, alla quale viene dato il nome di Maria. In seguito hanno altri figli, accuditi amorevolmente da Agnese.
Alla fine del romanzo sono proprio Renzo e Lucia a suggerire qual è la morale:
purtroppo i guai, che tu li cerchi o meno, arrivano, ma avere fede verso Dio e comportarsi di conseguenza, fa in modo non solo che questi passino, ma che diventino la base per migliorare le proprie azione, come si è visto nella maggior parte dei personaggi.