Castelvetro Ludovico

Ludovico Castelvetro (Modena 1515 - Chiavenna 1571).Nato a Modena nel 1505, Ludovico Castelvetro è riconosciuto come il critico letterario principale del Rinascimento italiano, particolarmente noto per la sua traduzione della Poetica di Aristotele e della valutazione critica indipendente che ne trae, in cui ne difende le unità drammatiche di tempo, luogo, ed azione, come pure l'uso della poesia per puro piacere. Contribuisce poi a stabilire le norme critiche del dramma nel Rinascimento e nel periodo francese del Neoclassicismo.Di nobili natali (suo padre era infatti il banchiere Giacomo Castelvetro), Ludovico Castelvetro studia legge a Bologna, Ferrara e Padova, poi inizia a studiare letteratura a Siena. Dopo aver vissuto per un certo tempo a Roma, Castelvetro ritorna a Modena, e diventa famoso nei circoli letterari e come docente di diritto (1532). Dotato di una memoria prodigiosa, come pure di una vasta biblioteca personale, lega indissolubilmente la sua memoria a figure come quella di Aristotele e di Petrarca, le cui opere dimostra di conoscere dettagliatamente, per effettuarne una critica rigorosa ed originale. Fra i suoi scritti va ricordato anche un rigoroso commento ai "Frammenti" di Petrarca (1582). La lettura che ne fa mette in rilievo il carattere quasi "protestante" di quest'ultimo quando scrive satire sul papato di Avignone, citando pure S. Agostino e la Bibbia.

Dopo aver abbandonato gli studi giuridici, si occupa soltanto di quelli letterari ed entra a far parte dell'Accademia modenese (fondata dal medico Giovanni Grillenzoni, allievo di Pietro Pomponazzi). L'Accademia, che riuniva diversi notabili della città, come Filippo Valentini ed il docente universitario Francesco Porto (1511-1581), si riuniva pure per discutere liberamente di teologia e per studiare e commentare la Bibbia nelle lingue originali, cosa molto sospetta ai gestori dell'ortodossia cattolica-romana. La sua indole anticonformista non lo fa esitare a curare la traduzione (nel 1532) dei Loci Communes del luterano Melantone, con il titolo: I principii de la theologia. Queste attività "sospette" dell'Accademia, attirano l'attenzione del cardinale di Modena, Giovanni Gerolamo Morone (assistito da Gasparo Contarini) che inutilmente cerca di moderare per via di compromessi (cosa che attirerà su di lui stesso il sospetto di eresia da parte di Giovan Pietro Carafa, futuro Papa Paolo IV). Costringe i membri dell'Accademia a firmare una dichiarazione di ortodossia cattolica che Castelvetro (suo malgrado) accetta di sottoscrivere, cosa che però non faranno altri che poi abbandoneranno la città.

Una polemica con il poeta Annibal Caro (1507-1566), iniziata con la critica fatta dal Castelvetro ad una delle canzoni di quest'ultimo, diventa una tale questione pubblica da causare (un pretesto, visti i precedenti) la convocazione del Castelvetro a Roma da parte dell'Inquisizione, nel 1556, con Bonifacio e Filippo Valentini e il libraio Antonio Gadaldino. Sparire per un po' da Modena diventa così l'unica soluzione. La successiva traduzione e pubblicazione da parte del Castelvetro di un'altra opera di Melantone ("De Ecclesiae autoritate et de veterum scriptis libellus") toglie ogni dubbio all'Inquisizione che questi sia "un pericoloso eretico" da eliminare ad ogni costo. ll nuovo duca di Ferrara e Modena, Alfonso II (1559-1597), di ben altro avviso rispetto alla tollerante sua madre Renata di Francia, cerca vanamente di farlo processare a Ferrara per eresia. Castelvetro è indeciso se presentarsi comunque di fronte al tribunale. Forse si illude di poter giustificare la sua opera. A togliergli però ogni illusione è il fratello Gian Maria, che lo esorta ad espatriare. Di fatto l'Inquisizione lo condannerà come eretico in contumacia nel 1557 e solo la sua effigie sarà bruciata.

Si nasconde per un po' nella campagna modenese, ma nel 1561 parte per Chiavenna, dove pure riceve la visita del suo allievo Fausto Sozzini e dall'amico Francesco Porto, con il quale procede per Ginevra, dove vive dal 1562 al 1564. A Ginevra è raggiunto dai nipoti Giacomo (1546-1616) e Lelio (1553-1609) Castelvetro, esuli, come lui, per motivi di fede. Giacomo Castelvetro, che era diventato insegnante di italiano di Re Giacomo I di Inghilterra, ritorna a Venezia nel 1597, dove viene arrestato nel 1611 per eresia. I suoi legami internazionali riescono a farlo rilasciare. Il fratello minore Lelio è però processato e successivamente bruciato come eretico a Mantova nel 1609.

Castelvetro vive così in Francia (a Lione) e a Vienna, dove pubblica, nel 1570. la sua opera sulla Poetica di Aristotele: La poetica di Aristotele vulgarizzata. Sebbene talvolta in errore nel trasmettere le idee di Aristotele, La poetica diventa molto influente nella storia del dramma e della critica. Egli chiarifica la distinzione fra retorica e poetica e difende la poesia come piacere estetico soltanto, opponendosi all'idea che la poesia debba pure istruire. Un'altra nozione critica sulla quale Castelvetro prende posizione è con il concetto platonico che i poeti siamo posseduti da una sorta divina di follia. Castelvetro afferma che non si tratti che di un mito perpetuato dalle masse ignoranti e dai poeti stessi.

Il Castelvetro può essere pure considerato uno dei maggiori studiosi e critici del '500 di Dante (notevole è un commentario alla Divina Commedia).

La sua figura ed opera ha diviso per lungo tempo umanisti, storici, critici letterari ed amanti del classicismo. L'impressione che dava di superbia e pedanteria, l'uso sistematico di sofismi e la sua propensione alla lite, come pure l'eccessiva severità dei suoi giudizi, riuscivano ad innervosire parecchi suoi uditori e lettori. Alcuni studiosi, come Ludovico Antonio Muratori (1672-1750), pure di Modena, difende le sue idee sulla libertà del comune che si oppone all'arroganza dei potenti con la sola forza della conoscenza e del ragionamento.

Tra le sue opere anche una grammatica storica e sistematica. Interviene nella questione della lingua con "Giunte alle Prose della volgar lingua" (1549-63) in cui dimostra come la lingua italiana derivi direttamente dalla latina, ponendo i criteri storici della grammatica normativa e che può essere considerata un seguito dell'opera di Pietro Bembo (1470-1547).

Muore a Chiavenna il 21 febbraio 1571, sottoposta allora ai Grigioni, dove trova libertà e tolleranza, il più vicino possibile alla sua amata Italia. Addolorato per la morte dell'amico, Fausto Sozzini scrive, in suo onore, un sonetto, in cui dichiara che Ludovico Castelvetro gli aveva chiaramente mostrato la via da seguire: l'esilio in terra protestante e la palese professione di fede.

Bibliografia