3° Giorno

Mercoledì 30 Aprile 2003

Da VILLAFRANCA del BIERZO a O CEBREIRO,

Km. 12 circa

(Mancano Km. 153)

Mi sveglio e butto tutto nello zaino come viene; mi vesto benino, tanto non devo camminare, e scendo per la colazione, ma alle 8,15 il ristorante non è ancora aperto. Nell’attesa risalgo in camera, e mi accorgo che, scendendo e salendo le scale, non sento più male. Merito del cerotto, dell’Aulin o di Santiago? Fatto sta che cambio idea. Tiro fuori una borsa sottile che porto per i souvenirs e divido lo zaino in due, cambio disposizione a quanto mi serve nel Cammino ed a quanto posso fare a meno. In un batter d’occhio ho preso la mia decisione, ritorno giù per la colazione e trovo Gius e Blas che mi salutano. Dico che vado avanti ed allora mi baciano con commozione.

Alle 9 sono pronta per camminare. Non oso però rischiare di fare tutti i 30 chilometri che mi porterebbero al O Cebreiro, anche perché circa 17 sono su strada statale trafficatissima, e gli ultimi 13 sono tutti in salita, prima di arrivare ai 1290 metri della meta odierna.

Attendo quindi il taxi, decisa a farmi portare un po’ avanti, per evitare la carretera. Il taxi arriva quasi puntuale ed un ragazzotto in carne, dai capelli lunghi e dall’orecchino ammiccante, carica i miei numerosi bagagli nella sua macchina. Gli chiedo di lasciarmi a Vega de Valcarce e di portare la mia bolsa a destinazione.

Lui è raffreddatissimo ed in epoca di polmonite atipica, non sono così felice: se mi ammalo, come farò a proseguire? Ma me ne dimentico subito, ci penserà Santiago! Comunque, come al mio solito, (ma non mi succede in Patria, dove sono alquanto riservata), inizio una intensa conversazione, la quale mi porta a conoscere Fernandez che è sposato, con una bimba di 3 anni, ma cosa più importante, mi dice che l’enorme costo del taxi è perché il trasporto riguarda una sola persona. Spesso fa il giro con più mochilas che ritira al Rifugio ed allora il costo, ovviamente, viene diviso in proporzione al numero.

Ma quest’anno, come avevo presupposto, ci sono pochi Pellegrini. Ne aspettavano molti, ma il prossimo anno è giubilare, per cui molti avranno rimandato la loro partenza. Di Italiani non ce ne sono, perché vengono per lo più in luglio ed agosto, per cui sono, non solo l’unica italiana e donna, ma anche l’unica Pellegrina che ha bisogno del taxi e per giunta dall’albergo. Pertanto da tutto ciò arguisco che parlare di sconti, non è neanche il caso.

Il tassista mi racconta (ed intanto mi accorgo) che hanno costruito una superstrada, per cui il traffico sulla statale è quasi inesistente e per giunta hanno allargato la carretera e creato dei divisori in cemento, fra la strada ed il Cammino, in modo che il Pellegrino sia protetto. Se l’avessi saputo, (ma le mie guide sono di almeno quattro anni fa), avrei potuto dimezzare il percorso in due giorni, anche perché, nel frattempo, sono sorti alcuni piccoli alberghetti nuovi.

I paesi, a quel che vedo, sono graziosissimi con i tetti d’ardesia ed il verde che li circonda. Anche l’enorme sconquasso dei viadotti autostradali, in fondo, non disturba eccessivamente, perché hanno avuto l’accortezza di scurire gli squarci o, forse, è perché la roccia sottostante è grigia e non dà il sentore della lacerazione, come succede da noi con la terra ocra o la pietra chiara. Fatto sta che comunque i Verdi o gli Ecologisti non si danno un granché da fare perché, come vedrò anche più avanti, ma come ho già visto anche in passato, è tutto un costruir di strade e quant’altro.

Il taxi mi lascia a Vega de Valcarce, delizioso paesino, e prosegue con la mia bolsa; intanto inizia a piovere. Trovo una panchina, su cui appoggio la mia mochila ed inizio la vestizione sotto e contro le intemperie. Non è proprio una cosa semplice, cambiare scarpe, sul terreno bagnato, infilarsi le brache antiacqua, aprire la mantella controvento, e sistemarla esattamente sopra lo zaino che, nel frattempo, dovrà essere a sua volta coperto. E invece di un cappello o cappuccio antiacqua, preferisco usare l’ombrello, che protegge la mia superborsetta di tela, creata ad hoc da me, che sistemo allacciata davanti e che mi consente di avere tutto a portata di mano, e di controbilanciare il peso dello zaino.

Un cane incuriosito mi osserva nelle mie innumerevoli operazioni sotto l’acqua, ma per fortuna non ringhia e non abbaia come quelli incontrati ieri; spera, forse, in una qualche gratificazione, ma ricordandomi che, per questi cani, il pane non è la cosa migliore della vita, desisto dal dargli qualche biscotto. Finalmente pronta, ci allontaniamo entrambi, lui cerca riparo, io mi avvio sotto acqua e vento; ma sono ben protetta, emozionata e felice.

Questa tappa è così importante nel Cammino, non solo per la sua difficoltà, ma perché è come aprisse una porta sulla strada di Santiago, qui si entra in Galizia ed è tutto un altro mondo.

Il Cammino è ancora su asfalto, ma poco trafficato, supero Ruitelàn e più avanti abbandono la statale per scendere a Las Herrerias. Il paesino è gradevole, con ponte romano sopra il Valcarce, con resti dell’antica fontana di Don Suero de Quinones (ricordate quello del Ponte dell’onore di Orbigo?), con resti dell’antico Ospedale e quartiere inglese, probabilmente fatto costruire da Enrico II Plantageneto, re d’Inghilterra, che desiderava intraprendere il Pellegrinaggio verso Santiago partendo dall’Aquitania; è l’ultimo prima di affrontare la salita al O Cebreiro. In passato aveva miniere di ferro, a cui deve il nome ed un certo sviluppo.

Prima di attraversare il ponte, vi è un delizioso alberghetto nuovo, con caffè speciale e ragazzetto simpaticissimo, con cui mi fermo a parlare del suo magnifico albergo e che mi rinfranca un po’. Attraverso il paese, particolarmente grigio per l’ardesia e per il tempo e probabilmente in parte disabitato; ma non sono infastidita, anzi è una nuova dimensione del Cammino che mi rinfranca nella sua malinconica attesa.

Molto in alto, due enormi viadotti autostradali sovrastano la valle. Sono impressionanti per l’altezza. Mi sorprendono anche una serie di bottiglie d’acqua legate ad alcune colonne, che subito mi fanno sorridere, ma che mi commuovono quando realizzo la vera carità di chi le ha messe a disposizione dei Pellegrini sfiancati ed accaldati che arrivano fin qui (la famosa fontana è alquanto maltenuta e probabilmente senz’acqua potabile). Certo, con il tempo odierno, le bottiglie sono un po’ superflue, ma in una giornata torrida non basteranno mai le parole per ringraziare.

Proseguo, tutta sola, in salita, per una piccola strada asfaltata fino ad un desvio che scende verso il fiume, per poi risalire in mezzo ai boschi. Il percorso sarebbe gratificante, in una solitudine d’altri tempi ed in mezzo ad un verde incredibile con il canto dell’acqua in fondo alla valle, ma il fango attira tutta la mia attenzione e sebbene oggi io non sia affardellata in modo incredibile, temo di scivolare ad ogni passo, con distorsioni e relative conseguenze. Temo che in caso di necessità dovrò attendere molto tempo prima che qualche Pellegrino sopraggiunga, perché ne ho superati, in macchina, solamente una decina e sono molto lontani da qui. Ogni passo è un’opera di alta acrobazia: infatti o il piede non ti segue perché affonda nel terreno viscido, o si trascina tonnellate di fango che, in ogni caso, ti fanno perdere l’equilibrio.

Il mio ritmo è cauto e tranquillo, non ho fretta, ma mi occorrerà un bel po’ per arrivare in cima, dopo 12 chilometri di salita. Nel buio del sottobosco mi rincuoro pensando che, tanto, gli orsi non ci sono più, non mi risulta ci siano lupi e temo eventualmente i cani randagi, ma ormai anche questi sono così viziati che preferiscono la protezione degli abitanti dei paesi. Si sente solo il rumore dell’acqua e del vento, perché anche gli uccelli preferiscono il tepore dei nidi. Lentamente salgo, spero nelle eriche, ma ci sono solo rare ginestre bianche. Il paesaggio è comunque un po’ “patriottico” (per me italiana) nel senso che vi è il verde intenso dei prati, il rosso ruggine delle felci bruciate dal gelo dell’inverno ed infine il bianco delle ginestre, della nebbia, delle nuvole e delle cime innevate. Nonostante tutta l’umidità che percepisci nelle ossa, (sì perché, sotto tutta questa impermeabilizzazione, scorre un mondo a parte, è il tuo sudore che crea rivoli a sé), questi colori così intensi ti danno vigore e la consapevolezza di nuove vite.

In ogni caso, dopo 3 chilometri, e un’ora e mezza di salita, arrivo a La Faba, piccolo borgo sul crinale della montagna, con una piccola chiesa quasi abbandonata, all’ingresso del paese.

Come premio c’è un delizioso bar tutto nuovo e riscaldato, in tutti i sensi, anche dal sorriso di una giovane. Chiedo informazioni, perché penso di avvalermi della strada statale piuttosto di percorrere nuovamente un sentiero così fangoso, ma mi consigliano il Cammino perché è più corto e perché da qui diventa più bello. Una Pellegrina tedesca della mia età esce, quando io entro: finalmente incontro qualcuno. Mi ristoro, indosso anche il mio supercappellino egiziano poiché sono tutta sudata, testa compresa e temo, con il vento freddo del crinale, di buscarmi un malanno. Quando esco c’è un timido sole, forse per farmi assaporare meglio il nitido di quei colori.

Supero dopo poco la Tedesca che arranca lentamente con due racchette e riprendo il sentiero. Effettivamente è un’altra cosa, con la sabbia hanno ripristinato il tracciato che, tranne in qualche piccola parte, risulta asciutto e ben drenato. Adesso sale, ma non vorticosamente, come nel tratto precedente, anzi l’ascesa è dolce; sono sottovento e l’ombrello resiste meglio, i colori sono magnifici e la vista è a perdita d’occhio.

Ti sembra di essere il padrone del mondo e non manca nulla, o quasi, alla tua felicità. I boschi hanno lasciato spazio ad ampi prati e continui a voltarti per vedere ciò che hai lasciato. Ti sembra incredibile che solo pochi giorni prima eri là in fondo, piccolo piccolo, ed ora sei quasi al cospetto di Dio; poiché qui, in questa solitudine, in questa grandezza, in queste difficoltà c’è Dio e le tue difficoltà non sono niente, anzi sembrano premi che non meriti di fronte a tanta gioia. Sembra quasi che più il gioco diventa pericoloso e difficile, più tu gioisca. Ogni tanto nevica, ma desiste ed io arrivo, prima di quanto pensassi, a Laguna.

Freddo, vento, acqua, neve

trasformano la mia anima.

La mia vanità è pesata come piombo.

La mia docilità trasformata in indomita forza.

Non esiste il tempo delle lacrime,

né la tristezza di solitudini impossibili,

La meta, lì voglio arrivare

Dove il mio cuore esulta

Dove io non mi riconosco,

ma dove so che mi ritroverò migliore.

Un taxi attende i Pellegrini “spompati”, ma io sto bene e naturalmente non sono stanca, ma ho percorso un tratto molto più breve, sebbene faticoso; pertanto supero l’automezzo e mi avvio su per il paese.

Prima di uscire però, tre cani mi vengono incontro ringhiando ed abbaiando; mi ritiro, ho paura e loro lo capiscono. Mi dicono tutti che sono buoni, ma io con loro non ho un grande feeling; nella mia vita sono stata assalita più volte e non è una bella esperienza; e poi qui sono in tre, due pastori ed un bastardino piccolo, che si avvicina ed abbaia di più; come al solito i piccoli sono i più coraggiosi. Chiamo, urlo, aspetto che sopraggiunga qualche Pellegrino, ma niente da fare. Attendo un quarto d’ora, poi mi arrendo. Torno un po’ indietro alla ricerca di un bastone. Trovo qualche fascina di vecchi rami marciti e ne estraggo uno. Devo stare attenta a non toccarlo perché è fragilissimo e si rompe subito, ma spero che i cani non se ne accorgano.

Impugno con la destra questo pseudo bastone e con l’ombrello mi faccio scudo davanti, anziché sulla testa, in modo da non vedere nulla ed avanzo. Sembro Don Camillo con la croce di traverso, ma funziona. Tutto tace, i cani mi lasciano passare, anche perché adesso piove a dirotto. Superato l’empasse, procedo velocemente.

Le segnalazioni da Ponferrada a qui non sono state molte e spesso ho dovuto chiedere informazioni per seguire esattamente il Cammino, ma da qui, dal Mojòn del Km. 152,5 (pietra miliare) che segnala il confine fra il Leonese e la Galizia ci sarà una pietra ogni mezzo chilometro, per indicare quanto manca all’arrivo. Questo ti tranquillizza e ti dice che stai macinando metri, anche se talvolta, specialmente a fine tappa, sembra che il mojòn successivo non arrivi mai.

E finalmente un alto e lungo muro di contenimento mi dice che sto arrivando, anche se il paese non si vede. Ma è lì, arrivo subito ed è una delizia. O Cebreiro è piccolo piccolo, recintato ed intatto, rimasto come in tempi antichi. Sembra una visione che affiora fra la nebbia e l’acqua. Le case sono tutte di pietra con il tetto d’ardesia ed il fumo esce dagli alti comignoli. Vi sono anche alcune vecchie Pallozas: abitazioni preistoriche rotonde, con il tetto di paglia di segale. Adesso non sono più abitate da pastori o contadini ma sono state adibite a museo etnico.

Quando arrivo, stanca e trafelata, mi dirigo proprio qui ed entro a chiedere informazioni. Sono stranamente aperte perché alcuni gruppi turistici, giunti con pullman, le stanno visitando. Io chiedo solo informazioni sul mio albergo, che è proprio lì di fronte, ma tanto lontano non poteva essere, e mi dispiace di non essermi fermata a visitare il museo che nel pomeriggio è chiuso. Averlo saputo!

L’albergo, Hospederia San Giraldo de Aurillac, è stato ricavato dal vecchio parroco nel 1966, restaurando quello che era rimasto del vecchio Hospital fondato nel lontano 836, all’epoca dei primi pellegrinaggi. Fu successivamente affidato, e migliorato, per volere di Alfonso VI nel 1072, ai monaci di Cluny dell’abbazia di San Giraldo. Passò successivamente ai Benedettini che lo tennero fino alla confisca dei beni della chiesa, avvenuta nel 1854.

La chiesa del paesino, preromanica, dedicata a Santa Maria la Real, conserva una preziosa immagine del XII secolo della Vergine omonima. La costruzione è particolare e fu edificata nel IX secolo. Piccola ma in pietra, con mura e campanile possenti per resistere alle intemperie, ha tre navate e l’abside rettangolare. Come tutto il paese ti coinvolge emotivamente, anche perché è legata ad un miracolo dal quale lo stesso Wagner trasse ispirazione per il suo Parsifal.

Nel XIV secolo un contadino de Barxamaior salì, in piena tempesta di neve, a O Cebreiro per ascoltare la Messa, ed il parroco, poco motivato, rise in cuor suo per questo inutile sacrificio. Ma, al momento della consacrazione, l’ostia ed il vino diventarono carne e sangue di Cristo, facendolo trasalire. Entrambi i protagonisti dell’accaduto sono sepolti vicini nella Chiesa ed il calice e la patena conservati ed esposti in una teca.

Non solo, si narra anche che nel 1488, Isabella la Cattolica, di ritorno da un pellegrinaggio, volle portare con sé il calice del miracolo, ma i cavalli si rifiutarono di proseguire oltre Pereje (paesino vicino a Villafranca). Interpretandolo come un segno divino, Isabella riportò il calice al Cebreiro.

Entro nell’antico edificio e mi ritrovo subito in camera, dove mi aspetta la mia borsa. L’ambiente è un po’ spartano, perché hanno ricavato un bagno mignon senza sfiati nella stanza stessa, e stanza e bagno avrebbero bisogno di molti interventi. Inoltre, vi è un letto grandissimo piazzato davanti alla finestra, che la rende inaccessibile sia per arieggiare che per illuminare. Il letto che occupa pressoché tutta la stanza, non è proprio matrimoniale, ma è esagerato per una persona sola (nei momenti di punta accoglierà più persone).

Lavo tutta la mia ropa che distendo qua e là, ma con molta difficoltà, dato lo spazio esiguo. Tiro fili, appendo sul lampadario perché, oltre al bucato odierno, ho quello che non ho asciugato ieri, ed in più impermeabili vari e pantaloni zuppi di sudore. Insomma quasi una tragedia!

Poiché sembra che rischiari, esco alla ricerca di un po’ di calore e luce. Sono le 16 e mi avvicino ad una delle due strade che circondano il paese. È quella che guarda la valle da cui sono arrivata mentre l’altra dà sulla vallata che percorrerò domani. Proprio in quel momento sotto un sole accecante, che però dura pochissimo, vedo arrivare insieme i miei quattro amici, i due uomini e le due ragazze. Non descrivo gli abbracci, la commozione e le lacrime. Sembrava che non ci vedessimo da secoli e che fossimo amici da sempre! Loro il percorso però l’avevano fatto tutto ed io mi vergogno per come ho semplificato la giornata, sebbene avessi molte attenuanti.

Contemplo le montagne e le valli in tutte le direzioni ed il cuore mi salta in gola; quanta emozione e quanta gioia!

Poi giro un po’ per il villaggio e mi procuro un bastone in castagno alquanto speciale, tant’è che nelle tappe successive tutti lo ammirano e lo vogliono; c’è molto freddo e ricomincia a piovere ed a nevicare. Telefono a casa, ma come faccio a raccontare tutte queste meraviglie in pochi minuti? Loro mi tranquillizzano, od almeno sperano, perché ovviamente non mi raccontano le loro difficoltà.

Mi fermo allo pseudobar dell’albergo. La Tedesca che ho superato per strada entra adesso per chiedere informazioni sulla cena, poiché qui non ha trovato posto per dormire ed è molto dispiaciuta. Resto al bar a scrivere il mio diario, considerando che c’è più caldo qui rispetto alla mia stanza, ma non molto. Al mio tavolo si siedono anche quattro vecchiotte del luogo (una, come vedrò dopo, è la cuoca) che bevono e chiacchierano animatamente, ma in gagliego, perciò non capisco proprio niente.

È un altro mondo, ma la musica celtica del sottofondo (un negozietto di souvernir, lì di fronte, la emette in continuazione) mi è familiare, sembra irlandese e tanto per cambiare mi vien voglia di ballare. Arriva l’ora di cena, servita su lunghi tavoloni, tutti insieme, e si può iniziare alle 19,30, cosa assai rara e cosa che io faccio subito. Non c’è ancora nessuno, ma mi raggiunge la Tedesca. Il dialogo però è difficile, perché il mio tedesco risale alle elementari e con tutte le lingue che sono seguite dopo, alla fine non ricordo nulla, solo il mio “perfetto spagnolo”.

Anne comunque viene da Augsburg, bellissima città, ed ha intrapreso il Cammino attirata da un suo viaggio turistico, di qualche anno prima, fatto in pullman. È in Spagna da oltre due mesi ed è partita da Roncisvalle; però riesce a percorrere solo una decina di chilometri al giorno. Pertanto, alla fine, ci salutiamo calorosamente perché non ci vedremo più.

L’aiuto nella scelta del menù, che per me è un caldo di cochido molto opaco e unto (brodo di carne) con spaghetti spezzati e stracotti. Subito ha uno strano sapore di stalla, (lo attribuisco alla probabile carne di montone), ma dopo un po’ mi abituo al gusto ed il caldo, dopo tanto freddo, fa il resto. Mi servo addirittura una seconda volta. Seguono una bistecca e patate fritte, anzi unte ed il solito flan; però mi servono un bicchiere di vino Ribeiro, caratteristico della zona e casalingo, ci tiene ad informarmi il padrone, un giovanotto in carne, dall’aria bonaria, con moglie portoghese e madre cuoca, però un po’ “alticcia”. Pur essendo il vino alquanto torbido, lo apprezzo molto e ne chiedo ancora. Spero mi riscaldi, perché di termosifone non ne sentirò neppure l’idea. Questo Ribeiro mi è rimasto nel cuore ed in tutto il mio pellegrinare lo ho sempre chiesto, anche a Madrid.

Pago il conto, mi faccio riservare l’albergo dell’indomani e risalgo in camera. (Costo pernottamento € 30 e € 8 per la cena) Un po’ tanto per la stanza così fredda e così degradata, ma lungo la scala ci sono alcuni decori sacri e antichi di notevole valore, resti dell’antico convento-ospedale, e questo, infine, è l’unico migliore albergo possibile. La notte non riesco a dormire per il gran freddo e perché un cane, proprio sotto la mia finestra, continua ad abbaiare, probabilmente per difendere il suo territorio dagli importuni. Io leggo ed attendo la calma.

Solo alle 3,30 qualcuno interviene, lo richiama e lo rinchiude, ma ormai è quasi mattina. Riesco a dormire un paio d’ore, ma poi le sveglie di tutte le camere iniziano a suonare. I Pellegrini si alzano presto per arrivare presto e trovare posto nei Rifugi, che non si possono prenotare; e se non trovano posto, devono ricorrere agli alberghi con costi diversi, come oggi.

A questo punto mi alzo anch’io, raduno la mia ropa, ma nella stanza si va in barca per l’umidità. Tant’è che, infilandomi l’orologio, lo sento addirittura bagnato e sono costretta a ricorrere ai miei pantaloni eleganti per la tappa odierna. Quelli di ieri, insieme a tutto il resto, sono zuppi. E non posso pensare di appendere la biancheria all’esterno dello zaino per l’asciugatura, perché è moltissima e perché ogni tanto piove. E così parto con ancora più peso per la biancheria bagnata. Pazienza!