Modern Drummer Legends: Neil Peart
The First Moder Drummer Cover Story (April -May 1980)
traduzione a cura di Stefania Sarre
Aprile-maggio 1980
La prima copertina di MD.
“Abbiamo inseguito l’intervista a Neil Peart per molti mesi” racconta Ron Spagnardi, fondatore di Modern Drummer nell’editoriale in accompagnamento alla prima cover story di MD di Neil Peart. “Un artista talentuoso e dogmatico” continua Spagnardi riguardo al batterista ventisettenne, “Neil non si fa impressionare dall’adulazione dei fan e adotta una filosofia rivelatrice della serietà con la quale vede il suo modo di suonare la batteria”. In questa affascinante intervista, Neil, ancora agli inizi della propria carriera, tocca delle tematiche che sarebbero ritornate nelle successive conversazioni con lui ma rivela una certa ingenuità, che sarebbe poi scomparsa negli anni a venire nel percorso di trasformazione nel “professore” conosciuto e amato dai propri fan.
Intervista di Cheech Iero
MD: Ti piacciono i programmi frenetici che si seguono in tour?
Neil: Secondo me è l’ambiente naturale di un musicista. Non intendo dire che sia sempre bello, ma non è neanche così orribile. Come in ogni altra cosa, credo che sia uno stile di vita più estremo. Le ricompense sono maggiori ma anche i lati negativi sono molto più negativi. Credo che funzioni come la legge di polarità che segue quasi tutte le estrazioni sociali. Più grande è la realizzazione che cerchi, più grande sarà l’agonia che dovrai affrontare.
MD: Durante il soundcheck, oltre ad essere un’occasione per trovare i suoni giusti, avete anche l’opportunità di riscaldarvi e allenarvi un po’.
Neil: Beh, il soundcheck è buon momento per allenarsi e provare nuove idee, perché non c’è pressione. Se sbagli qualcosa, non importa. Ma sono anche un po’ audace durante i live. Provo qualcosa di nuovo, tento la fortuna. Il più delle volte suono al di sopra delle mie possibilità, corro dei rischi. Ogni giorno è come fare delle prove. Suoniamo veramente tanto e suonando una determinata struttura musicale tutte le sere, si arriva al punto da avere abbastanza dimestichezza per sentirsi tranquillo a sperimentare. Se la canzone comincia a diventare un po’ monotona, trovo un fill carino che le darà una bella rinfrescata generale.
MD: La rinfrescherà anche per il resto del gruppo?
Neil: Certamente, per tutti noi. Tutti quanti mettiamo del nostro ogni tanto, aggiungiamo un po’ di pepe. Magari il pubblico non se ne renderà mai conto, ma deve esserci quel qualcosa che da una marcia in più per noi. Da quel momento in poi, per me, quell’intera canzone condurrà a quel punto specifico e non sarà più monotona.
MD: Come sei entrato a far parte dei Rush?
Neil: La solita concatenazione di eventi e circostanze. Venivo da una città che dista circa un centinaio di chilometri da Toronto. Alcuni musicisti della mia zona si trasferirono a Toronto e stavano lavorando con delle band di quelle parti quando mi consigliarono come batterista attinente al loro stile. Penso che avessero provato altri batteristi prima di me, ma scattò subito quel non so che da entrambe le parti. Ci fu una forte empatia musicale sin da subito sulle nuove idee alle quali stavano lavorando e su cose che avevo in mente musicalmente parlando. Inoltre avevamo molte cose in comune anche al di fuori della musica.
MD: Dove ti ha portato questo tour?
Neil: Beh, in realtà non è un vero e proprio tour. Per quel che ci riguarda la maggior parte dei nostri tour dura almeno 10 mesi. Questo dura tre o quattro settimane. Per noi si tratta di un “riscaldamento”. Siamo riusciti a staccare per un paio di mesi. Ci siamo presi due settimane di vacanza e poi abbiamo passato sei settimane a provare e scrivere il nuovo materiale. Dopo questa pausa avevamo bisogno di tornare sul palco. L’unico posto dove puoi rimetterti veramente in forma. Le prove ti fanno suonare bene e ti permettono di ricordare le idee, imparare le canzoni e cose del genere. Ma per quel che riguarda il lato fisico, il sentirti al meglio delle tue performance, puoi provarlo solamente quando sei in tour.
MD: Questo è un riscaldamento per che cosa?
Neil: Per lo studio di registrazione.
MD: In quale studio registrerete?
Neil: Andremo a Le Studio a Montreal. Registreremo lì e mixeremo al Trident a Londra.
MD: Quando i membri dei Rush compongono un brano musicale, la struttura musicale viene determinata dai riscontri che ricevete l’uno dall’altro?
Neil: Sì, in gran parte è così. Dipende da come ci arriviamo. Spesso Alex e Geddy hanno un’idea musicale, magari individualmente. La portano in studio e ce la passiamo l’uno con l’altro per vedere che cosa ci piace, se la troviamo stimolante e poi ci facciamo un’idea dell’umore che dovrebbe trasmettere a parole, quale ambientazione dovrebbe avere. Se partiamo da un testo per il quale stiamo cercando la musica, discutiamo del mood musicale che vogliamo creare, quale tipo di capacità compositive dovremmo mettere in campo per influenzarlo a livello emotivo. Tutti e tre cerchiamo di basarci sullo stesso sentimento di come dovrebbe essere la canzone. Poi entrano in gioco le competenze tecniche per cercare di interpretarlo correttamente e raggiungere il risultato che ti aspettavi.
MD: Il tuo ruolo di compositore dei testi ha generato un ampio consenso. Come hai sviluppato questo talento particolare?
Neil: Beh, è difficile da dire. Ci sono arrivato per mancanza di alternative, solamente perché gli altri due non volevano scrivere i testi! Mi sono sempre piaciute le parole. Mi è sempre piaciuto leggere, quindi ci ho dato dentro. Mi piace farlo e quando lo faccio cerco sempre di dare il massimo. È qualcosa di marginale, al quale non do molta importanza. Molte volte pensi a un’idea per un testo come un buon veicolo musicale. Penso ad un’immagine o sento una certa metafora molto suggestiva. Una bella immagine verbale è un ottimo spunto musicale. Se riesco a trovare una buona immagine a livello lirico, posso girarla agli altri due ragazzi e, in automatico, dare loro l’approccio musicale.
MD: Mi viene subito in mente il vostro brano tratto da Hemispheres “The Trees”.
Neil: A livello lirico lo definirei una poesia da poco. Non mi sentirei sicuramente orgoglioso delle competenze di scrittura impiegate per quel testo; la cosa di cui mi sentirei orgoglioso invece è quella di aver trasformato una pura idea in un’immagine. Sono molto orgoglioso del risultato ottenuto in quel senso. Sebbene le competenze impiegate equivalgano a zero. Ho scritto “The Trees” in cinque minuti. Sono semplici rime e frasi, ma illustrano in maniera molto chiara un punto di vista. Mi piacerebbe sempre riuscirci in questo modo.
MD: Il testo di questo pezzo voleva incorporare un messaggio sociale più profondo?
Neil: No, è stato come un lampo. Stavo lavorando ad una cosa completamente diversa quando ho visto un cartone con questi alberi che si comportavano da scemi e ho pensato: “Pensa se gli alberi si comportassero come delle persone?” Così l’ho immaginata proprio come un cartone e l’ho scritta in quel modo. Penso che sia un tipo di immagine che evochi qualcosa in un ascoltatore o in un lettore. Un’affermazione molto semplice.
MD: Tutti i tuoi testi seguono questa linea di pensiero o hai espresso concetti più filosofici in altre canzoni che hai scritto?
Neil: Di solito il mio intento è quello di creare una bella immagine, oppure ci possono essere motivazioni musicali dietro al testo. Voglio solo che il testo sia una bella parte della musica. Molte volte quando cerco di mandare un messaggio forte, cerco un buon modo per dirlo con la musica. La semplicità della tecnica in “The Trees” non mi interessa. Può capitare lo stesso con la musica. Possiamo scrivere un pezzo semplice e sentirci lo stesso alla grande. Non è rilevante il solo lato tecnico, specialmente da un punto di vista di ascolto. Quando ascolto le altre persone suonare, non mi soffermo su quanto sia complicata la loro musica da suonare, mi soffermo su quanto sia bella da ascoltare.
MD: Che cosa ricerchi quando ascolti gli altri batteristi?
Neil: Ascolto quello che hanno da dire. Ci sono diversi tipi di drumming che mi esaltano. Possono essere cose semplici; non penso che il mio stile rifletta il mio gusto personale. Ci sono diversi batteristi che mi piacciono il cui modo di suonare non si avvicina per nulla al mio. C’è questa band dal nome Police e il loro batterista suona con semplicità ma con così tanto gusto. È grandioso, ha un approccio nuovo.
MD: Chi troviamo tra i tuoi batteristi preferiti?
Neil: Ne ho molti. Bill Bruford è uno di loro. Lo ammiro per diverse ragioni, mi piacciono le cose che suona e come le suona. Mi piace la musica che suona nelle diverse band con le quali ha collaborato. Esistono diversi batteristi ai quali mi sono ispirato nei vari gradi delle mie abilità, iniziando da Keith Moon. È stato uno dei miei mentori preferiti. È difficile decidere quali batteristi ti abbiano insegnato che cosa. Sicuramente Moon mi ha regalato una nuova idea di libertà e [la consapevolezza] che non c’era bisogno di essere dei fondamentalisti. Mi piaceva il suo modo di inserire i piatti crash nel bel mezzo di una rullata. Più avanti ho acquisito uno stile più disciplinato, progredendo con le conoscenze e la tecnica. Persone come Carl Palmer, Phil Collins, Michael Giles – il primo batterista dei King Crimson – e ovviamente Bill, tutti mi hanno influenzato. C’è questo ragazzo che si chiama Kevin Ellman che ha suonato per un po’ con i Todd Rundgren’s Utopia. Non ho idea di che cosa gli sia successo. È stato il primo che io abbia mai sentito ad utilizzare i concert toms. Nick Mason dei Pink Floyd ha uno stile diverso, molto semplice ma allo stesso tempo ha moltissimo gusto. Sempre la cosa giusta al momento giusto. I concert tom li ho sentiti prima da Mason, poi da Kevin Ellman, e lui li suonava con tutta la forza. Impari molte cose prendendo spunti di qua e di là. Diversi batteristi con i quali lavoriamo… Tommy Aldridge della Pat Travers Band è un batterista molto bravo. Dovrei fare una lista dei batteristi che ammiro.
MD: Segui qualche batterista jazz?
Neil: Ho trovato più facile relazionarmi con i cosiddetti batteristi fusion, in realtà. Mi piace se sono contaminati dal rock. Penso che Heavy Weather dei Weather Report sia uno dei migliori album di jazz degli ultimi anni. Di solito i virtuosismi tecnici mi lasciano completamente indifferente, sebbene da un punto di vista scolastico mi ispirino. Ma quella band ha emozionato in tutti i modi. Erano esaltanti e ottimi musicisti, ascoltavo con molto piacere le loro canzoni. È stata una band importante e hanno influenzato molto il mio modo di pensare.
MD: Che cosa ti ha spinto verso la batteria?
Neil: Un insieme di circostanze. Mi piacerebbe scrivere una storia di come tutto è successo. Ero solito andare in giro per casa colpendo cose e prendere bacchette e tamburellare sul box di mia sorella. Per il mio tredicesimo compleanno i miei genitori mi regalarono delle lezioni di batteria. Avevo già frequentato delle lezioni di pianoforte qualche anno prima però non mi piacquero granché, ma la batteria, in qualche modo, colse la mia attenzione. Arrivai ad un certo punto ad essere stufo delle lezioni però non ero stufo di suonare. Era qualcosa che desideravo fare ogni giorno. Non era un sacrificio e neanche un’agonia. Puro piacere. Tutti i giorni, appena tornavo da scuola, suonavo insieme alla radio.
MD: Chi è stato il tuo primo insegnante di batteria?
Neil: Presi lezioni per poco tempo, circa un anno e mezzo. Il suo nome era Paul, non ricordo il cognome. Mi indirizzò bene e mi incoraggiò molto. Non dimenticherò mai quando mi disse che tra tutti i suoi studenti, solamente due sarebbero diventati dei batteristi secondo lui. Io ero uno dei due. Questo fu il primo incoraggiamento che ricevetti e fu molto importante. Qualcuno che ti dica: “Ce la puoi fare”, ma al tempo stesso che ti mostri quanto è difficile farlo. Sebbene non fossi capace di suonare certe cose in quel periodo, mi mostrava tutti i rudimenti più complicati e appariscenti – incroci di mano doppi e cose del genere. Anche dopo aver smesso di andare a lezione, quelle cose mi rimasero in testa e ci lavorai su e finalmente imparai a fare il doppio incrocio di mani. Mi ricordo ancora di aver pensato a quanto sarebbe stato orgoglioso di me il mio insegnante.
MD: Hai studiato percussioni con altri insegnanti?
Neil: Beh, relativamente. Mi considero ancora uno studente. Tutte le volte che suono o ascolto gli altri batteristi imparo molto. Sto ancora imparando. Siamo tutti dei principianti. Mi piace molto l’album [L] di Lol Creme e Kevin Godley. Il titolo richiama la L del Learner’s Permit (ndt come la nostra P di principiante). E quell’album è a un livello superiore rispetto a ciò che stanno facendo altri eppure stanno ancora imparando. Li ammiro molto.
MD: Ti eri prefissato degli obiettivi durante la tua crescita?
Neil: I miei obiettivi erano molto modesti al tempo. Entravo in una band e il sogno più grande era quello di suonare in un liceo. In fin dei conti ogni città ha un luogo “in” dove suonano tutte le band più “fiche”. Sognavo di suonare in quei posti, non più in grande. Ogni obiettivo prefissato e raggiunto veniva sostituito con degli altri. Raggiungevo un obiettivo e non significava più nulla. A Toronto c’è la Massey Hall, un centro da 4000 posti. Pensavo che suonare lì sarebbe stato il massimo. Ma una volta raggiunto l’obiettivo, ti preoccupi d’altro. Quando siamo riusciti a suonare lì, stavamo per fare uscire un album e dovevamo pensare a quello.
MD: La tua mente viaggia sempre un passo più avanti rispetto a quello che stai svolgendo nel presente.
Neil: Sì. Credo che sia insito nella natura umana non essere soddisfatto di quello che sognavi in origine. Qualsiasi cosa sogni se la raggiungi non ha più significato. Deve esserci qualcosa pronto a rimpiazzarlo.
MD: Descrivi le tue emozioni di quando sali sul palco e ti trovi di fronte un pubblico di 35000 fans urlanti.
Neil: Nessuna persona vera si sentirà toccata dai soli applausi di 35000 persone diretti a lui. Se vado di fronte a 35000 persone e suono molto bene, beh, è quello il momento in cui mi sento soddisfatto una volta sceso dal palco. Sono felice perché quei 35000 erano esaltati. Se fossi di fronte ad un grande pubblico ma suonassi male, non riuscirei a non essere depresso. Se scendo dal palco sapendo di non aver suonato bene, non mi sento bene. Non vedo perché dovrei cambiare questa sensazione. L’adulazione non significa nulla se non c’è rispetto per se stessi.
MD: Ho come l’impressione che tu debba prima soddisfare te stesso.
Neil: Non ho mai incontrato un musicista serio che non fosse il peggior critico di se stesso. Se scendo dal palco e la gente pensa che io abbia suonato bene e magari suona anche bene nella registrazione, ma io so di non aver suonato come dovevo, nulla mi farà cambiare idea.
MD: Credi che ci siano determinati elementi che contribuiscono alla riuscita di una serata?
Neil: Non penso che ci sia nulla di mistico. Credo sia una questione di polarità. Io cerco molte connessioni. Trovo che certe sere siano magiche, tutta la band è felice di come ha suonato, il pubblico è ricettivo e c’è una bella risposta che si sposta da noi a loro e viceversa. Quella è la situazione ideale. Quel tipo di show succede cinque o sei volte in un tour di duecento date. Tutti gli altri si misurano su questi elementi. La nostra media è buona. Ormai non facciamo più brutti concerti. Abbiamo raggiunto un livello che ci permette di suonare bene e, anche quando non va bene, lo spettacolo sarà comunque buono. Penso che Somerset Maugham abbiamo affermato che “una persona mediocre è sempre al suo meglio” ed è vero. Puoi suonare al meglio una sera, ma non potrà essere sempre così tutte le sere. Per quel che riguarda le mie esperienze, non ho mai trovato un musicista che fosse sempre al massimo. Io no. Alcune sere vado bene, altre no. Alcune sere penso di far schifo. Credo che si tratti di avere consapevolezza di quelle che dovrebbero essere le proprie capacità in maniera onesta e riconoscere se sei stato alla loro altezza. Non ci sono segreti a riguardo, in cuor tuo lo sai.
MD: Quale tipo di bacchette utilizzi?
Neil: Di solito bacchette leggere. Suono con il fondo della bacchetta da che ho memoria. Mi da l’impatto che desidero. Quando devo suonare qualcosa di delicato tengo l’impugnatura a mani pari tenendo la testa delle bacchette.
MD: Quindi utilizzi sia l’impugnatura a mani pari sia quella tradizionale a seconda dell’andamento musicale?
Neil: Sì, entrambe. Uso la tradizionale quando devo suonare qualcosa di elementare perché ho imparato così. Non è il miglior modo per farlo. Non lo consiglierei a chi sta imparando a suonare adesso. Ho visto molti batteristi suonare un rullo pressato con l’impugnatura a mani pari.
MD: Perché copri con così tanto nastro il battente della grancassa?
Neil: Questo è un bel trucchetto che anche altri batteristi dovrebbero conoscere. Rompo la testa di molti battenti perché tutto il mio peso viene scaricato sui pedali. Lo rompo sempre dove la parte in feltro del battente si collega all’asta e l’asta penetra la pelle. Se metti del nastro adesivo, non spaccherai mai la grancassa. In effetti riesco a suonare ancora metà canzone se devo, fino al cambio del battente. La cosa peggiore che possa capitare durante un concerto è che la grancassa si rompa. Tutto il resto si può cambiare o riattrezzare in qualche modo, ma se rompi la grancassa, il concerto si deve fermare. Una volta mi dovetti fermare nel bel mezzo delle registrazioni del Don Kirshner’s Rock Show perché la grancassa si ruppe. Ci fermammo e la sistemai. Si può fare solamente così ma non mi succede più, grazie a quell’idea e perché [il tecnico di batteria] Larry [Allen] controlla le pelli e le cambia.
MD: Chi ti microfona la batteria?
Neil: Il nostro tecnico del suono, Ian [Grandy], sceglie i microfoni e li posiziona.
MD: Hai il mix nel tuo monitor durante i live, giusto?
Neil: Sì, Larry fa il mix. C’è la batteria in un mix separato perché abbiamo i monitor frontali.
MD: I monitor di sinistra e di destra ti inoltrano solamente la batteria?
Neil: Sì, da lì sento solo me stesso. I monitor frontali mi inviano i sintetizzatori e le voci, mentre basso e chitarra sono proprio vicino a me. Ho solo due persone che suonano con me; in quel senso mi ritengo fortunato, non ho bisogno di averli nel monitor. Ho gli strumenti direttamente nelle orecchie che per me è la cosa migliore. Preferisco così invece di dover sclerare con i monitor; le cose di cui hanno bisogno i ragazzi nei loro monitor mi arrivano indirettamente perché sono puntati verso di loro, quindi le sento anche io. So che ci sono molti batteristi che preferiscono avere l’intero mix nei monitor e in alcuni casi ne hanno proprio bisogno.
MD: Hai mai indossato le cuffie durante un live?
Neil: No, non proprio, perché mi cadono. Ho persino avuto problemi ad indossarle in studio. Dovevo usare delle tecniche strambe per non farmi intralciare dal cavo. Non ne vale la pena, mi piace sentire il suono naturale.
MD: Raccontaci il tuo pensiero sulle accordature.
Neil: I concert toms si spiegano da soli. So la nota che voglio ottenere e li tendo di conseguenza.
MD: Usi un accordatore, scegli la nota dalla tastiera o canti la nota che vuoi raggiungere?
Neil: È da un po’ di anni che uso la stessa misura di tamburo e so il suono che quel tamburo deve produrre. Quando unisci un certo tipo di pelle con una certa misura di tamburo credo che esista una nota ideale che ti darà una maggiore proiezione e la maggior quantità di durata. Con i concert tom mi basta cercare la nota che ho in testa, ho una sorta di scala mentale, so quali devono essere le note. Adesso è diventata una cosa istintiva. Con i tom a doppia pelle, inizio dalle pelli risonanti. Accordo le risonanti fino alla nota che desidero ottenere e poi intono la battente alla risonante.
MD: Quante volte cambi le pelli alla batteria?
Neil: Le pelli dei concert tom suonano bene quando sono nuove di zecca, quindi vengono sostituite in maniera diversa rispetto alle altre. Durano circa un mese in tour. Le pelli Evans Mirror vengono usate per i tom-tom e hanno bisogno di un po’ di tempo per “riscaldarsi”. Ci vuole circa una settimana per rodarle. Non le cambio più di una volta ogni 6 settimane o giù di lì. Dopo qualche tempo, cominciano a perdere il suono. Senti che non producono la nota che dovrebbero, così dici: “mi dispiace farlo, ma devo cambiare le pelli”. Mi piacciono le Black Dots quando sono nuove, le usavo sul rullante e anche le Clear Dots suonano bene quando sono nuove, invece le Evans no, gli ci vuole un po’ di tempo. Con il rullante è stato un supplizio. Penso che succeda alla maggior parte dei batteristi. Un supplizio perché volevo ottenere il suono di rullante che avevo in mente. Ho provato tutti i tipi di rullanti in metallo e non ero soddisfatto, non era il suono che stavo cercando. Poi il mio roadie mi telefona e mi parla di questo rullante Slingerland in legno. Usato. Sessanta dollari. Lo provo. È lui! Tutti gli altri rullanti che avevo provato avevano il suono che si strozzava da qualche parte, o quando li si colpiva piano o quando li si colpiva troppo forte. Questo non si strozza mai. Puoi suonarlo delicatamente o puoi colpirlo a morte, dona sempre un suono molto pulito, nitido. È molto potente, cosa che non mi sarei mai aspettato da un rullante in legno. Ho provato altri tipi di rullanti in legno, il top gamma della Slingerland, ma non ce n’è uno che possa rimpiazzare il mio.
MD: Qual è la finitura del tuo kit?
Neil: Mogano. Lo hanno fatto al Percussion Center di Fort Wayne, in Indiana, dove compro tutti i miei strumenti. Volevo il palissandro. A casa ho dei mobili in palissandro e volevo che avessero l’intensità di quel color borgogna. Hanno provato con diversi tipi di inchiostro, pennarelli rossi, blu e neri per cercare di riprodurre il colore ma è stato difficile.
MD: Che cosa è stato fatto all’interno dei tuoi fusti?
Neil: Tutti gli elementi ad eccezione del rullante hanno un leggero strato di vetroresina. Non distrugge il suono del legno. Sembra che appiattisca certi armonici così non si sentono delle risonanze strane provenire da certi punti della batteria. Il legno non è molto fonoassorbente. Ogni elemento produce la nota per la quale è nato per quel che mi riguarda. Non ci sono interferenze sia nei tom a singola pelle che in quelli a doppia pelle. La nota è pura e facile da ottenere. Posso accordare i vari elementi e, una volta raggiunta la nota giusta, so che il suono sarà quello adatto.
MD: Come mai utilizzi due grancasse della stessa grandezza invece di due grandezze differenti per raggiungere due voci basse diverse?
Neil: Non voglio suoni diversi. Le mie due grancasse servono per i fill. Non mi piace usarle nei ritmi. Mi piace diano un po’ di pepe a un fill o che pongano un certo accento. Molti batteristi dicono che quello che puoi fare con due piedi si può fare con uno, ma non è vero. Posso anticipare un colpo con entrambe le casse. È una cosa che ho imparato da Tommy Aldridge della Pat Travers band. Ha uno stile molto chiaro con la grancassa. Invece di suonare terzine con i tom-tom prima e poi con la gran cassa, che è il modo tradizionale di farlo, lui ha imparato come farlo al contrario, cosicché le grancasse vengono prima.
MD: Quindi dando un effetto flam?
Neil: In un certo senso sì. Da una specie di sensazione di “anticipo”. Mentre suoni in 4/4 e di punto in bianco lo inserisci, spicca subito. Quando lo ascolti sul brano suona strano. Funziona molto bene ed è pratico durante i fill. Magari sei nel mezzo di un fill terzinato e tutto a un tratto lasci il piede per una battuta e lo riporti nella battuta successiva. È divertente. Mi piace interporre le due grancasse anche al charleston. Ci sono un po’ di cose che posso fare quando inserisco una terzina o quartina usando i pedali della grancassa e poi ritorno al charleston. Completo la terzina e nel momento in cui la mano arriva al charleston, il mio piede è già lì. In questo modo sentirete quasi in maniera consecutiva grancassa sinistra e charleston. Se volete fare una rullata veramente potente, non c’è nulla di più potente delle terzine con due grancasse. Potrei sicuramente fare a meno di una grancassa come fa il 99% dei batteristi, però mi mancherebbe di sicuro per dei piccoli ma importanti dettagli.
MD: Sei andato di persona alla Zildjian per scegliere i piatti?
Neil: No, devo ammettere di aver rotto così tanti piatti che sarebbe inutile. Conosco il peso di cui ho bisogno e se ce n’è qualcuno di terribile, lo riporto indietro. Cambio tanti di quei crash perché li colpisco forte e si spaccano, specialmente quello da 16” che è il mio principale e anche quello da 18”.
MD: Dove compri i piatti?
Neil: Al Percussion Center di Fort Wayne. Sono anni che non visito più il loro negozio. La maggior parte dei nostri affari si basa sulle spedizioni che ci fanno o che ci porta direttamente il proprietario, Neal Graham. Mi ha portato la nuova batteria circa un paio di settimane fa. È un uomo pieno di fantasia; se voglio qualcosa di assurdo, sicuramente lui me lo procurerà. Se voglio montare dei crotali sopra le campane tubolari, lui può farlo. Quando gli illustri la tua idea, lui cerca subito un modo per renderla realtà. Non mi ha mai deluso sotto quell’aspetto. Ha costruito lo stand per il mio gong che è montato sul timpano ed è attaccato al porta bacchette.
MD: Mi chiedo, visto e considerato il setup di batteria così vario, come mai non usi strumenti di percussione elettronica?
Neil: Penso che sia un problema di temperamento. Non mi sento a mio agio con cavi e robe elettroniche. Non è una cosa verso la quale provo un’empatia naturale. Non è che non creda che siano interessanti o che non ci sia una vastità di possibilità, ma personalmente mi sento soddisfatto dalla batteria tradizionale. Non ho fiducia nei confronti dell’elettronica e della meccanica, ho già abbastanza cose che mi tengono occupato, veramente. Quando guardo la mia batteria, il setup da 5 elementi è la base di quello che ho. Posso avere centinaia di elementi, ma la maggior parte dei miei pattern e del mio pensiero ruotano attorno al rullante, alle grancasse, charleston e a un paio di tom tom. Ma c’è molto di più oltre a questo. Posso aggiungere molto di più. Non capisco i fondamentalisti o i puristi che guardano il mio kit e dicono: “tutto quello di cui hai bisogno sono 4 elementi”. Mi manda fuori di testa, come se mi guardassero dall’alto al basso dei loro 4 elementi. Io non ho paura di suonare su una batteria da 4 elementi, ma posso fare molto di più per contribuire alla mia band da batterista. Non sono sicuramente un virtuoso delle percussioni a tastiera e non mi aspetto di esserlo. Voglio solo essere un buon batterista in questo momento della mia vita. Otto tom-tom per me sono l’ideale perché posso esprimermi creando diverse variazioni di suono. Così non sentite sempre lo stesso fill tutte le volte o sempre gli stessi pattern. Esistono diverse note e diverse prospettive di percussione. Per me è un’evoluzione naturale. Non riesco a capire chiunque vi si approcci con amarezza o con disapprovazione, perché io non trascuro il mio drumming a causa di quello. Quando non sono occupato a suonare la batteria, ho sempre altro da fare. I ragazzi della band mi mostrano delle note da suonare e io le suono. So che Carl Palmer passa molto tempo sulle percussioni a tastiera e lo ammiro per questo. Sta diventando parecchio bravo. Anche Bill Bruford, perché sta diventando sorprendente bravo. Provo una ammirazione sconfinata. Io passo molto tempo a comporre e suonare la batteria deve essere la forza musicale primaria. Passo molto tempo in mezzo alle parole. Considero queste cose come un’istruzione simultanea mentre affino la mia tecnica batteristica.
MD: Usi i testi come guida per il tuo modo di suonare?
Neil: Non a posteriori. Una volta che ci accordiamo sulla struttura musicale e gli arrangiamenti, diventa una cosa puramente musicale. Ovviamente se c’è un problema nella metrica, potrei dover riscrivere la struttura, ma solitamente mi dimentico del testo e ascolto le voci. L’interpretazione di Geddy diventa uno strumento, in quel modo posso enfatizzare delle voci o incorniciarle musicalmente.
MD: Che cosa pensi degli assoli?
Neil: Opinioni contrastanti. La musicalità dipende dal batterista. Io lo trovo molto soddisfacente. Penso che molti batteristi improvvisino tutto il tempo durante un assolo. Io ho una struttura sulla quale mi baso tutte le sere, una sorta di canovaccio che rimane costante. Se non mi sento abbastanza creativo o in forma, posso semplicemente suonare quella struttura e so che andrà bene. Alcune parti dell’assolo sono lasciate libere per l’improvvisazione, se mi sento abbastanza caldo o se mi viene in mente un’idea spontaneamente, ho molto spazio per sperimentare. Lavoro dall’introduzione, passo attraverso diversi movimenti, inserisco qualche intermezzo per stemperare, poi costruisco un crescendo e finisco in maniera naturale. È un buon assolo. Alcuni “non batteristi” mi hanno detto che è gradevole da ascoltare.
MD: Ti senti di dare qualche consiglio ai giovani batteristi con aspirazioni di suonare in situazioni simili alla tua?
Neil: Una volta ero solito dare consigli, ma più imparavo e più mi rendevo conto che il mio consiglio era basato sulle mie capacità ed esperienze, nessuna delle quali è condivisa da molte altre persone. Io direi loro: “Cercate di raggiungere quello che volete”. Non posso farla più complicata di così. Non mi sento a mio agio nel dire alle persone quello che dovrebbero fare.
MD: Hai mai dato lezioni private?
Neil: No. Mi è stato chiesto di partecipare a delle clinic, cosa che mi interessa ma che un po’ mi spaventa. Mi piacerebbe farlo, relazionarmi con le persone a quel livello. Mi piace parlare di batteria; mi piace parlare delle cose che mi interessano. Per me parlare di cose che mi interessano veramente – e la batteria e una di queste – è fondamentale.
MD: Che cosa pensi delle interviste?
Neil: Non faccio interviste promozionali. Le faccio perché mi piace far conoscere le mie idee. A volte parlo di qualcosa in un’intervista e poi mi rendo conto di essermi completamente sbagliato e di aver avuto la possibilità di dire quelle cose, cosa che molte persone non possono fare. Non parli di metafisica con i tuoi amici, i fondamenti della musica e i tuoi principi. Quando partecipo ad un’intervista cerco sempre l’intervista ideale. Cerco un’intervista che sia stimolante e se lo è mi ci butto a capofitto. Mi siederò per ore a parlare. Ho questo ideale di intervista, un po’ come lo show ideale. Non succede molto spesso.
MD: Prima di sistemare il tuo kit Larry Allen ha pulito e lucidato ogni piatto alla perfezione e ha pulito tutte le cromature. Impiega questa cura sotto tue istruzioni o è un qualcosa che fa da sé?
Neil: È una conseguenza dell’attenzione di Larry. È molto orgoglioso quando il set è scintillante e i piatti luccicano. Io capisco perché lo fa, ma a me non cambia molto.
MD: Senti della differenza nella brillantezza del suono quando i piatti sono puliti invece che ossidati?
Neil: Non molta in realtà. È difficile da dire: per me un buon piatto suona bene e un brutto piatto non suona bene, la sento così. Il mio crash da 20” ha suono molto caldo e pieno con un bel decadimento. Non penso che l’ossidazione lo migliorerebbe.
MD: Alcuni batteristi hanno la sensazione che mentre il piatto viene suonato, si sporca e si ossida, questo gli doni un carattere unico. Pensi che l’invecchiamento sia parte del fattore?
Neil: Sì, penso che l’età influisca in qualche modo, però il piatto è costruito in metallo. Come può lo sporco farlo suonare meglio? Se non vuoi che si senta il decadimento mettigli del nastro sopra. Farà la stessa cosa che fa la polvere. Può essere vero che lo sporco costituisca un fattore, ma non darà un suono più caldo per definizione, perché la nota del piatto è sempre quella.
MD: La polvere può influire sulla durata (del suono ndt).
Neil: Esattamente. Se vuoi un suono più corto, sporcalo. I miei piatti vengono scelti in base alla lunghezza del decadimento che voglio e alla gamma di frequenze. La quantità di decadimento è cruciale.
MD: Parlami del china che usi. Suona benissimo!
Neil: Ho fatto fatica ad abituarmi ai china. Ho comprato un 18” Pang, cercando un suono cinese. Aveva un bel suono e mi sono ritrovato ad usarlo per diversi effetti. Ma è un suono elettronico quasi bisbigliato. Quando lo ascolto in studio o su nastro suona come un phaser. Ha un suono caldo, ma non ha l’attacco che stavo cercando. Così ho provato il China della Zildjian, che era simile ma aveva molto sustain. Larry ha preso questo al Frank’s Drum Shop, è fabbricato in Cina, misura 20” ha un po’ più di basse al suo suono.
MD: Data la grandezza del tuo kit sono rimasto sorpreso quando ho visto che utilizzi i charleston da 13”. Perché quelli da 13”?
Neil: Ho sempre usato quelli da 13”. Uso certi abbellimenti che non funzionano bene con le altre misure. Ho provato quelli da 14” e, tutte le volte che vado in studio con il nostro co-produttore Terry Brown, vuole che utilizzi charleston da 14”. Li ho provati, sono un tipo di larghe vedute, però non fanno proprio per me.
MD: Un charleston convenzionale?
Neil: Sì, il più tradizionale, un charleston classico. Lavoriamo con una band che si chiama Max Webster ed il batterista ed io ci confrontiamo molto, ascoltando i suoni l’uno dell’altro. Il loro batterista mi ha detto di non cambiare il charleston, perché ad ogni movimento con il charleston aperto o ad ogni lavoro di apertura e chiusura è così veloce e pulito. Non farebbe lo stesso effetto con uno da 14”. Il decadimento è troppo lento.
MD: Stai parlando di un particolare charleston da 13” o qualunque di quella misura?
Neil: Per me va bene qualsiasi da 13”. Ho provato almeno 3 set da 13” negli ultimi 8 o 9 anni e tutti suonavano molto bene. Quando mi sono ritrovato ad essere uno dei pochi batteristi in circolazione ad usarli, ne ho provati altri ma o il mio stile si è sviluppato con i 13” oppure i piatti da 13” rappresentano una parte importante del mio stile.
MD: Usi le pelli della Evans sui tuoi tom.
Neil: Sì. Le pelli della Evans hanno dei buoni attacchi, danno un buon mordente alla batteria. Allo stesso tempo non perdi la nota. Suono spesso con fusti a singola pelle, concert tom a singola pelle. Ma i tom frontali e il timpano hanno doppia pelle, sia battente che risonante. Non perdo mai una nota nonostante quello: in certi contesti acustici, i fusti con una sola pelle perdono tutto, si sente solo una botta. Lo sento con i miei concert tom, lo sento con gli altri batteristi. Se suoni in una sala particolarmente piana o l’area del palco è abbastanza morta, quello ucciderà il suono della batteria. Credo sia più facile ottenere un buon suono con una sola pelle. Ne ho parlato con diverse persone e ho elaborato una teoria. Penso che, specialmente con i microfoni, sia più facile ottenere un buon suono con i tom a singola pelle, ma penso che si raggiunga un suono migliore in generale con la doppia pelle. Un suono più consistente. Penso che analizzando una gamma di un centinaio di situazioni acustiche diverse, gli elementi a doppia pelle hanno una migliore possibilità di suonare meglio e più spesso. Ma è solo una teoria, dipende tutto da diversi fattori. Quando sono in studio, per esempio, lascio la grancassa con una sola pelle e i tom con doppia pelle.
MD: Però durante il live entrambe le grancasse sono a doppia pelle, perché?
Neil: Penso di ottenere un suono più rotondo, più costante. E il nostro fonico è più contento se le ho entrambe! C’è solo un piccolo buco per il microfono.
MD: Ho notato che usi un microfono sotto al rullante.
Neil: Sì, c’è un microfono sotto al rullante solo per i monitor, il quale non viene utilizzato da Ian per il pubblico. Non uso il microfono sopra al rullante nei monitor perché i medi mi arrivano tutti direttamente dalla batteria. Le frequenze alte si perdono con i suoni ambientali del resto della band. Sono le frequenze che vanno perse per prime.
MD: Per quel che riguarda lo studio invece?
Neil: In studio entrambi, ma di solito quello sulla pelle battente.
MD: In studio utilizzi un microfono per il rullante e charleston o vengono registrati separatamente?
Neil: Un unico microfono per il rullante e uno unico per il charleston. Un fattore logistico più che altro. Facciamo ripresa ravvicinata. Praticamente viene tutto microfonato individualmente. Ce ne sono 3 panoramici per riprendere i piatti, uno separato panoramico per il china. Ho un set di wind chimes tubulari lunghe che si devono sentire in un momento particolare, così hanno un microfono. C’è un microfono per il timpano, due microfoni per le campane tubolari che prendono anche i crotali. C’è anche un microfono separato per il glockenspiel. Se voglio inserire nella nostra musica tutte quelle sottigliezze, è necessario che il glockenspiel sia microfonato o altrimenti non si sentirebbe. È cruciale. Il posizionamento dei microfoni è una scienza di cui non posso parlare con molta sicurezza, non ho molte conoscenze a riguardo se non un po’ di teoria che ho imparato in studio. Per quel che riguarda il loro posizionamento live, sono parecchio ignorante, devo ammetterlo. Cerco solo che la batteria suoni bene per me, e poi sta al nostro fonico farla suonare bene nel locale.
MD: Mi potresti dire qualcosa in più riguardo al vostro recente album Permanent Waves?
Neil: È parecchio vario questa volta. Non avevamo grosse idee sulle quali lavorare, così è una raccolta di piccole idee, delle affermazioni musicali individuali. Abbiamo fatto delle cose interessanti e anche delle costruzioni interessanti. Abbiamo costruito un’intera canzone partendo da un’immagine. Volevamo creare una canzone partendo da un fenomeno meteorologico che viene soprannominato “Jacob’s Ladder”, nel quale i raggi del sole sbucano dalle nuvole. Mi è venuto in mente un piccolo testo per mettere le basi della musica. Così la abbiamo composta musicalmente, cercando di descrivere in maniera cinematografica, come se la musica fosse un film. C’è un cielo luminoso che appare mentre l’atmosfera è tempestosa e uggiosa e tutto ad un tratto appaiono questi raggi di luce e abbiamo cercato di riprodurlo musicalmente. C’è un’altra canzone che si intitola “The Spirit of Radio”. Non riguarda stazioni radiofoniche o simili, ma è lo spirito della musica, proprio all’essenza del tema. Riguarda l’integrità musicale. Volevamo rendere l’idea di una radio che trasmette un’ampia varietà di musica. “The Spirit of Radio” deriva da una stazione a casa chiamata CFMY, e “Lo spirito della radio” era il loro slogan. Trasmettono ottima musica, dal reggae, all’R&B, al jazz alla new wave, tutti brani belli o interessanti. Per me è una stazione radio interessante. Mi hanno fatto scoprire molta musica nuova. Nella canzone si trovano parti reggae e una delle strofe ha un mood new wave. Abbiamo cercato di coprire diversi generi musicali. Non ci sono divisioni. I ritornelli sono molto elettronici, c’è un sequencer digitale con un glockenspiel e un controriff di chitarra. La strofa è in stile Rush puro e semplice. Uno è new wave, un paio reggae e un po’ di heavy riffing standard, per quello che potevamo farlo senza sembrare ridondante. Un’altra canzone si intitola Freewill, rappresenta una novità per quel che riguarda i tempi. Come dicevo prima, sperimentiamo molto con i tempi. Mi piace molto lavorare su ritmi diversi ed imparare ad abituarmici.
MD: Che tempi usate in questo brano?
Neil: Usiamo praticamente tutti i tipi che conosco. Tutti i 5, i 7, i 9, gli 11, i 13 e le combinazioni dell’uno e dell’altro. C’erano pezzi nell’ultimo album che avevano 21 colpi in una battuta una volta terminati. Perché avevano un 7 ed un 6, un 5 ed un 4, oppure un 7, un 6, un 7, un 6, un 7 e un 5. Traggo veramente tantissima soddisfazione nel farli suonare bene. Non penso che uno debba suonare solo in 4/4 per sentirsi a proprio agio.
MD: Come riesci a comprendere questi tempi dispari?
Neil: Ricordo di aver compreso qualcosa ascoltando i Genesis. È stata la prima volta in cui ho compreso come funzionavano i tempi. Poi sentivo persone parlare di 7 e 5 e, se me li suonavano, riuscivo a stargli dietro, ma senza capire. Alla fine, sono riuscito a capire il principio del comune denominatore. Una volta compreso numericamente, trovavo che fosse facile prendere il ritmo. Poi prendi la cosa come una sfida e lo fai diventare un assolo di chitarra in 13/8 e trovi un modo per suonarlo comodamente e fare dei cambi. Se devo effettuare dei cambi dinamici in una sezione in 4/4 utilizzerei certi modi per eseguirli, allo stesso modo cerco di applicare gli stessi elementi in un concetto più complicato. Penso che Patrick Moraz l’abbia formulato al meglio dicendo: “Tutta la tecnica presente nel mondo è comunque solamente un metodo per tradurre le tue emozioni.” Così si ritorna alla tecnica acquisita. C’è del vero nell’affermazione di Moraz, perché ci rendiamo conto adesso, dopo aver provato tutti quei tempi, che alcuni di quelli erano solo degli esercizi di tecnica. C’è da dire che a volte ci si esalta a suonare qualcosa solamente perché è difficile. Altre volte ci mettevamo a suonare cose difficili a livello tecnico ma poi ci stufavamo. Adesso riusciamo a capire come tirare fuori queste idee tecniche e inserirle in una struttura esaltante. C’è una canzone che è quasi tutta in 7 ed ha alcune battute di 8 e il ritornello torna in 4/4. È tutto molto naturale da suonare. Riesco a suonare tutta la canzone senza contare una volta. L’unica cosa che conto sono le pause. Se mi fermo per 8 pulsazioni o qualcosa del genere, le conto con il piede, ma quando suono non conto, a meno che non debba farlo per questione di metrica. Probabilmente è un problema comune, ma i tempi più lenti sono i più difficili da tenere “a tempo”. Se suono lentamente in 4/4, conto, ma se suono veloce in 13 non mi oso neanche a contare, suono e basta. Ho un programma nel cervello che rappresenta i tempi ritmici per un 13, o un 7, o un 5 e riesco a seguirli quasi a comando, avendo passato molto tempo a cercare di familiarizzare con loro. Quando cominci a farli giusti è veramente esaltante e ce la metti davvero tutta. È la gioia più bella del creare. Quel tipo di felicità è così effimera, il più delle volte non hai neanche il tempo di godertela. Molto spesso quando scrivo una canzone la soddisfazione dura pochi secondi. Tutto a un tratto ti rendi conto che funzionerà e che ne sarai soddisfatto e poi – boom – sei di nuovo lì a lavorarci su. Pensi: “Come riuscirò a farlo?” Sia che si parli di testo o di musica, la soddisfazione è effimera.