Working Man
Working Man (1996, Magna Carta)
recensione a cura di Fabrizio Vercelli
È il 1996, siamo in pieno boom Prog Metal. Sono gli anni di Awake, Psichedelicatessen, Carved in Stone. Chiunque infilasse un paio di brani con tre cambi di tempo e qualche secondo di metrica dispari, vendeva sistematicamente migliaia di copie in Europa e in Giappone (in Usa impazzava il surf punk, quindi poco spazio per chi suonava sul serio...) e innalzato a livello di mostro di tecnica. C'era un'altra cosa, però: tutti si dicevano ispiratissimi ad una certa band, i Rush. Il ragazzino di sedici anni che sbavava davanti alla copertina del secondo album degli Ivanhoe, però, non aveva davvero idea di chi fossero, questi qua ("tanto Mike Portnoy è di certo più bravo!").
Ecco che la Magna Carta, sottoetichetta dedicata al Prog della Roadrunner, decise di colmare questa lacuna (e anche altre, a onor del vero) con un disco tributo, secondo la moda del momento (ne uscivano a bizzeffe: Black Sabbath, Led Zeppelin, Kiss, Fausto Papetti...).
Per farlo radunò alcuni dei componenti di punta delle migliori band del suo catalogo e altri personaggi di spicco della scena rock internazionale. L'importante era che avessero una cosa in comune: la passione viscerale per i tre di Toronto. Poi chiese a colui che per anni era stato il quarto membro dei Rush di mixare il tutto. Terry Brown accettò.
Fu così che nacque Working Man.
Il Cd si apre con una Working Man decisamente rocciosa, grazie al riffone di Brent Allman (Shadow Gallery) e alla voce di Sebastian Back. La sezione ritmica, composta nientemeno che da Billy Sheehan (Mr Big) e Mike Portnoy (devo dire il nome della sua band?), segue abbastanza fedelmente la linea della canzone; avrà occasioni più avanti, per mostrare il proprio talento. La chitarra solista è nelle capaci mani di Jake Lee, all'epoca fresco ex Badlands, che si esibisce in un assolo ricco di personalità, che non cerca nè il servilismo, nè lo scontro con quello originale del buon Alex Lifeson (che, ricordiamo, è ben pazzato nella top 100 dei migliori assoli di sempre).
Quasi senza di soluzione di continuità ci ritroviamo ad ascoltare By-Tor and the Snow Dog (chissà se i Rush hanno mai provato questa bella soluzione, ai loro concerti?), e, dopo una leggermente eccessiva prova dietro le pelli di Portnoy, scopriamo che l'unico elemento della formazione ad essere, per ora, cambiato, è il cantante. Chi ci racconta l'esito finale della lotta tra il guerriero e il cane è, infatti, James Labrie. La sua interpretazione è invero un po' tirata, ma più che dignitosa.
Il brano successivo non può che essere sulla stessa linea dei precedenti. Analog Kid (senza l'articolo :huh: ), infatti, nasce già come una canzone assai veloce. Nelle mani di Michael Romeo e Mike Pinnella (rispettivamente chitarrista e tastierista dei Simphony X) il brano non può che diventare un classico brano speed con venature prog. Tocca a Jack Russell (Great White) e al trio Allman, Sheehan, Portnoy evitare che il brano scivoli troppo lontano da quella che è la sua dimensione più consona, risultando un ottimo brano di rock progressivo ben rinfrescato secondo gli stilemi del prog anni '90. Il risultato è uno dei migliori del lotto.
The Trees vede la line up quasi completa degli Shadow Gallery (eccetto la sezione ritmica, sempre nelle mani della premiata ditta Sheehan-Portnoy) seguire molto fedelmente la canzone originale. Niente male comunque. Una domanda: Chris Ingles è qui accreditato al pianoforte. Qualcuno ne ha mai sentito una nota?
Posate le accette e le seghe viene il turno del brano dei brani: La Villa Strangiato. Fin dalla splendida introduzione di Steve Morse alla chitarra acustica si può intuire che, qui, tutti gli strumentisti presenti sciorineranno talento. Accanto ai tre finora sempre presenti nelle precedenti canzoni, qui possiamo godere delle prestazioni del già citato Morse (il primo assolo è da pelle d'oca), James Murphy (suo il secondo assolo, molto metal, grazie anche alle improvvise accelerazioni della sezione ritmica) e David Towson (Not_in_Service).
Mission è affidata alle capacissime mani di Robert Berry (solista e nel progetto Alliance), che suona tutto tranne la batteria, e all'ugola di Eric Martin (Mr Big). Il brano si discosta molto dai precedenti, sia per motivi "genetici", sia per la naturale inclinazione AOR-Prog di Berry, qui in grande spolvero. Ottima anche l'interpretazione di Martin. Un brano per orecchie più mature rispetto ai precedenti.
Si arriva poi al momento più basso dell'album. Un George Lynch (Dokken, Lynch Mob) troppo gigione e un Mark Slaughter troppo "pesce fuor d'acqua" trasformano Anthem in un brano degno dei peggiori Poison. Forse un esperimento troppo azzardato, forse un semplice errore di calcolo. In ogni caso una versione da dimenticare in fretta. Peccato, quella canzone avrebbe meritato sorte migliore (suggerisco di ascoltare la versione di Yngwie Malmsteen nel suo Inspiration per farsi un'idea).
Jacob's Ladder vede il ritorno al microfono di Seb Back, questa volta con toni più introspettivi e ispirati, accompagnato da John Petrucci, Matt Guillory (Dali's Dilemma), e dal trio Allman, Sheehan, Portnoy. Il brano, di per sè, non aggiunge né toglie nulla all'originale, risultando alla fine un'onesta cover.
Stesso discorso va fatto per l'interpretazione, da parte dei Fates Warning al completo, di Closer to the Heart, eccezion fatta per la piacevole sorpresa nel finale (che non svelo).
Anche Natural Science, all'inizio, si presenta come una buona cover senza nulla più, ma quando la personalità di Devin Townsend, alla voce, prende il sopravvento, il brano si trasforma in una perla ricca di emozioni fortissime. A seguirlo troviamo James Muprhy e David Townson alle chitarre, Matt Guillory alle tastiere e la coppia d'assi Stuart Hamm - Deen Castronovo alla sezione ritmica (davvero sugli scudi, come nelle canzoni successive). Townsend, alle volte, si lascia prendere fin troppo la mano, ma si può dire senza tema di smentita che qui offre un'interpretazione del brano completamente alternativa a quella classica di Geddy Lee.
La stessa line up, senza Townsend, ci presenta una stupenda YYZ, forse non quanto il precedente strumentale, ma più che degna di essere ascoltata e riascoltata.
Le note eleganti dell'arpeggio introduttivo di Red Barchetta ci fanno subito comprendere che siamo davanti ad un'altra splendida canzone. Difficile fare meglio dell'originale, per cui gli artisti coinvolti, qui, giocano in difesa, ma se la cavano più che egregiamente. Sto parlando di personaggi del calibro di James Labrie (qui molto più a suo agio), Steve Morse, James Murphy, Sean Malone e Sean Reinert (questi ultimi dei Cynic).
L'album potrebbe benissimo chiudersi qui, in bellezza, invece ci viene presentata una Freewill un po'arraffazzonata dove vengono sprecati gli apporti, tra gli altri, di Carl Cadden James (Shadow Gallery) e Trent Gardner (Magellan).
In definitiva Working Man è per lo più un tributo (fortemente voluto da Mike Portnoy) diviso a metà tra volontà ammodernamento (agli anni '90) e puro omaggio al trio.
Consigliato, comunque, sia ai die-hard fans dei Rush, sia a coloro che vogliono ascoltare le prove dei singoli artisti anche senza conoscere i brani originali.
Il passo successivo sarà sicuramente quello di comprare mezza discografia di chi, quelle canzoni, le ha composte.