The Ghost Rider by Neil Peart

Ghost Rider (ECW press)

recensione a cura di Gianluca Bartalucci

Questo libro nasce da una duplice tragedia. Tra il 1997 e 1998, Neil perde sia l’unica figlia, Selena, che la moglie Jackie. La prima muore in un incidente stradale sulla bianchissima neve canadese, la seconda viene distrutta da un cancro di quelli fulminanti. Pochi mesi e via, ciao ciao mondo crudele. Vedendosi crollare la vita addosso tutta d’un colpo e sentendosi sprofondare nella melma della disperazione, della depressione, dell’alcool e degli appetitosi istinti suicidi, Neil cerca di darsi una scossa. Scappa via. Abbandona la sua casa, la band, la batteria e tutto il resto e monta sulla moto. Vi resterà sopra per un anno intero, vagando tra l’Alaska, la California, il Messico e chissà quanti altri stati, cercando spesso vanamente di razionalizzare il dolore, di sistemarlo nel giusto cassetto, di stemperarlo in qualche modo. Cade più volte sui ghiacci del nord, beve bicchieri di tequila in mezzo alle mosche messicane, compra e legge libri (che, una volta terminati, si spedisce a casa dalle diverse località in cui si trova), Jack London e altri, parla con le poche persone che gli si avvicinano. Molti lo evitano, come se percepissero il peso della tragedia che si porta sulle spalle. Anche per questo si sente una sorta di fantasma che vaga senza meta e senza motivo sulle larghe e panoramiche strade americane. Dentro al suo casco Neil pensa, rimugina, ricorda, canta, piange e, chilometro dopo chilometro, già prepara il suo libro. Un lavoro duro e cupo, malinconico e disilluso, forse neanche davvero perfetto, tant’è che di tanto in tanto affiora qualche breve momento di stanca. Non importa. Chi se ne strafrega. L'importante sta altrove, per esempio nello smarrimento di una persona, la quale ha costruito il suo universo su solide e opportune basi razionali, di fronte all’avvento insensato della morte, di fronte alla perdita della persone care. Il dolore non ha motivo di esistere, ma prima o poi arriva e non si può far niente per evitarlo. Ci schiaccia sull'asfalto. Stupefacente è la sensazione di entrare in perfetta sintonia con l’autore, che si mette del tutto a nudo, che non teme giudizi e che descrive la propria sofferenza scendendo nei dettagli anche più scomodi e privati. Talvolta ho perfino provato un certo imbarazzo nel condividere con lui certi particolari. Ne ho ammirato (e ne ammiro), però, il coraggio, la voglia di riprendere il cammino, la forza con cui descrive, attimo per attimo, gli up e i tanti down, le ricadute inaspettate e il rinvigorirsi del proprio intorpidito istinto di autoconservazione, fino alla definitiva (o no?) rinascita finale.

Time, if nothing else, will do its worst/So do me that favor/And tell me the good news first (Rush, “Good News First”)

P.S.

Il libro è stato tradotto e distributo in Italia con il titolo "Il Viaggiatore Fantasma" dalla casa editrice Tsunami Edizioni

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