La volontà di credere a se stesso nella vita adulta

La volontà di credere a se stesso nella vita adulta (n.128)

La coscienza di sé ossia la consapevolezza delle proprie potenzialità, attitudini, competenze e dei propri limiti, rimanda al poter-dover essere nel senso di "se puoi, devi", fondato sulla responsabilità della continua ricerca della forma migliore di vita.

Non si tratta di una conquista definitiva ma di un processo in grado di modificare anche profondamente il proprio mondo interno. Esso inizia con la stessa nostra vita e può essere favorito dall'educazione fin dall'infanzia. Tutta l'educazione dovrà favorire questo processo perché ad esso è legata la possibilità dell'individuo di incontrarsi con se stesso, di conoscere il proprio io, il significato della propria libertà e di conseguenza la possibilità di gestire se stesso in forma sempre più matura. (Cfr. Inghilleri P., "Crescere e cambiare per tutta la vita", In Adultità,1999,9,p.11:"L'idea che l'individuo possa modificare, anche profondamente, il proprio mondo interno per tutto l'arco dell'esistenza è sempre più convalidata all'interno delle discipline psicologiche").

La possibilità del miglioramento si comprende se e nella misura in cui crediamo che esista in ogni uomo una originaria tensione verso la conquista di nuove mete, il superamento delle difficoltà e la volontà di collocarsi nel concerto sociale con la propria identità. Si tratta dell' autostima, senza della quale il soggetto rimane passivo, o comunque condizionato dall'esterno. Solo quando la persona ha un'autostima positiva di sé vive la vita attivamente, si sente motivata a muoversi, ad agire, ad affrontare le novità. Inoltre, impara sempre meglio a gestire le frustrazioni, gli insuccessi inevitabili ma, soprattutto, riesce ad apprendere dagli altri, ad avvalorare i contributi alla propria crescita e a tollerare eventuali critiche e osservazioni. Tuttavia, rimane assodato che l'autostima si rinforza meglio mediante gratificazioni, quali incoraggiamenti reali ad impegnarsi a raggiungere risultati che altri ci indicano o che noi proponiamo. Indubbiamente ha grande valore di stimolo il sentirsi apprezzati e stimati (Cfr. Betti F. ,"Sentirsi apprezzati", In Scuola Italiana Moderna,2002,10,pp.18 ss.)

Per Maslow l'autostima si favorisce attraverso l'accettazione di sé, degli altri e della natura; si tratta di un sé positivo, disposto ad avventurarsi nella vita in termini di creatività, di originalità e di capacità di cogliere aspetti nuovi della realtà. E' dunque, un'autostima non narcisistica ed individualistica, ma impregnata di un sano realismo e di apertura al futuro (Cfr.A.H.Maslow, Motivazione e personalità. Roma, Armando, 1973, pp.258 ss.).

In questa prospettiva appare indispensabile promuovere progressivamente la capacità di autocritica onde proseguire il cammino del proprio arricchimento. Riconoscendo il valore ontologico del proprio essere, quale inviolabile fondamento del proprio primo valore, la malleabilità per l'acquisizione progressiva di un sempre migliore arricchimento della propria personalità, non fa paura anche se comporta il rischio dell'incerto e di qualche eventuale sconfitta, non fa che stimolare il ricorso all'autocritica. Il soggetto sa fin dall'inizio che la capacità di autocriticarsi, di riconoscere i propri limiti, di proporsi di superarli, di adeguare il proprio comportamento ai principi che egli va scoprendo, è la maggiore risorsa di cui egli disponga nel cammino perfettivo del suo essere.

La conquista della coscienza di sé nel suo dinamico cammino perfettivo costituisce la base per saper gestire la propria esistenza con impegno e responsabilità: impegno e responsabilità che si misurano su ciò che vale, su ciò che rende più preziosa l'esistenza umana.

La volontà di sé

Per la gestione di sé, nel momento operativo, il soggetto dispone delle forze che sono in lui stesso: dall'intelligenza ai sentimenti, alle emozioni, alle tendenze e da quanto si può saggiamente trarre dalle esperienze fatte. Di qui deriva l'invito a conoscere bene se stesso.

E' in questa direzione che si deve parlare di volontà di credere a se stesso, intesa come volontà intelligente e saggia in quanto per essa l'individuo impara a conoscersi ed adoperarsi. La possiamo chiamare volontà di sé in quanto l'uomo nient'altro può meglio essere che se stesso.

Occorre, dunque, far leva sulla riflessione per giungere ad un coerente impegno che non si sradichi dalla fedeltà a se stesso. E' riconosciuto alla "volontà di sé" il primato nella strutturazione della propria personalità. "Scegliendo sé, la persona affronta direttamente la principale responsabilità: condotta ed azione dipendono dalle disposizioni personali continuamente rinnovate e perfezionate dalla libera attenzione della volontà sula traccia delle approfondite convinzioni della coscienza"(M. Peretti, Educazione e carattere, Brescia, La Scuola, 1976, pp.115). "Volere sé" e poter volere solo sé anche nell'articolazione delle più complesse relazioni, fino alle più lontane dal centro dell'io, offre alla volontà il fine del suo impegno e contemporaneamente la forza connettiva nel cammino perfettivo del sé.. Il sé è il punto focale della volontà, da cui essa attinge per muoversi e a cui si riferisce per orientarsi.

Il "conosci te stesso", quale primo impegno pratico in ordine all'itinerario migliorativo, ed eventualmente ristrutturativo della propria personalità, ovviamente presuppone il convincimento del valore che si attribuisce al sé. Intelligenza e volontà si rapportano al sé in coordinata prospettiva. Occorre riandare ad esso il più profondamente possibile: è un'azione di rinnovamento, affidata alla "ri-flessione". In quanto ripiegamento è separazione dall'altro da sé, un volersi nella libertà per ritrovarsi nella autenticità personale; in quanto ritrovamento di sé è verifica di risorse ed attese in vista di un esercizio più cosciente, originale e creativo.

Quale riflessione dell'intelligenza richiesta dalla volontà conduce alla fonte delle originali qualità, restituendo alla volontà di sé tutta la forza e la purezza che vengono dall'amore di sé. Il ritorno alla forza originaria dell'amore di sé è il sostegno migliore per l'impegno: l'amore impegna ad orientare la propria condotta anche di fronte alle scelte che implicano rinunce piuttosto aspre: amor vincit omnia.

Che poi la volontà di sé non sia egocentrica e meno ancora egoistica, appare dalla natura propria della volontà che è volontà di bene sia per sé sia per gli altri. Il bene proprio ed il bene altrui non sono antitetici: stanno in stretta connessione. Per ragione di questa dimensione viene esclusa la volontà come connaturalmente rivolta contro di sé o contro gli altri; qualora tale fatto si verificasse, debbono essere date altre spiegazioni, ma in ogni caso si tratta di deviazioni verso forme per cui non si è fatti. E' evidente che l'odio verso chicchessia non rientra nella logica delle propensioni propriamente umane e specificamente della volontà. Cosicché nell'ambito della migliore affermazione di sé, il bene che si fa a sé diventa bene che si fa agli altri ed il bene che si fa agli altri è bene che si fa a sé.

La fiducia in sé

La volontà è chiamata a far leva sulle risorse personali per prospettare nuovi ideali, affrontare nuovi ruoli e testimoniare la propria capacità di

Rinnovamento e di essere utile al prossimo. Il riscontro altrui, del quale il soggetto ha pur bisogno, potrà apportare nuovo vigore alla fiducia in sé ed alla speranza di non avere esaurito le proprie chances al mutare di situazioni personali per ragione di handicap nella salute, di eventualità di perdita dell'attuale posto di lavoro o di pensionamento. Finché si crede alle proprie risorse c'è sempre un modo di impiegarle: ed anche in questa ricerca soccorre la grande risorsa della creatività. Con le risorse di cui l'individuo dispone, egli può affrontare le diverse situazioni della vita adeguando i suoi comportamenti al cambiare dei cicli vitali dell'età e dell'inserimento nella società. "Raramente –scrive V.Frankl (V. Frankl, Alla ricerca di un significato per la vita. Milano, Ricerche Mursia, 1980, p.65) – ho visto tanti libri ammassati nella scrivania del professore di psichiatria di Vienna, Joseph Berzen, come quando egli aveva novanta anni: libri che egli si proponeva di leggere e di studiare". Si conferma, anche mediante questo esempio, che si può sempre affrontare positivamente la vita, dandosi un compito da svolgere.

Lo stesso cammino della propria formazione lungo tutto l'arco della vita, per non restare un effetto vuoto di significato e valore, presuppone che il soggetto creda a se stesso, ossia sia convinto di avere abbastanza risorse per avvalersi delle opportunità che gli sono via via offerte. In altre parole, contributi e stimoli offertigli non conseguono il loro scopo se non incontrano la volontà del soggetto aperta e disponibile a credere che egli ha in se stesso le risorse adeguate per cimentarsi con le offerte.

Vi sono pre-condizioni che rendono possibile lo scattare dell'impegno. Si tratta di sentimenti, passioni, aspirazioni, affettività, propensioni individuali, in grado di muovere la volontà per impiegare le offerte sociali, professionale, politiche, economiche ed altro. Il soggetto adulto-maturo farà dipendere da sé le proprie scelte, rifiutando di farsi colonizzare dal prevalere del valore oggettivo delle occasioni e proposte.

Tale posizione intende valutare prioritariamente l'intimità del soggetto. In tal caso credere a se stesso significa far leva sulle risorse delle propria intimità per selezionare, accogliere o rifiutare le offerte mondane. Le connessioni fra natura interna e natura esterna (io-mondo), mettono al primo posto come campo d'indagine la natura interna per la sua incidenza nelle trasformazioni della propria identità (che consideriamo sempre in dinamico movimento perfettivo). L'uomo padrone del suo vivere e del suo operare non si lascia condizionare. Su questa base appare possibile aprire alla disponibilità verso il nuovo ed il diverso, cioè camminare con i tempi.

In tal modo la fiducia nella propria identità, costruita col tempo, e da portare avanti dinamicamente con coraggio, si erge ad antidoto al disorientamento sociale. Da questa stessa fiducia nasce il rimedio all'apatia e la speranza di una buona riuscita nel dare un ulteriore valore e senso alla propria vita ed alle proprie iniziative sociali e professionali.

Saper personalizzare il proprio muoversi passa attraverso la volontà del deliberare, valutare e decidere. E' un insieme di operazioni che consentono al soggetto di coscientizzarsi responsabilmente per dare significato e valore al proprio agire.

Per questa via l'adulto raggiunge quell'autenticità che non proviene dall'esterno, ma che è frutto della sua attività interiore: egli non fa ciò che altri vuole né si lascia disturbare dalla mondanità confusa e spesso contraddittoria. Egli vuole ricavare da sé, dalle sue risorse interiori, nella fedeltà alla sua identità, i progetti e le forze per il cammino del suo avvenire.

Né si devono queste intendere come operazioni chiuse in un intimismo da autosufficienza, cioè senza il dinamismo della loro apertura al mondo esterno: nessun ripiegamento quindi su di sé nel farsi "giudice" e "misura" del rapporto di interrelazione con l'altro da sé. L'agire verso l'altro è animato e con l'altro è animato e calibrato sulla propria responsabilità che diventa la cartina di tornasole della propria identità.

D'altra parte per rigenerare la società occorre muovere da coscienze sagge e forti, che per essere fedeli a se stesse, sappiano accettarsi minoranza e trovare in sé la forza.

La realizzazione di sé

Uno degli assunti fondamentali in pedagogia considera la personalità una conquista. Mentre il valore ontologico della persona è da nascita, nel corso della vita ognuno è invitato ad acquistare conoscenze ed esperienze allo scopo di avvalorare il suo essere. Detto avvaloramento, sostenuto dall'educazione, è reso possibile dalle risorse naturali del soggetto, l'esplicazione delle quali gli dà la possibilità della "realizzazione di sé.

L'assunto è confermato anche da altre discipline. In psicoterapia, A. Storr dichiara che scopo della psichiatria non è soltanto quello di mitigare determinati sintomi, ma di mettere il paziente in grado di attuare se stesso in modo più integrale di quanto, prima, fosse capace di fare: per lui méta finale del processo formativo, è la "realizzazione di sé", ossia l'estrinsecazione più completa possibile nel contesto della vita delle potenzialità innate nell'individuo, il compimento, nella personalità di ciascun uomo, della unicità a lui propria. La forza di base su cui far leva è l'aggressività innata. Essa "è una affermazione di indipendenza compiuta dal bambino, un tentativo di agire come individuo autonomo , e pertanto rappresenta un passo importante verso la maturità (…). Per rendersi indipendenti i bambini devono per forza ribellarsi, per quanto illuminato possa essere l'atteggiamento dei genitori (…). Se noi postuliamo l'esistenza di una tendenza innata alla realizzazione di sé, una forza istintiva che spinge l'individuo verso una sempre più completa espressione delle sue potenzialità latenti, riusciremo a comprendere molti fenomeni che altrimenti potrebbero rimanere oscuri. Occorre riconoscere una spinta interna all'autorealizzazione. L'unica implicazione che il concetto di autorealizzazione comporta è che in tutti gli uomini, qualunque sia la loro dotazione di base, è innata la possibilità di raggiungere una certa armonia e completezza interiore e di stabilire un rapporto soddisfacente tra se stessi e il mondo; e che ciò valle sia per i meno dotati che per i più dotati"( A. Storr, L'integrazione della personalità, Roma, Astrolabio, 1969, pp.18-21).

Pur accogliendo queste affermazioni, appare doveroso, per un corretto discorso pedagogico, chiarire che il concetto di autorealizzazione deve essere stemperato dagli equivoci. L'autorealizzazione, intesa come méta da raggiungere, comporta solo che il processo del suo conseguimento sia autonomo, anche se non può avvenire senza l'attività propria del soggetto stesso. La realizzazione di sé include l'armonia e la completezza interiore ma anche il rapporto soddisfacente tra se stessi ed il mondo.

Va anche rilevato che la realizzazione di sé non può essere il fine dell'uomo, in quanto non è compatibile con la sua esistenza sociale. E' questo il giudizio formulato da Bernard Russel in Storia della filosofia occidentale: "L'uomo non è un animale solitario, e fin tanto che continua ad esistere la vita sociale, la realizzazione di sé non può costituire il principio etico supremo". Ma se l'uomo non è un animale solitario, i suoi sforzi per realizzare la propria personalità, i suoi tentativi di individuazione, devono comprendere i suoi rapporti con gli altri. Russel lascia intendere che un uomo possa essere se stesso solamente a spese degli altri (Ivi,p.22). E ancora: "In civiltà come la nostra, invece, - continua Storr - dove non tutte le energie di un uomo sono necessariamente rivolte al mantenimento in vita di se stesso e della propria famiglia, lo sviluppo dell'individuo non avviene a spese, ma a vantaggio dello persone che lo circondano (…). L'adulto, al contrario del bambino, se abbia raggiunto una posizione in cui possa mettere a frutto le sue attitudini, si renderà conto che i suoi simili, lungi dall'essere ostacoli, sono anzi per lui per lui aiuto nella espressione delle sue potenzialità (…). Nessun essere umano è autosufficiente. Se esistesse un essere umano autosufficiente, non possederebbe più quelle caratteristiche che noi chiamiamo umane, e potremmo difficilmente parlare di lui come di una persona reale" (ivi,p.23).

E' posizione condivisa da psicologi, da sociologi, ed in primis dai pedagogisti, per i quali nessun uomo è un'isola chiusa in se stessa: nessuno può raggiungere indipendenza e maturità, isolandosi dai propri simili; il pieno sviluppo della personalità implica, da parte dell'individuo, l'accettazione del bisogno fondamentale che ciascuno ha degli altri.

Commenta Storr: "Ci troviamo di fronte al paradosso secondo cui l'uomo attinge il massimo della sua individualità proprio grazie al più profondo contatto con i suoi simili, mentre quando se ne stacca è proprio allora che cade nella minima "individuazione". Che cosa c'è allora di così importante nei rapporti con gli altri, se l'uomo non riesce a sviluppare senza di essi la propria personalità? Credo che, esattamente come un bambino non può fare a meno dell'affetto e dell'amore dei suoi genitori, così l'adulto non può vivere senza sentirsi accettato dai suoi simili, in mancanza di che è preso dall'isolamento e dalla follia. Sapere che un'altra persona ci accetta così come siamo, incondizionatamente, vuol dire diventare capaci di accettare noi stessi e pertanto di essere noi stessi, di realizzare la nostra personalità. Non possiamo nemmeno prendere coscienza di noi stessi come individui singoli, senza un'altra persona con cui collegarci in un confronto"(Ivi,p.25).

Una falsa prospettiva: l'autorealizzazione

L'apertura al mondo esterno è condizione per la realizzazione di sé. Mentre, per un verso, richiama alla non autosufficienza e, per un altro, alla naturale socievolezza, in ultima analisi apre il problema dell'auto-trascendenza, come capacità di invito al soggetto di uscire dall'egocentrismo. Non esistono solo i suoi bisogni, nel soddisfacimento dei quali egli debba porre il significato e lo scopo della sua esistenza. Sarebbe un concepire il mondo esterno come un insieme di mezzi per la soddisfazione dei propri bisogni ed ogni azione compiuta in funzione di se stesso.

Paradossalmente dobbiamo dire che il fine dell'uomo è fuori di lui, che quindi la realizzazione di sé non è il fine per cui vivere. Certamente, l'appagamento e la realizzazione di sé hanno un loro senso nella vita umana; ma l'essenza dell'esistenza umana sta nell'autotrascendenza, cioè nell'orientamento verso qualcosa che ci trascende, verso una realtà che sta al di là e di sopra da noi stessi: qualcosa cioè che vale per sé, per il valore obiettivo che ha e che ci interpella. Siamo fatti per arricchire la nostra personalità attraverso i valori, valori che noi non abbiamo creato ma trovato e di cui siamo in grado di avvalerci.

Per Frankl, l'appagamento e la realizzazione di se stesso possono essere conseguiti sol "per effectum" e non "per intentionem" saggio rilievo che coniuga il mondo esterno con quello interno, aprendo all'individuo prospettive di arricchimento della propria personalità, altrimenti impossibile, ed al consorzio umano progetti di collaborazione e di pace. "Solamente nella misura in cui ci diamo, ci doniamo, ci mettiamo a disposizione del mondo, dei compiti e delle esigenze che a partire da esso ci interpellano nella nostra vita, nella misura in cui ciò che conta per noi è il mondo esteriore ed i suoi oggetti, e non noi stessi o i nostri propri bisogni, nella misura in cui realizziamo dei compiti e rispondiamo a delle esigenze, nella misura in cui noi attuiamo dei valori e realizziamo un significato, in questa misura solamente noi ci appagheremo e realizzeremo egualmente noi stessi" (V.Frankl, Aslla ricerca di un significato per la vita. Milano, Ricerche Mursia, 1980, p.71).

La valutazione distorta dell'autorealizzazione si fonda su una concezione potenziale dell'esistenza, secondo la quale l'uomo si realizzerebbe esclusivamente nella massima espressione di tutte le sue potenzialità più o meno latenti. Tutto ciò è in aperta contraddizione con il fatto che si possa essere infelici, pur avendo soddisfatto tutti i propri bisogni e, vice versa, sentirsi attuati anche in situazioni di carenza e di estremo disagio, purché si stia lottando per qualcosa di significativo.(Cfr.D. Bruzzone, L'amore come luogo di autotrascendenza, In La Famiglia, 2001, 206, pp.58-59)

La scelta dei valori

In una società come la nostra, ove coesistono varietà di posizioni filosofiche, politiche, religiose e morali, non c'è più un consenso diffuso, che dia al soggetto sicurezza nelle sue scelte; ciascun essere umano è come ad un crocevia. Questa varietà è per certi aspetti disorientante, ragion per cui possiamo capire chi ci parla di "società dai valori confusi", "società disorientata", "società marcata dall'incertezza". In questo tipo di società quale potrà essere l'atteggiamento del soggetto che pur si deve far responsabile delle scelte?

Tra le varie riflessioni, che sono ormai d'obbligo per chiunque si occupi di educazione ai valori, i contributi più recenti e significativi focalizzano il problema portandoci sul valore e la necessità della "riflessività", discorso che chiede al soggetto di volersi impegnare personalmente e direttamente con le sue risorse, di assumere, cioè, in prima persona la responsabilità di operare con i suoi mezzi: egli è invitato a credere a se stesso, ma è anche sollecitato a dar ragione delle sue scelte al fine di rendere comprensibile agli altri il suo comportamento.

In una società molto insicura, che non sa più bene come gestirsi e, in

qualche maniera, ha paura di se stessa, si ricorre alla volontà del soggetto maturo di affrontare se stesso con se medesimo. In questo senso si fa leva sulla volontà di credere a se stesso ossia alle proprie risorse, non astratte ma coltivate e strutturate nel proprio carattere, nei propri sentimenti, esperienza, affettività, intelligenza, competenza.

La centralità del problema sta nel considerare l'adulto capace di prendere adeguatamente in considerazione se stesso, cioè di farsi riflessivo, razionale e critico nel cercare le ragioni del decidere, nell'emettere giudizi sulla verità e falsità, sulla certezza o sulla probabilità di ogni asserzione, nel giudicare ed agire. Sono operazioni che si fanno con il sostegno della volontà, che intende raggiungere saggezza e responsabilità. Noi possiamo volerci occupare di noi stessi, delle nostre operazioni, delle nostre finalità, delle nostre deliberazioni ed eseguire ciò che abbiamo deciso. In altri termini, possiamo prendere in mano consapevolmente la nostra vita e scegliere continuamente cosa fare di essa.

L'originalità e la responsabilità, espresse attraverso le proprie scelte,

impongono per altro verso la necessità di giustificare il proprio sistema di valori. Distanziarsi o/e differenziarsi dagli altri comporta il doverne rendere ragione, giacché non si può pensare che il proprio sistema sia da tutti conosciuto e condiviso. Il fatto può anche dar luogo alla convinzione che tutti i valori si equivalgano e far sorgere così un vero e proprio scetticismo. Il fatto addirittura può ingenerare conflitti tra persone e tra gruppi diversi, che non sanno dare spazio reale a valori differenti, conflitti che rischiano di suscitare intolleranza ed anche violenza.

Pedagogicamente considerando la cosa, occorre dire che si apre il problema della educazione al rispetto delle differenze, al dialogo e, sul pino operativo, alla collaborazione, senza più attardarsi a cercare i valori comuni. D'altra parte è proprio la pedagogia che si occupa delle differenze sul piano dei valori e ci invita a considerare la diversità come valore.

Tutto il discorso postula una chiarificazione di base circa l'ideale di uomo a cui si voglia formare l'adulto, in quale società auspicare il suo inserimento.

A nessuno, infatti, può sfuggire che occorre rigenerare l'attuale società, ma non certo muovendo con il metodo della rivoluzione, bensì con la proposta rousseauiana, quella cioè che comincia dal basso, ossia dall'educazione del singolo.

F. Ouellet rileva che nella cultura moderna "non ci sono più valori trascendenti, in rapporto ai quali gli individui determinano la loro vita". La cultura moderna pare fondarsi sull'autocritica, sull'autodistruzione e ricostruzione continua, cosicché la nuova matrice culturale modifica profondamente i rapporti degli individui con la loro cultura particolare, con la loro cultura "endemica", in favore di una cultura "epidemica". Vivendo gli uomini in un mondo in continua trasformazione, non possono più trovare nella tradizione, nell'eredità fornita dalla loro cultura endemica, il modo d'impiego della vita.

Il senso del mondo non è più dato, ma è costruito in progetti che si danno gli individui e i gruppi. Mentre, precedentemente, gli uomini vivevamo in un mondo marcato dalla "saggezza della certezza", in cui la tradizione ricevuta dagli anziani serviva da punto di riferimento indiscusso, per definire il senso della vita e per trovare soluzioni ai diversi problemi dell'esistenza, ora noi viviamo in una matrice culturale marcata dalla "saggezza dell'incertezza" e dalla riflessività. La cultura "endemica" e la cultura "epidemica" appaiono così come due orizzonti dai limiti continuamente fuggenti, in rapporto ai quali gli individui e i gruppi cercano di situarsi e di definire la loro identità ( F.Ouellet, L'éducation interculturelle, Paris, L'Harmattan, 1991, p.51)

Così pure il recente contributo di G.Avanzini sembra aprirci la strada per giungere a chiarire quanto e come il soggetto adulto possa e debba mettersi all'origine responsabile delle sue scelte.

Tentare di definire la nozione di valore –rileva Avanzini- non è impresa facile, a causa dell'abuso che ne viene fatto. Egli ne è cosciente e tuttavia non vi rinuncia, convinto com'è che la volontà di porre valori sia un tratto tipicamente umano.

Per lui, infatti, "l'uomo è, in quanto uomo, necessariamente cercatore di valori, e questo perché la sua natura è, al limite, di non essere una natura". L'uomo non è guidato semplicemente dai suoi istinti che predeterminano le modalità della sua esistenza. Egli è un essere malleabile e libero, che, di conseguenza, deve inventare, giorno dopo giorno, la sua condotta a suo rischio e pericolo. Si tratta, qui, del riconoscimento della libertà dell'uomo, quella libertà che per Avanzini, come per altri pensatori, è uno stato di costrizione. La costrizione maggiore: quella di essere libero. Tanto che per l'autore può essere un criterio di "adultità" il comprendere che la propria libertà è non tanto una serie di vantaggi da rivendicare, al modo di un adolescente, bensì più profondamente è una necessità che pesa su di lui: l'essere umano è costretto a fare scelte. Quella necessità di scegliere è senza dubbio la sua grandezza ma anche una situazione essenzialmente subita. Costretto a scegliere vuol dire impegnato a porre valori, cioè scegliere in riferimento a ciò che, a torto o a ragione, gli sembra di meritare di esserlo, di valerne la pena.

Ma la nozione di valore non è per niente chiarita. Per Avanzini, infatti, vi sono due modalità divergenti di guardare ai valori. L'una, sociologica, che tende a considerare i valori dati in una determinata epoca, in un determinato luogo, in una determinata società. L'altra assiologica, che si interroga sul "valore dei valori". Se la prima si limiterà a fare una carrellata sui valori riconosciuti, mettendoli inevitabilmente sullo stesso piano quand'anche fossero tra loro non solo diversi, ma addirittura incompatibili, la seconda si rifiuterà di dare a ciascuno il medesimo "valore" e giungerà a dare un "giudizio di valore", adottandone alcuni e rigettandone altri. Ma un giudizio sui valori non potrà mai essere definitivo. Questo complica le cose e spiega perché la filosofia morale, riflessione sui valori che devono presiedere la condotta, si trova ad essere, in un certo modo, contemporanea all'umanità e a restarlo fin tanto che ci saranno uomini, visto che non si riuscirà mai a terminare di dimostrare il valore del valore.

Facendo sua la distinzione operata dal contemporaneo Olivier Reboul, Avanzini ritiene che i valori siano dati da un sentimento e solo dopo ratificati da un giudizio (O.Reboul, Les valeurs de l'éducation, Paris. PUF,1992). Pertanto, se anche un abilissimo oratore ci persuadesse che i suoi valori sono migliori dei nostri e noi ci trovassimo a corto di parole per esprimere il dissenso, aderiremmo comunque difficilmente alle sue conclusioni fintantoché i nostri sentimenti ce lo impediscono.

I valori, prima di essere oggetto di discernimento, sono avvertiti come legati alla propria storia, alla propria educazione, cioè alla proprie convinzioni filosofiche o religiose. Pur passando dal registro del sentimento a quello del giudizio, quest'ultimo non riuscirà mai, da solo, a estinguere il primo. Va quindi senza dubbio accettata l'inevitabile permanenza della discussione sui valori, nonché sul loro "valore". La quale sarà tanto più inevitabile e spinosa quanto più ci si trovi "in una società dove coesistono sistemi di valori differenti e disparati/ G.Avanzini, Eduquer aux valeurs, Paris, E. Don Bosco, 1999, pp.70 ss.).

Di fronte a queste riflessioni, ci domandiamo quanto possa il ricorso alla tanto celebrata capacità critica, quanto soffra di limiti segnati per un verso dal progresso della propria storia di vita, e per un altro dall'irrompere dei sentimenti per loro natura più pronti e per certi aspetti più immediatamente gratificanti. Ma proprio tali interrogativi ci consentono di dare un senso più vero e umano alla capacità critica stessa, in quanto quelli che nei suddetti interrogativi sembrano essere i suoi limiti, per altro verso appaiono a darcene la sua qualità ed il suo campo in termini più esatti e più propriamente umani riportando la capacità critica all'interno della vita psichica del soggetto, là dove si svolgono le operazioni che vedono il soggetto all'origine dei suoi atti, delle sue scelte.

Questa crisi di valori umani obbliga il soggetto a dar ragione delle sue scelte giacché non si è più in un sistema di valori da tutti riconosciuto e condiviso. Le scelte personali possono dar luogo a esitazione, a scetticismo, convinzione che tutti i valori si equivalgono, che ognuno possa avere i propri. Questo ingenera conflitti tra gruppi diversi, che non sempre sanno dare spazio reale a valori differenti e si rischia di scadere nell'intolleranza e, talvolta, di affrontarsi con violenza.

Pedagogicamente si prospetta il compito di educare al rispetto delle differenze senza più attardarsi a cercare valori comuni. Sono molti a dichiarare che tutto dipende dall'educazione. Però con la crescita in età i nostri organi sono meno flessibili e le stesse abitudini acquisite possono costituirsi come ostacolo al rinnovamento sia del pensiero sia del comportamento.

E' in gioco l'educabilità dell'adulto, la quale a livello degli studi attuali è data per scontata, ma essa si documenta per via di fatto, ossia dei risultati ottenuti od ottenibili, più che sulla base di un discorso epistemologico. In altri termini affinché le finalità mirate dei vari interventi siano giustificabili e affinché non procedano da una visione euforica, dunque erronea, dell'essere umano, occorre supporre la persistenza della sua educabilità o della sua formatività attraverso le età successive.

Sulla non-educabilità dell'adulto fanno quadro le teorie che vedono nell'accesso all'età adulta il termine dell'evoluzione che dinamizza infanzia e adolescenza, come pure quelle di tipo freudiano rigido che considerano l'infanzia come un periodo determinante per la vita successiva, per cui l'adulto diventa impermeabile al cambiamento. In questa ipotesi, la formazione degli adulti è un mezzo debole impari per rimaneggiare una personalità.

Altre teorie pongono l'accento sull'impermeabilità agli stimoli dovuta alla senescenza. In tali casi, si riscontrerebbe nella persona addirittura una regressione. Se è vero che per molte persone la fine degli studi rappresenta di fatto l'inizio di una fase di minor elasticità mentale, è vero anche che colo i quali hanno la possibilità di continuare una buona attività intellettuale ritardano di gran lunga quello che, a torto, è considerato un inevitabile declino.

Per noi, invece, è fondamentale il fattore volontà, la quale, essendo per sua natura facoltà libera, può sì essere condizionata, ma può sempre svincolarsi da ogni forma refrattaria. E può anche sottrarsi alle più oggettive considerazioni sulla portata del valore dal quale poter ricavare la raccomandabilità : non è che questa sia la migliore disposizione della volontà; ma occorre considerare che anche questo caso si può dare, soprattutto quando l'adulto provasse sfiducia nella società e diffidenza nella sue proposte. Tuttavia noi non crediamo che questo caso debba necessariamente provocare la paralisi di quel dinamismo che per sé è insito nella natura umana.

Mencarelli ricorda che nel soggetto esiste la "volontà di potenza" che fa parte della natura stessa dell'individuo, e che si esprime nella capacità d'iniziativa, d'intraprendenza, come naturale dinamico riscontro al bisogno di essere. La volontà come tendenza autoaffermativa è forza positiva a servizio dell'essere: essa è necessaria per perseguire il bene, per resistere al male, in una parola per liberare progressivamente dal senso di insicurezza. Essa s'identifica con la tensione per raggiungere il più alto stato di coscienza di sé e del proprio essere e quindi delle capacità proattive che ne derivano. E' la tendenza all'affermazione dell'io. Più espressamente vogliamo dire che la volontà di potenza tende a portare il soggetto a navigare con la sicurezza possibile nel mare, mai calmo, della fragilità umana impiegando come strumenti di navigazione le energie individuali condotte al grado di una sana e congrua espansione (L. Secco, L'educazione della volontà. Brescia, La Scuola, 1986, p.65).

Non essendo facoltà cieca, la volontà attende di essere illuminata: la sua luce è la motivazione "soggettiva", quella cioè che le risuona congruente. La motivazione soggettiva, ma non capricciosa, non toglie nulla al valore come tale; essa ha il vantaggio di farlo cogliere come suasivo e soddisfacente. Diverso sarebbe esigere la considerazione del valore nella sua oggettività per ricavare da esso la sua raccomandabilità. Parliamo allora di valore oggettivamente considerato e di valore soggettivamente motivato. Nel primo caso, esso non è di per sé ancora in grado di evocare le potenze operative del soggetto. Infatti la distinzione tra valore oggettivamente considerato e soggettivamente considerato, pur essendo interessante per la trasposizione del giudizio dalla considerazione oggettiva o d'altri a quella soggettiva, resta sempre entro il giudizio, cioè entro la considerazione "apprezziativa", che è fondamentalmente intellettuali e tale rimane anche quando si chiamano ad intervenir altre funzioni quali strumenti, vie o mezzi per portare all'"apprezzamento" o apportarvi nuovi rinforzi.

L'approfondimento potrebbe continuare, ma il nostro discorso porta ad interrogarci sulla possibilità, forse anche necessità, del sggetto di guardare al patrimonio di valori ed esperienze che sono entrati a costituire la sua identità: sguardo, dunque, all'interno di sé, per trovarvi stimoli all'impegno e criteri per le scelte "apprezziative". Vogliamo dire che sostanzialmente il soggetto ha in sé quanto gli basta per trovare motivi di fiducia: il proprio passato non lo lascia necessariamente inerte; per quanto poco lo voglia rievocare, e per quanto anche gli offra criticamente aspetti da superare, esso è sempre là con le sue spinte dinamiche a dare fiducia e speranza per costruire un avvenire migliore.

Le risorse esperienziali dell'adulto

L'adulto è in grado di avvalersi dell'esperienza, grazie alla quale passa dall'attitudine al ragionamento a quella di giudizio cioè alla capacità di giudicare con pertinenza, di dar prova di discernimento (il ragionamento può muovere da giudizi errati). L'adulto è capace di adattamento, cioè di equilibrio tra l'accomodamento e l'assimilazione (Cfr .M. Laeng, Nuovo lessico pedagogico, Brescia, La Scuola, 1998). In questo consiste la maturità dell'adulto: sapersi adattare a situazioni nuove tra loro diverse, valutando i casi in cui è possibile l'assimilazione e quelli in cui s'impone l'accomodamento.

L'adulto è capace di anticipazione ossia di rappresentarsi un futuro che ancora non c'è, di elaborare un progetto (anche un progetto di vita), per adottare atteggiamenti che permettono di adattarvisi. Occorre la convinzione di possedere una certa dose di autonomia per "pesare" sul proprio futuro, l'energia sufficiente, infine, per attuare il progetto. Capacità di differire un piacere, di distanziarsianche e soprattutto da se stessi, per avere padronanza della propria emotività e saper gestire in modo sano le relazioni senza cedere al sentimento.

La cura della propria identità

Se per un certo aspetto l'identità personale costituisce il punto di riferimento per la propria sicurezza, tuttavia essa non può essere considerata fissa in se stessa, al riparo dal mondo esterno. Questo preme sull'individuo e gli chiede di camminare coi tempi, e, pertanto, di darsi una identità sociale. D'altra parte, l' identità personale si attua con l'esplicazione delle proprie risorse, le quali dal loro intimo chiedono di incontrarsi con l'altro diverso da sé, che consenta la loro affermazione, il loro sviluppo. I rischi dell'alienazione, del condizionamento e perfino della violenza, non sono motivi sufficienti per chiudersi in se stessi.

L'identità personale e quella sociale vanno concepite e attuate secondo un saggio equilibrio nella scelta dei valori. Le scelte operate secondo tali criteri sono definite da M. Peretti "sapienziali" e garanzia di "salvezza" come integrale esplicazione delle risorse umane, aperte ed impegnate ad affrontare la totalità dei problemi della vita da quelli sociali e professionali a quelli massimi dell'esistenza come il senso del dolore, della felicità, della salvezza. In presenza dell'odierna crisi di cultura e di educazione, dovuta all'errore di avere ristretto il valore della vita alle istanze dell'efficienza, venendo meno all'apertura al senso totale della vita, siamo invitati ad oltrepassare questi li miti e ad entrare nell'ottica di credere alla possibilità di salvezza della persona nella sua totalità. Allo scopo, serve insegnare l'"appropriazione di sé", "imparare a disporre di sé": "La vita si salva se è in mano nostra, cioè se ne siamo responsabili, se si snoda secondo un progetto personale sostenuto dalle forze di cui l'io può disporre cioè quelle che egli riesce a promuovere in se stesso" (M.Peretti, La pedagogia della salvezza, In Pedagogia e vita 2002,I, pp. 122 ss.)

b) Particolare coinvolgimento nel sociale si verifica nell'esercizio dell'attività professionale, di fronte alla quale occorre un minimo di fiducia in se stessi, nella volontà di riuscire. Le risorse umane, prioritarie per valore e funzione rispetto al lavoro, nel momento della loro attività hanno un ruolo consistente, non solo in quanto servono per la produzione di beni, ma anche perché consentono all'uomo l'attuazione di sé, come uomo, anzi, in certo senso, in virtù di questa esperienza egli diventa più uomo.

Scrive Giovanni Paolo II nell'Enciclica Laborem exercens, del 14 settembre 1981: L'uomo "come persona compie varie azioni appartenenti al processo del lavoro; esse, indipendentemente dal loro contenuto oggettivo, devono servire tutte alla realizzazione della sua umanità (…). Per quanto sia una verità che l'uomo è destinato ed è chiamato al lavoro, però prima di tutto il lavoro è "per l'uomo", e non l'uomo "per il lavoro" (Giovanni Paolo II, Laborem ezercens,n.6).

"Il lavoro è un bene per l'uomo –è un bene della sua umanità- perché mediante il lavoro l'uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, ma anche realizza se stesso come uomo ed anzi, in un certo senso "diventa più uomo"( Ivi,n.9).

In questa concezione, riconosciamo che l'uomo viene prima del suo lavoro ed in esso non può esaurirsi la sua umanità: egli non può identificarsi col lavoro. Il distacco e la differenza fra i due termini della questione devono essere coscientemente avvertiti ed accettati per non rischiare una identificazione alienante.

Un primo problema da affrontare in merito, riguarda la possibilità e la necessità di non identificare se stessi con il lavoro, ossia, più esplicitamente, con l'esercizio della propria professione, e ciò allo scopo di salvaguardare l'identità individuale, da considerarsi come valore originario e creativo per affrontare qualsiasi problema della vita.

Con ciò si intende voler mettere al riparo la propria identità personale dal rischio di qualsiasi forma di alienazione o/e condizionamento, onde pervenire ad una pura coscienza di sé, non nel senso di essere egocentricamente e perfino nevroticamente centrati su se stesso, ma nel senso puramente psicologico. In altri termini, occorre non confondere l'io con i contenuti della coscienza. Il continuo affluire, infatti, d'influssi sul proprio essere vela la chiarezza della coscienza e produce false identificazioni dell'io con il contenuto della coscienza, invece che con la coscienza stessa.

Quando ci si identifica con una professione o con un ruolo, si instaura e si esalta una precaria situazione di vita che prima o poi si traduce in un senso di perdita, perfino di disperazione, come nel caso dell'atleta che diventa vecchio e perde la sua forza fisica; dell'attrice la cui bellezza fisica sfiorisce; della madre che rimane sola quando i figli sono cresciuti. Attaccarsi disperatamente alla vecchia "identità" in declino non serve a niente: la soluzione vera può essere solo un ripensamento sulle qualità proprie più tipicamente umane da avvalorare attraverso un'identificazione nuova e più ampia: si può andare verso un lavoro nuovo più confacente al proprio essere, all'età che passa, alla società che cambia. Insomma si dovrà cercare di dare un significato più personale e soddisfacente alla propria esistenza. Una volontà cosciente e deliberata può far molto per facilitare questo passaggio.

Un secondo problema riguarda le nuove prospettive che sembrano affacciarsi nel mondo del lavoro, intese a fare del lavoratore un "imprenditore di se stesso in azienda".

Oggi, il mondo dell'imprenditoria sta orientandosi in modo diverso, rispetto al passato, nei riguardi dei dipendenti: esso intende investire sui dipendenti in modo da modificare il loro atteggiamento nei confronti dell'azienda. Invece di doverne gestire le lamentele per il fatto di non poter garantire loro un posto per la vita, si preferisce responsabilizzarli verso la propria vita professionale, trasformandoli in "imprenditori di se stessi".

Questa radicale modifica di orientamento mira a responsabilizzare gli individui nella scoperta di valori ed interessi propri, rimasti inesplorati, da mettere a profitto di obiettivi che consentano di impiegare al meglio le proprie potenzialità.

La nuova prospettiva intende trasformare la vita personale in un percorso dinamico, in cui la meta può essere modellata dal soggetto stesso. Sta all'individuo voler interrogarsi, prendere una nuova consapevolezza di sé, valutare i propri talenti e credere alle sua possibilità per un nuovo futuro.

Per altro verso, le organizzazioni aziendali che si pongono su questa linea, mirano ai propri interessi di produzione e di competizione, coniugandoli con l'apporto delle capacità e disponibilità del lavoratore. Che questa sia la carta vincente per imporsi sul piano della concorrenza, quella cioè di offrire prodotti più appetibili dal pubblico dei consumatori ed a prezzi vantaggiosi per uin giusto ricavato, non appartiene a noi darne lavalutazione. Senza dubbio, invece, dal nostro angolo visuale della valorizzazione del soggetto lavoratore e delle sue note o riscoperte potenzialità, dobbiamo dire che la "volontà di credere a se stesso" per un verso è condizione e per un altro garanzia di una soddisfacente realizzazione di sé (Cfr.M. Castagnetta,Imprenditori di se stessi, In Adultità, 1999,10, pp.84 ss.)

Possiamo così affermare che le risorse di un individuo normale sono molte di più di quelle di cui si è consapevoli e di quelle che si sono impiegate, ragion per cui il credere in esse apre a nuovi orizzonti e progetti d'impegno.

Luigi Secco