Palazzo Schifanoia

Con il suo splendido Salone dei Mesi affrescato nel XV secolo dai pittori dell’Officina Ferrarese, dopo quasi 10 anni dal terremoto che ne ha determinato la chiusura, il Palazzo ha aperto al pubblico la sua ala quattrocentesca, creando il Museo Schifanoia.
Se l’origine di Schifanoia risale alla fine del Trecento, quando Alberto d’Este ne promuove la costruire al di fuori dal tessuto urbano della città, non v’è dubbio che l’immagine del Palazzo sia legata indissolubilmente alla figura di Borso d’Este, signore della città tra il 1450 ed il 1471, e al cosiddetto Salone dei Mesi.
Impegnato sin dal 1467 nell’ampliamento della Delizia di famiglia, Borso decide infatti di far decorare anche l’ambiente più grande, fulcro dell’intera costruzione. A tal fine convoca nel 1469 una nutrita schiera di pittori con l’intento di ornare il Salone in previsione della sua nomina a Duca della città.
Autore del programma iconografico – una sorta di grande calendario nel quale si mescolano le esigenze celebrative di Borso, la mitologia antica e l’astrologia araba – è Pellegrino Prisciani, astrologo e bibliotecario di corte.
Per quanto attiene invece l’ideatore artistico questo è stato a lungo identificato in Cosmè Tura. Si tratta, in realtà, di una notizia destituita di qualsiasi fondamento e le poche certezze relative all’autografia delle decorazioni si riferiscono alla parete est, dove fu attivo Francesco del Cossa, come prova una lettera che egli stesso indirizzò a Borso nel marzo del 1470. 

Decorazioni del Salone dei Mesi

Nelle decorazioni superstiti della parete settentrionale, la critica ha invece riconosciuto, tra gli altri, un anonimo pittore noto con il soprannome di “Maestro dagli occhi spalancati”, Ercole de’ Roberti e Gherardo di Andrea Fiorini da Vicenza.
Il grande Salone misura quasi 25 metri di lunghezza per circa 11 di larghezza, l’altezza raggiunge invece i 7 metri e mezzo. La superficie dipinta raggiungeva pertanto i 525 mq, una cifra che fa di questo ambiente uno dei più grandi cicli decorativi profani del Rinascimento.
Le pareti sono contraddistinte dalla presenza di dodici sezioni che corrispondevano ai dodici mesi dell’anno: di questo ne sopravvivono solo sette. I mesi sono intervallati da aree nelle quali erano dipinte scene di vita urbana o cortigiana.
Il senso di lettura generale è orizzontale, da destra verso sinistra, mentre per quanto attiene ciascun mese si procede in verticale: in alto il Trionfo della divinità protettrice del mese raffigurato, nella fascia mediana il segno zodiacale e i rispettivi decani, infine, l’ultima è dedicata ai fasti del committente, effigiato per ben tre volte in ogni scena mentre ostenta le virtù ducali che contraddistinsero il suo regno.
Il Salone era pensato come una sorta di scatola scenica illusoria: ventidue paraste dipinte simulano la funzione di reggere il soffitto ligneo partendo da un alta balaustra decorata da fregi con putti. Questi elementi erano chiamati a simulare la presenza di uno spazio illusorio, una sorta di loggia all’antica che si apriva sulla Ferrara all’epoca di Borso d’Este.

Sala degli Stucchi

Superato il Salone dei Mesi si accede ad un altro luogo fondamentale di Palazzo Schifanoia: la preziosa Sala degli Stucchi detta anche delle Virtù.
Nel contesto della Delizia e degli appartamenti privati, la sala possedeva un’importanza strategica essendo utilizzato da Borso come luogo di udienza e, al contempo, come anticamera degli spazi privati.
Tale funzione deve aver consigliato la realizzazione di una decorazione sontuosa e di grande impatto, impostata su un soffitto a lacunari decorato da stucchi dorati contrassegnati dalla presenza delle imprese del duca.
Le pareti sono arricchite da un alto fregio, anch’esso in stucco dorato e policromo, che presenta diversi riquadri decorati da festoni, ghirlande e putti, con al centro lo scudo araldico estense (i gigli di Francia e l’aquila imperiale) e le imprese del duca come l’Unicorno, che allude alla purezza, il Paraduro, che ricorda le bonifiche delle campagna compiute da Borso, il Battesimo, simbolo di prudenza, il Fuoco, emblema della carità e dell’amore.
Fra questi riquadri sono collocate le Virtù rappresentate da eleganti figure femminili ad alto rilievo sedute su troni. Tra le virtù teologali (Fede, Speranza e Carità) e quelle cardinali (Prudenza, Fortezza e Temperanza), svetta l’assenza tra quest’ultime della Giustizia. Tale mancanza ha fatto ipotizzare che la Giustizia venisse evocata dalla figura di Borso in persona, non a caso effigiato nell’atto di amministrarla nel mese di Marzo dell’adiacente Salone dei Mesi. Appare più verosimile però pensare che tale Virtù, centrale in un programma iconografico “di governo” come questo, fosse posta in una posizione preminente.
Per la realizzazione di un apparato di simili proporzioni la scelta cadde nel 1467 su uno dei protagonisti della scultura estense di quegli anni: il padovano Domenico di Paris, coadiuvato dal pittore Bongiovanni di Geminiano Gabrieli.