Museo Egizio

Torino

Il Museo Egizio di Torino è il più antico museo del mondo dedicato interamente alla cultura egizia. Con i suoi 4 piani (esplora la mappa), si estende per oltre 2 km e ha una temperatura costante tra 21° e 24°.
L'arrivo della Mensa Isiaca (I secolo d.C.)a Torino nel 1630 circa costituì il punto di partenza per la futura nascita del primo Museo Egizio.
La statua di Ramesse II (Nuovo Regno, 1539-1076 a.C.) fu uno dei primi monumenti egiziani giunti a Torino, scoperta da Vitaliano Donati nel 1759 circa.
La collezione di cui fa parte la statua di Amenhotep I (Nuovo Regno, 1539-1076 a.C.) fu riunita da Bernardino Drovetti e determinò la nascita del Museo nel 1824 che incrementò la sua collezione grazie agli scavi condotti nei primi 20 anni del ‘900, durante i quali venne ritrovato anche altri gruppi statuari. Negli anni ’30 il Museo proseguì le ricerche, conducendo tre campagne di scavo.
Con il dono del tempietto rupestre da parte della Repubblica Araba Unita (RAU), il Museo si dotò di una struttura monumentale.

Piccola selezione reperti esposti

Sepoltura predinastica

In epoca predinastica i defunti erano solitamente deposti su un fianco in buche ovali o circolari, in alcuni casi avvolti in pelli di animali o stuoie di giunchi; il contatto diretto del corpo con il terreno sabbioso ricco di ossido di sodio ne favoriva la conservazione per dissecazione naturale.
Questa sepoltura non è frutto di uno scavo archeologico, ma fu acquistata in Egitto da Ernesto Schiaparelli agli inizi del ‘900.
Si tratta del corpo di un uomo adulto di circa quarant’anni e del suo corredo funerario composto da frecce, ceste contenenti frammenti di tessuto e un paio di saldali.
Recenti analisi scientifiche condotte sul corpo e sui tessuti conservati nelle ceste sembrano confermare la loro appartenenza a un’unica sepoltura e hanno inoltre rivelato la presenza di un olio vegetale sulle bende, forse applicato nel corso del rito funebre.

Stele funeraria in cui Iti e Neferu ricevono offerte alimentari.
Primo Periodo Intermedio (2118-1980 a.C.). Calcare, Gebelein, ritrovata a terra nel corridoio della tomba (scavi Schiaparelli, 1911).

Sarcofago di Ini. Guardasigilli, governatore provinciale e capo dei sacerdoti del tempio del dio Sobek.
Legno. Primo Periodo Intermedio (2090 a.C.). Gebelein, necropoli nord, tomba di Ini.

Statua di Aanen,  secondo sacerdote di Amon
Granodiorite. Nuovo Regno, XVIII dinastia, regno di Amenhotep III (1390-1353 a.C.). Tebe

Dignitario con parrucca, lunga gonna e la pelle di leopardo dei sacerdoti. Sull’ornamento che porta alla cintola si leggono i nomi di Amenhotep III. Anen, ci dice l’iscrizione, è un sacerdote astronomo, “uno che conosce la processione del cielo”, cioè i percorsi degli astri, da cui la trasfigurazione delle macchie di leopardo, rese come stelle. E’ anche “uno che mette le cose al loro posto" (cioè le offerte per gli dèi nel luogo designato) e “propizia gli dèi con la voce”. Era fratello della regina Teye, moglie di Amenhotep III (1390-1353 a.C.).

Coperchio del sarcofago di Djehutymes, grande intendente del tempio di Amon

Tomba cebana 32 costruita per un alto funzionario dell’epoca del faraone Ramesse II (1279-1213 a.C.) di nome Djehutymes, amministratore dei possedimenti del grande tempio di Amon-Ra a Karnak, sepolto qui con la moglie Aset.
Il coperchio raffigura la mummia del defunto con parrucca, barba posticcia e ampio collare. Sul petto è raffigurata la dea del cielo Nut con le ali spiegate. La scomparsa degli occhi intarsiati di materiali preziosi è dovuta presumibilmente al saccheggio della tomba in epoca faraonica. Nelle mani stringe simboli protettivi: nella destra la “spina dorsale di Osiride” (djed), nella sinistra il “nodo di Iside” (tit). Le bande iscritte imitano le bende che stringevano il sudario intorno al corpo. In quella centrale il defunto invoca la dea Mut, mentre le altre contengono formule pronunciate da varie divinità dell’oltretomba.
Vasi canopi del sovrintendente ai due granai Uadjren nella loro cassa con pattini per il trasporto. Legno, Nuovo Regno (1450-1400 a.C.)

Statua culturale di Amenhotep I. Calcare, Nuovo Regno, XIX dinastia (1292-1190 a.C.). Deir el-Medina.
Lo stile di questa celebre statua di Amenhotep è tipico della scultura tebana dell’epoca ramesside, quando si sviluppa in particolar modo il culto di Amenhotep I: occhi grandi, guance piene e naso aquilino. Il colore bianco della pelle del sovrano, al posto del più comune rosso, intende probabilmente imitare il prezioso alabastro egizio.

Statua di Penmerenab che offre un naos sormontato da una testa di ariete.
Penmernabu è rappresentato mentre presenta un santuario sormontato da una testa di ariete, animale sacro al dio Amon-Ra. L'immagine del dio è anche incisa sulla spalla destra, mentre quella della regina Ahmose Nefertari adorna la sinistra e quella di Hathor la scapola sinistra.

Statuetta di Tauret dedicata dal disegnatore Parahotep. Legno, Nuovo Regno, XIX dinastia (1292-1190 a.C.). Deir el-Medina.
La dea Tauret – il cui nome significa letteralmente “la grande” – ha corpo e testa da ippopotamo, coda e dorso di coccodrillo e zampe leonine, tutti animali noti per la loro aggressività nella protezione della prole. In quanto divinità venerata soprattutto in ambiente domestico, non ha templi e statue colossali a lei dedicate: piccole statuette in terracotta e legno venivano solitamente poste nelle case per proteggere i nuovi nati o per favorire la fertilità.

Statue dell'artigiano Pendua e di sua moglie Nefertari
Calcare. Nuovo Regno, XIX dinastia (1292-1190 a.C.). Deir el-Medina.

La statua era probabilmente ospitata in origine in una cappella funeraria. I testi sul retro contengono invocazione alla triade tebana, a Ra-Harakhty e alle maggiori divinità dell’oltretomba, mentre più in basso le immagini dei figli sono rappresentati nel gesto di portare omaggio ai genitori, una nota familiare ripresa nell’esile figura di una figlia incisa tra i due coniugi. La statua è scolpita nel calcare bianco di Tebe e manifesta la cura per i dettagli raffinati degli scultori della Sede della Verità. I tratti dei volti, particolarmente cesellati, come anche le leggere simmetrie, possono forse essere considerati come segni che l’artigiano che l’ha realizzata era più abituato a scolpire in rilievo piuttosto che a tutto tondo.

Cappella funeraria di Maia.
Argilla, stucco, pittura. Nuovo Regno, XVIII dinastia. Deir el-Medina, scavi Schiaparelli, 1906.

Le pareti della cappella sono realizzate in mattoni di fango fresco e paglia, successivamente coperte da intonaco. La pittura a tempera è applicata a secco e i colori sono ottenuti da prodotti minerali e vegetali (ocra per il rosso e il giallo, carbone per il nero, carbonato di calcio per il bianco, malachite per il blu e il verde), mescolati con acqua e un legante, la gomma d’acacia.

La tomba dell’architetto Kha e sua moglie Merit

Al momento della scoperta il sarcofago interno di Merit è avvolto in un telo e racchiude, proteggendole, la mummia delle donna e la preziosa maschera funeraria posta sul capo.
Il sarcofago è finora unico nel suo genere, perché fonde in sé i due diversi modelli decorativi osservabili, rispettivamente, sul sarcofago mediano e quello interno di Kha: la cassa è coperta infatti da resina nera con iscrizioni in foglia d’oro, mentre il coperchio è completamente decorato.
Il fatto che i testi funerari siano a nome di Kha e che le dimensioni generali del sarcofago eccedano quelle del corpo minuto di Merit, suggeriscono che la cassa possa essere stata preparata originariamente per il marito e successivamente utilizzata invece per la sepoltura della moglie.
Il sarcofago  intermedio riproduce l’immagine della mummia rivitalizzata e, al momento della scoperta, vi erano appoggiate due grandi ghirlande di loto e il papiro conteneva il Libro dei Morti.
La superficie è animata da elementi di rilievo ricoperti da stucco e foglia d’oro che evocano la luce solare ed evidenziano i simboli del risveglio  a nuova vita di Kha.
Tra questi si notano la maschera funeraria, l’ampio collare (usekh) e le bande che imitano le fasce che stringono il lenzuolo funerario intorno al defunto. Esse recano formule e preghiere a Nut, Thot, Anubi e i figli di Horus, divinità tradizionalmente associata con l’Aldilà e chiamata a proteggere l’integrità del corpo del defunto.
Seguendo una tradizione ben documentata da altri esempi, il sarcofago interno di Kha si differenzia da quello intermedio perché su di esso non vi è più traccia di resina nera, mentre la decorazione a foglia d’oro ricopre l’intera superficie. La foglia d’oro è stesa su un finissimo strato di gesso su cui sono modellati a rilievo le figure e le iscrizioni, che riprendono i testi già osservati sul sarcofago intermedio.

XVIII dinastia. Deir el-Medina, scavi Schiaparelli, 1906.

Conservava un corredo funerario perfettamente intatto, che ha consentito di studiare l'alimentazione, la moda, il costume e i passatempi dell'antico Egitto. Tra i 506 reperti, oltre ai sarcofagi di Kha e Merit, sono compresi vasi canopi, tuniche, sgabelli, biancheria, strumenti da lavoro e da toletta, papiri, gioielli, una scacchiera e cibi fossilizzati (pane, olive, aglio). Nel nuovo allestimento della tomba gli oggetti sono stati collocati nella stessa posizione in cui furono trovati.

I sarcofagi in pietra

Sarcofago del visir Gemenefherbak.
Pietra / grovacca. Epoca Tarda, XXVI dinastia (664-525 a.C.).

Come visir (parola moderna, derivata dall’arabo wasir “ministro”, con cui traduciamo l’egiziano tjaty), Gemenefherbak era il responsabile della giustizia, funzione simboleggiata dal pendente raffigurante la dea Maat che porta sul collare.
Il petto è protetto da uno scarabeo alato, personificazione del sole che rinasce al mattino. Sul fondo esterno della cassa, il defunto è raffigurato due volte in adorazione del pilastro djed, simbolo di Osiride, signore dell’Aldilà.
Nonostante le dimensioni dell’oggetto e la durezza della pietra, gli scultori esprimono qui tutto il loro virtuosismo in una levigatura delle superfici e raffinatezza di dettagli che sono tipici della XXVI dinastia.

Coperchio del sarcofago di Ibi, grande intendente di Nitocris, divina adoratrice di Amon.
Pietra / grovacca. Epoca Tarda, XXVI dinastia (664-610 a.C.).

La qualità di quest’opera, scolpita finemente in una pietra durissima, è commisurata all’altissimo rango del proprietario: Nitocris, figlia di Psammetico I, era infatti la massima autorità religiosa di Tebe, e Ibi ne amministrava il patrimonio.
Il coperchio raffigura Ibi come Osiride, con le mani che emergono dal sudario a stringere il pilastro djed, che gli permette di rialzarsi dopo la risurrezione.
Le divinità rappresentate fra le bende di mummia incise sul corpo aiutano Ibi nel suo viaggio nell’Aldilà. Sui piedi, la dea del cielo Nut spiega le ali, impugnando tra le mani il simbolo della vita ankh, perché Ibi rinasca ogni mattina come il sole all’orizzonte.
Tre fori praticati sotto la barba e un altro nello scettro dovevano facilitare le operazioni di spostamento dell’oggetto, che pesa oltre mezza tonnellata.

Le tre sorelle

Le mummie delle tre sorelle Tapeni, Tamir e Renpet-Neferet, figlie di Ankh-khonsu, capo della manifattura del tempio di Amon, erano deposte in sarcofagi antropici contenenti a loro volta i sarcofagi esterni rettangolari a colonnette (qeresu), un tipo che compare nella XXV dinastia (722-664 a.C.). L’alveo dei due sarcofagi esterni conservati rappresenta la mitica tomba del dio Osiride.

Sala delle statue

La litania delle Sekhmet

La statua è la materializzazione terrestre della dea Sekhmet, la temibile divinità egizia con testa di leonessa e corpo di donna, contestualmente indispensabile all’ordine del mondo.
Per volontà del faraone Amenhotep III fu raffigurata in centinaia di statue, strumenti di un rituale per allontanare la sua ira distruttrice e proteggere l’Egitto.
Le statue sono ventuno: dieci sedute e undici in piedi. Fanno parte di un gigantesco gruppo statuario scolpito durante il regno del faraone Amenhotep III per uno dei templi più impressionanti mai costruiti.
Nella serie delle statue stanti di Sekhmet il grado di finitura è particolarmente variabile.

Statua di Tutmosi III.
Granodiorite. Nuovo Regno, XVIII dinastia (1479–1425 a.C.). Tebe, Karnak, tempio di Amon.

Tutmosi III è rappresentato con i simboli della regalità: indossa il gonnellino shendyt, il copricapo di stoffa detto nemes, e il cobra (l’ureo) sulla fronte. Fra le gambe si vede la coda di toro fissata alla cintura dietro, simbolo della sua potenza virile. Sui lati del trono è il sema-tauy, un segno composto dalle due piante dell’Alto e Basso Egitto, il loto e il papiro, intrecciate con il geroglifico sema, “unire”, raffigurante polmoni e trachea. Sotto i piedi del sovrano sono i Nove Archi, che rappresentano i nemici dell’Egitto. Questi simboli significano che il faraone garantisce l’unità delle Due Terre (l’Egitto) e le protegge contro i popoli stranieri.

Statua di Seti II.
Arenaria. Nuovo Regno, XIX dinastia (1202–1198 a.C.). Tebe, Karnak, tempio di Amon.

Esempio notevole della statuaria monumentale, questo colosso esprime la stabilità e la forza del sovrano attraverso la solita struttura della muscolatura e la geometricità dei volumi e delle linee. Rappresentato con la gamba sinistra avanzata per mostrare la capacità del re di camminare e agire, tiene uno stendardo con l’insegna del dio Amon, raffigurato all’estremità superiore. Insieme a un’altra simile oggi conservata al Louvre, questa statua si trovava originariamente davanti all’ingresso di una cappella edificata da Seti II nel gran cortile del tempio di Karnak.

Statua di Ramesse II.
Granodiorite. Nuovo Regno, XIX dinastia (1279–1213 a.C.). Tebe, Karnak, tempio di Amon.

Il sovrano è rappresentato in tutta la sua maestà. Indossa la corona khepresh e tiene lo scettro heqa contro il petto. Sotto le pieghe dell’ampia veste cerimoniale si vede in trasparenza il corpo muscoloso. Calpesta sotto i sandali i Nove Archi, simboli dei nemici dell’Egitto. Sui lati del trono si trova il sema-tawy, l’intreccio delle piante dell’Alto e del Basso Egitto che rappresenta l’unione delle Due Terre.
La continuità della dinastia è espressa dalle figure della moglie Nefertari e del figlio Amonherkhepeshef ai lati delle gambe. Durante il regno di Ramesse II vi fu probabilmente un’evoluzione stilistica del ritratto regale. Il volto di questa statua presenta notevoli somiglianze con quello di Seti I, predecessore di Ramesse II, ragione per cui è stata talvolta ritenuta una statua del padre usurpata dal figlio. Tuttavia né la scultura né l’iscrizione mostrano segni visibili di rilavorazione. Probabilmente risale all’inizio del regno di Ramesse II. La presenza della regina Nefertari, deceduta nell’anno 30, indica comunque che siamo nella prima metà del suo regno.

Statua di Amenhotep II che presenta due vasi.
Granito. Nuovo Regno, XVIII dinastia (1425–1400 a.C.). Tebe, Karnak, tempio di Amon.

Inginocchiato nell’atto di compiere un’offerta agli dei, con il suo nemes (il tipico copricapo reale di stoffa a righe) e l’ureo sulla fronte, è un capolavoro della statuaria monumentale dell’antico Egitto. Amenhotep II in ginocchio offre due vasi "nu" contenenti vino a a una divinità.