di Alessandra Bernardin
Quante volte capita di annoiarsi tra i banchi di scuola? O anche, con l'estate alle porte, succede di essere al mare e di non saper cosa fare? Ecco dunque per voi una rubrica di interessantissime curiosità, con cui ravvivare i momenti morti con i vostri amici e compagni!
Da quando cantare su una base musicale con il testo proiettato su uno schermo si chiama “karaoke”?
Questa divertente attività, adatta a riempire le altrimenti vuote ore dell’ultimo giorno di scuola, è ormai comunemente conosciuta sotto un simpatico nome giapponese la cui origine è abbastanza recente. Non si è diffuso, infatti, che a partire dagli anni ‘70 in Giappone, arrivando in Italia negli anni ‘90.
Il nome “karaoke” deriva dall’unione di due parole giapponesi:
➢ “kara” cioè “vuota”;
➢ “oke” da “ōkesutora” che vuol dire orchestra.
Queste due unite insieme danno sostanzialmente la definizione di karaoke: un sistema che permette di cantare senza orchestra. Essendo un concetto semplice, potrebbe stupire pensare che solo dal 1971 chi non aveva particolari doti canore ha potuto finalmente smettere di preoccuparsi e darsi alla pazza gioia del canto sfrenato. È in quell’anno, infatti, che il musicista giapponese Daisuke Inoue concepisce la prima macchina per il karaoke.
Nato a Kobe nel 1940, da adolescente è batterista e pianista. Comincia a suonare in vari bar della città, ma quando si rende conto che per i colleghi cantanti è difficile esibirsi in sua assenza, risolve il problema con un’idea semplice e brillante: decide di creare una “scatola” per permettere loro di cantare nei locali anche senza musicisti. Registrò la parte strumentale delle canzoni su dei nastri e li inserì in questa scatola. Non restava che attribuirle un nome e sapeva bene che sarebbe stato diverso dal già esistente jukebox: sarebbe stata un’orchestra vuota.
Così, la prima macchina per il karaoke al mondo fu piazzata in un bar a Kobe, al servizio di professionisti e clienti coraggiosi che avessero voglia di mostrare a tutti il loro talento nascosto. Inserendo una monetina nell'apparecchio, era sufficiente selezionare una canzone e dare sfogo alle corde vocali, trovando il testo scritto su un libretto.
L’invenzione si è diffusa tanto rapidamente da diventare al giorno d’oggi una delle principali fonti di divertimento nel suo paese d’origine. Esiste addirittura un campionato mondiale di karaoke. Nonostante Inoue non abbia brevettato la sua macchina (ciò che invece fu fatto più tardi dal filippino Roberto del Rosario), ha comunque ricevuto premi importanti e riconoscimenti a livello mondiale. Nel 2004, gli fu consegnato il Premio IgNobel per la Pace (una parodia del Premio Nobel dedicato a studi e invenzioni improbabili) per "aver donato alle persone un nuovo modo di imparare e di tollerarsi gli uni con gli altri". Inoltre, può vantare di essere stato eletto uno dei giapponesi più influenti del XX secolo e di avere un film basato sulla sua vita.
Ora sapete chi ringraziare se, le prossime vacanze di Natale, invece di sorbirvi i soliti noiosi discorsi, tutti potranno sentire il vostro potente canto e, almeno per un po’, allontanare i pensieri ascoltando la vostra interpretazione di tutto quello che Mariah Carey voleva per Natale.
Da quando i gatti senza il pelo si chiamano “Sphynx”?
Gli Sphynx, gatti per certi versi simili ai polli del supermercato per la quantità di pelle in vista, sono ad oggi una tra le razze più popolari e costose al mondo. Mentre notiamo che il suo aspetto un po’ atipico e gli occhi risaltati dall’assenza di pelliccia sono sempre più attuali, non siamo invece sicuri a quando far risalire la loro origine. Inizialmente rappresentavano un’anomalia genetica: come le mani a sei dita o l’eterocromia degli occhi negli esseri umani, la mutazione del gene recessivo “hairless” (senza pelo) nei gatti era piuttosto rara. Per questo, come qualsiasi difetto genetico, non è per niente facile risalire alla data di nascita precisa del primo gatto senza pelo. Tuttavia, è possibile sapere quando l’uomo ha deciso di farli accoppiare, dando origine alla razza vera e propria.
Nel 1966 a Toronto, Canada, una gatta domestica partorisce una cucciolata di gattini tutti “nudi”. Due degli esemplari, Pinkie e Paloma, furono importate nei Paesi Bassi dal dottor Hugo Hernandez e incrociate con dei Devon Rex, razza anch’essa rara e dall’aspetto particolare. Negli anni ‘80 Aline Noel Garel, un’allevatrice di gatti e giudice di concorsi felini francese, decide di comprare due gatti della cucciolata ottenuta dallo studioso olandese, Gizmo e Mogwaï. Da loro nasce la piccola Amenophis Clone i cui tratti permetteranno di tracciare le caratteristiche distintive della razza. Nel 1986 lo Sphynx viene ufficialmente riconosciuto in tutto il mondo.
Oltre a quella umana che talvolta può non essere di totale apprezzamento, curiosa è la reazione degli altri gatti davanti ad uno Sphynx La stessa Aline Noel sostiene che ci sia una sorta di sorpresa e una forma di distacco verso i gatti senza pelo da parte dei loro colleghi. Come se gli Sphynx fossero nudi e gli altri gatti preferiscono cercare altra compagnia; il che succede solo in un senso perché, al contrario, gli Sphynx non sembra abbiano pregiudizi nei confronti degli amici pelosi.
Amante o no dei felini che uno sia, questa razza affascina il mondo intero con la sua capacità di aprire dibattiti semplicemente esistendo. Alcuni sono arrivati persino a sostenere che esso sia il frutto di un laboratorio. Mentre tutte queste opinioni su di lui e sulla sua bellezza generano discussioni non meno importanti di quelle sulla sua origine, io mi domando semplicemente se in estate abbiano bisogno di una crema solare.
Da quando il palo al lato della strada con tre lucette colorate in cima si chiama “semaforo”?
Non è solo a Natale che le nostre strade sono punteggiate di luci. I lampioni rischiarano la carreggiata tutte le notti dell’anno e nulla impedisce più ai pedoni di attraversare la strada di sera, sempre illuminati da qualche faro e risaltati (si spera) da un bel giubbotto catarifrangente. In più, la segnaletica stradale non offre solo delle tristi e asettiche luci bianche: pensiamo per esempio all'ampia gamma di colori offerta dai semafori.
Rosso acceso, verde brillante e giallo tuorlo, sinonimi rispettivamente di “fermo”, ”puoi andare” e “fai come vuoi, ma ti suggerisco di rallentare”. Questa convenzione universalmente e fermamente consolidata prende ispirazione dai colori usati (già prima del semaforo) nelle linee ferroviarie e nella marina.
Dopo il suo debutto fallimentare nel 1868 a Londra, letteralmente esploso in mille pezzi, il primo esempio di successo di questo tipo di segnaletica verticale è stato messo in funzione nel 1914 con due sole luci, rosso e verde. Dapprima azionato manualmente, il sistema automatico in grado di controllarli si metterà al servizio della circolazione cittadina due anni dopo, partendo dagli Stati Uniti per poi sbarcare in Europa. In seguito, nel 1920, subisce un’evoluzione: il freddo ottobre di Detroit vide in anteprima mondiale il semaforo a 3 tempi, con l’aggiunta di una luce gialla.
Per quanto riguarda l’Europa, il primo fu installato a Parigi nel 1922, seguita subito da città come Amburgo e Berlino in Germania o Milano, dove ancora oggi tra piazza Duomo, via Orefici e via Torino è conservato il primo semaforo italiano risalente al ‘25. Altre strade dove furono piazzati furono quelle di Roma, Londra e Torino.
Con l’avvento della tecnologia, i sistemi automatizzati diventano sempre migliori nel controllare in maniera adeguata il viavai. Questi alberi di Natale in miniatura sono posizionati in corrispondenza di attraversamenti pedonali, hanno aggiunto timer per sapere quando attraversare oppure, in alcuni, troviamo addirittura la sagoma della bicicletta. A questo punto, ne manca solo uno creato appositamente per i popolarissimi monopattini elettrici e siamo a cavallo.
Da quando la bambola alta bionda e slanciata interpretata da Margot Robbie si chiama “Barbie”?
Il recente film di Barbie ha decisamente fatto parlare di sé. Il film evento ha proiettato nelle sale di (quasi) tutto il mondo un manifesto femminista pieno di musica, coreografie, rosa shocking e piccoli dettagli che alludono chiaramente alla società attuale. Non è nemmeno mancata la presenza del conosciutissimo Duolingo nelle brevi scene in cui il padre di Sasha cerca di imparare lo spagnolo.
Conosciamo tutti quella scena in cui Margot Robbie scende leggiadra dal tetto della casa dei sogni con la gonna svolazzante o Ryan Gosling che inforca due paia di occhiali da sole uno sopra l'altro. Sono sequenze iconiche che si vogliono imprimere nella nostra memoria perché l'obiettivo è essere il veicolo appariscente di un messaggio significativo. Ma sappiamo come sono nate le bambole della Mattel alla base di questa storia?
L'ideatrice di Barbie è stata Ruth Handler (1916-2002). Fedele al suo ruolo di madre, si ispirò al modo di giocare della figlia, provando a suggerire una linea di bambole dall'aspetto adulto. Lungi dall’improvvisarsi imprenditrice, ne parlò con suo marito Elliot, cofondatore della casa produttrice di giocattoli Mattel. Inizialmente non del tutto convinto, alla fine egli accettò la proposta e fece in modo che il 9 marzo 1959 la prima Barbie fosse posta sullo scaffale di un negozio. Il nome del giocattolo proviene dal diminutivo di Barbara, la figlia di Ruth. I primi modelli esordirono con un costume da bagno zebrato, la pelle chiara e i capelli sia neri che dorati, nonostante nell’immaginario collettivo la Barbie sia classicamente bionda.
La Mattel si occupò in seguito di accrescerne la fama inventando una vera e propria biografia: il suo nome completo è Barbara Millicent Roberts, ha una famiglia, degli amici e un'immensa filmografia dedicata solo a lei e alle sue infinite personalità. Da poco, inoltre, sappiamo che vive a Barbieland e che è pioniera di tutto ciò per cui le donne lottano da anni e che non è ancora del tutto conquistato.
Da quando l’oggetto borbottante per fare il caffè si chiama “moka”?
Prima di approfondire la sua storia bisogna spiegare cosa sia un marchionimo. Esso si crea quando il nome di una marca, o quello che essa dà ad un prodotto specifico, entra nel linguaggio comune per designare tutta una categoria di articoli simili. Esempi di marchionimi sono i Post-it, lo Scotch, il Borotalco, la Jacuzzi… tutte marche diventate l’esempio per eccellenza di prodotti che ormai non riconosceremmo sotto il nome di “nastro adesivo” o “vasca a idromassaggio”. La moka è uno di questi: chiameremo così una qualsiasi caffettiera, di una qualsivoglia marca e tipologia, affidandole il nome che inizialmente Bialetti aveva pensato solo per la propria. A proposito… sapete che fu proprio lui a inventare la prima?
Alfonso Bialetti nasce a Montebuglio (Piemonte) nel 1888. Fin da giovane lavora come operaio e nel 1918 apre la sua propria fonderia, la ”Alfonso Bialetti & Co”. Nel 1933 approda con una nuova idea che si sostituisce alla tradizionale Cuccumella napoletana, evoluzione di non so che altra versione francese di caffettiera, e ad ogni altra invenzione precedente. Fino ad allora, per ottenere l’aromatica miscela che “più mandi giù, più ti tira su”, esistevano diversi strumenti provenienti da varie nazioni, ma Alfonso è arrivato per mettere tutti d'accordo. Il piccolo strumento in alluminio progettato da lui stesso, con l'elegante base ottagonale e una silhouette che ricorda un vestito da sera, diventò il modo più comune per preparare il caffè. La chiamò moka ispirandosi alla città yemenita di Mokha, ma è nota anche come “caffettiera Bialetti”.
È d'obbligo per ogni imprenditore che si rispetti apprendere dalle esperienze e applicare gli insegnamenti al proprio campo. Il signor Bialetti non fu da meno. Si dice che l'idea gli sia venuta osservando la "lisciveuse" in azione, un’antenata della lavatrice che consisteva nel far bollire dell'acqua in un pentolone sopra al quale stavano i panni, posti sopra un filtro, che venivano puliti dal vapore.
Da novant'anni questo oggetto porta incisi i baffetti di un ometto che fa capolino dietro gli stipiti delle nostre credenze ogni mattina per farla profumare di buon risveglio e di bella giornata. Ma soprattutto riesce ancora a tenere testa fieramente alla concorrenza delle macchine a cialda, una competizione tra ronzii fastidiosi e quel soddisfacente borbottio di quando il caffè è pronto.