Blaise Pascal definiva l’essere umano come un “giunco che pensa”, espressione volta a mettere in evidenza la fragilità umana davanti alla molto più potente forza della natura (il giunco è infatti una pianta fluviale non particolarmente resistente) ma anche la sua più alta dignità rispetto al resto del cosmo, perché è consapevole della propria condizione esistenziale; anche se dovesse morire, morirebbe sapendo di starlo facendo.
Pascal articola la condizione esistenziale umana come una situazione instabile, caratterizzata da un posizionamento tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, il tutto e il nulla. Per esempio, ci sentiamo grandi in confronto a tutti gli atomi del nostro corpo, ma piccoli rispetto alla vastità dell’universo, la grandezza delle imprese umane è dunque relativa alla nostra piccolezza. Questa condizione, che ci pone come qualcosa di sofisticato e in qualche modo complesso (pensiamo all’autocoscienza, poniamoci come l’universo che prende consapevolezza di se stesso) ma che in realtà ci dimostra quanto siamo insignificanti e contingenti, quanto sia le nostre vite individuali così come la storia dell’umanità siano solo una piccola appendice rispetto al tutto, è comparabile a quella che verrà definita disperazione da Kierkegaard circa un secolo e mezzo più tardi. Se per Pascal l’essere umano fronteggia e fa i conti con la sua condizione con il divertissement (letteralmente il divertimento, ma qui inteso più propriamente come distrazione), concetto secondo il quale tutto ciò che facciamo è intrattenimento che mettiamo in atto per non pensare alla nostra condizione, Kierkegaard fa il passo successivo e ci dice che l’individuo farà i conti con la propria condizione nella maniera in cui questo decide di vivere, dandosi un’identità (dunque accettando la propria finitezza) o aspirando all’infinito, ovvero sperimentando diversi modi di essere senza sceglierne alcuno, diventando così - per riprendere un’espressione di Pirandello - nessuno. Entrambe le opzioni portano dunque alla disperazione: l’uno è ingabbiato, la sua identità si erge come un muro sempre più difficile da scavalcare (o trascendere); il nessuno è vuoto, e le diverse modalità di essere iniziano a diventare noiose, prive di significato e dunque, in un certo senso, alienanti.
L'unica soluzione a questa condizione precaria è dunque quella di “farsi forza”. Pensiamoci un attimo: tutt’a un tratto, siamo gettati nel mondo, in un dato contesto storico e sociale; siamo in qualche modo chiamati a gestire le nostre scelte, trovare la nostra strada, conferire il nostro senso all’esistenza, senza aver desiderato tutto ciò, perché eravamo nulla, o non-eravamo; dobbiamo "arrangiarci", non nel senso che siamo soli (poiché raramente è vero), ma nel senso che l’individuo è l’unico che può giustificare a se stesso la propria esistenza; l’unico che può conferire un significato, un fine, non assoluto ma trasvalutato (trasvalutato, in Nietzsche, significa legato all’attività creatrice del soggetto e dunque alla sua individualità, ovvero un valore non oggettivo ma personale) a ciò che però non ha fondamento. Sartre definisce “nausea” il sentimento che coglie l’individuo quando si rende conto di questa assurdità, questo - se vogliamo - compito ingrato che gli spetta. Alla fine di questo percorso torniamo ad essere nulla, a non-essere, di quello che abbiamo costruito non ci rimane nulla, né le memorie né gli sviluppi. Siamo il nulla che ad un certo punto si fa qualcosa e deve dare senso al tutto per poi tornare ad essere nulla. È sicuramente tragicomico, è innegabile; tragico per tutto ciò che implica, ma comico perché è quasi paradossale: le vicende umane, che ci occupano e preoccupano per tutta la nostra vita, si fanno in realtà così leggere, così contingenti e assurde; è qualcosa di innegabilmente catartico. L’unica preoccupazione che rimane è la morte, se troviamo diletto nelle vicende delle vita; perché la vita è sicuramente qualcosa, la morte è invece il passaggio dal qualcosa al nulla.
È comunque importante tenere a mente che tale intrattenimento davanti allo svolgimento delle vicende umane non deve necessariamente trasformarsi in cieca indifferenza: accettando acriticamente quel che succede si rischia di diventare spettatori; si rischia di alienarsi completamente da una realtà di cui però siamo parte; una realtà di cui siamo soggetto ma anche oggetto. Sartre sosteneva che lo sguardo altrui ci infastidisce e ci fa vergognare perché appunto ci ricorda che siamo parte del tutto, e non spettatori passivi; che non solo percepiamo ma siamo anche percepiti.
È dunque in questo che il nichilismo passivo (in Nietzsche, l'atteggiamento di chi, dovendo fare i conti con il vuoto lasciato dalla morte di Dio, si lascia consumare da un sentimento di angoscia e di perdita, perdendo ogni motivazione riguardo l'intraprendere un ruolo attivo nella propria vita) fallisce: si rifà eccessivamente alla razionalità, la quale non sa agire se non in vista di un fine; preferisce il far nulla al fare per divertissement, chiudendosi nell’autocommiserazione; come se il lamentarsi di vivere senza agire fosse meglio del vivere per la vita stessa, per la fortuna dell’essere il nulla che si fa qualcosa. Pensa alla fine come se il durante non esistesse, guarda alla vita come un libro che non legge, poiché anche se lo leggesse tornerà al non leggerlo; e dunque non ne riconosce il valore. Prende il nulla e lo sostituisce al qualcosa, mentre il nulla è il fondamento dell’essere, non l’essere stesso.
Alla luce di tutte queste linee di pensiero possiamo infine riconoscere la fragilità dell’io: questa sta nel suo essere essenzialmente paradosso. Non può essere definito, perché aspira ad essere di più; nel cercare di essere di più, si perde e diventa nulla; il suo perdersi è dato dal fatto che non ha un fine prestabilito e certo, allora si guarda indietro, al suo fondamento, ma anche lì non trova nulla. Infine, non può né muoversi né girarsi: non vede niente, e ovunque vada è sbagliato; ma se tutto è sbagliato, allora nulla lo è davvero; e pensarlo incastrato è anch’esso fallace in quanto dove non c’è niente c’è libertà assoluta. Dunque eccolo là, tra il tutto e il nulla, in un sistema di riferimento che però si muove con lui.
Giovanni Cardin - 5D