Proust e Longhi e Giotto

Proust

Dalla parte di Swann

simboli, realtà e allegorie


Questi somigliavano alle guarnacche che rivestono certe figure simboliche di Giotto di cui il signor Swann mi aveva regalato le fotografie. Era stato proprio lui a farcelo notare, e quando ci chiedeva notizie della sguattera diceva: «Come sta la Carità di Giotto?». Lei stessa, d’altronde, povera ragazza, ingrassata dalla gravidanza fin nel viso, fin nelle guance che spiovevano dritte e quadrate, era in effetti abbastanza somigliante a quelle vergini forti e mascoline, alquanto matronali, in cui, all’Arena, sono personificate le virtù. E mi rendo conto adesso che quelle Virtù e quei Vizi di Padova le assomigliavano anche in un altro senso. Come l’immagine di lei era accresciuta dal simbolo aggiunto che portava sul ventre senza aver l’aria di capirne il significato, senza che nulla nel suo viso ne traducesse la bellezza e lo spirito, alla stregua di un semplice e pesante fardello, così è senza mostrare di dubitarne che la poderosa massaia raffigurata all’Arena con la designazione di “Caritas”, e la cui riproduzione era appesa alla parete della mia stanza di studio a Combray, incarna la virtù in questione, e senza che il minimo pensiero di carità abbia mai potuto essere espresso, si direbbe, dal suo volto energico e volgare. Grazie a una bella invenzione del pittore, essa calpesta i tesori della terra, ma esattamente come se pigiasse dell’uva per estrarne il succo o, meglio, come se fosse salita in piedi su un cumulo di sacchi per stare più in alto; e tende a Dio il suo cuore infiammato o, per essere più precisi, glielo “passa” così come una cuoca passa un cavatappi attraverso la finestrella del suo seminterrato a qualcuno che gliel’ha chiesto dal pianterreno. L’Invidia, magari, una certa espressione d’invidia l’avrebbe effettivamente avuta. Ma, anche in quell’affresco, il simbolo occupa tanto spazio ed è rappresentato così realisticamente, il serpente che soffia sulle labbra dell’Invidia è così grosso e riempie così completamente la cavità della sua bocca spalancata, che i muscoli del volto sono tesi per riuscire a contenerlo, come quelli di un bimbo che gonfia col suo fiato un palloncino, e l’attenzione dell’Invidia – non diversamente dalla nostra – non ha certo molto tempo, tutta concentrata com’è sull’azione delle labbra, da dedicare a pensieri invidiosi.

Nonostante l’ammirazione che il signor Swann professava per quelle figure di Giotto, per diverso tempo non provai alcun piacere a osservare nella nostra stanza di studio, dove le copie ch’egli me ne aveva portate erano state appese, quella Carità senza carità, quell’Invidia simile più che altro alla tavola di un libro di medicina illustrante la compressione della glottide o dell’ugola per effetto di un tumore della lingua o di uno strumento introdotto dall’operatore, una Giustizia il cui volto grigiastro e meschinamente regolare era lo stesso che, a Combray, caratterizzava certe graziose borghesi secche e devote che vedevo alla messa e che in buona parte erano già arruolate nelle truppe di riserva dell’Ingiustizia. Ma poi ho capito che la soggiogante stranezza, la singolare beltà di quegli affreschi dipendeva dal vasto spazio occupatovi dal simbolo, e che il fatto ch’esso fosse rappresentato non come simbolo, giacché il pensiero simbolico non vi trova espressione, ma come una realtà, effettivamente subìta o materialmente maneggiata, dava al significato dell’opera un che di più letterale e preciso, al suo insegnamento un che di più sorprendente e concreto. Anche nel caso della povera sguattera, l’attenzione non era forse incessantemente ricondotta al suo ventre dal peso che lo tendeva? E, sempre nello stesso modo, molto spesso il pensiero degli agonizzanti si volge verso il lato effettivo, doloroso, oscuro, viscerale, verso quel rovescio della morte che è appunto il lato ch’essa presenta loro, facendoglielo duramente sentire, e che assomiglia assai più a un fardello che li schiaccia, a una difficoltà di respirare, a un bisogno di bere, che non alla cosiddetta idea della morte.

Bisognava che quelle Virtù e quei Vizi di Padova contenessero una bella dose di realtà se mi apparivano altrettanto vivi quanto la serva incinta e se quest’ultima, a sua volta, non mi sembrava molto meno allegorica. E forse questa non-partecipazione (almeno apparente) dell’anima d’una creatura alla virtù che agisce per suo tramite ha anche, a parte il valore estetico, una realtà, se non psicologica, perlomeno – come si suol dire – fisiognomonica. Quando, più tardi, nel corso della mia vita ho avuto occasione d’incontrare, per esempio in qualche convento, delle incarnazioni veramente sante della carità attiva, avevano generalmente l’aspetto allegro, positivo, indifferente e brusco del chirurgo indaffarato, quel volto nel quale non si legge nessuna commiserazione, nessuna commozione di fronte alla sofferenza umana, nessun timore di urtarla, che è il volto senza dolcezza, il volto antipatico e sublime della vera bontà.


Longhi

Breve ma veridica storia dell’arte

leggerezza e pesantezza


Ed ora vorrei che pensaste voi stessi che cosa Giotto non poteva esprimere. Voi di certo avete sentito emanare dalla saldezza dei corpi un senso di energia morale, per quanto

rozza e primordiale. Ora che doveva avvenire quando Giotto avesse la mano forzata dall'imposizione del soggetto ad esprimere tutto ciò che nella vita è spiritualità raffinata, gentilezza, leggiadria, finezza affettiva? Evidentemente tutto ciò non gli poteva riuscire a bene, mentre poteva per contro esser simbo­leggiato assai meglio dall'affilatezza lineare, dalla incorporeità delle esilissime forme di Duccio, cioè con la linea floreale.

Così dovendo - sempre a Padova - rappresentare le Virtù e i Vizi, rappresentò assai bene i vizi, simboli di violenza e di brutalità corporea; rappresentò egualmente bene certe virtù assai terrene e medievali come la Fortitudo; talora per esprimere come al solito plasticità forzò il significato psichico di certe figure: come nell'Incostanza; talora infine decadde per aver voluto affinare il suo segno e scorporare le sue forme ad esprimere una significazione psichica - come nella Fede o nella Speranza - non atta a simboleggiarsi nella sua convinzione di forma eternamente salda e robusta.

Ecco infatti alcuni Vizi meravigliosi. L'lnfidelitas per esempio: quale prodigiosa creazione! Sposta faticosamente la sua mole sul fianco che discende come un cateto inviolabile; mentre a destra discende largamente lachina del corpo fimo al ginocchio basso. Ed ecco l'idolino sollevato sulla fiamma solida e compatta, ristabilisce vertical­mente l'equilibrio spostato con quel semplice trar di cordicella. L'Invidia; quale squadro di vecchiezza arcigna, e come si apposta saldamente tra le bacche solidissime della fiamma. La Desperatio: tutta espressa da quello stirarsi violento della veste all'ascella! E il motivo mirabilmente grave del panneggio che riesce a toccar terra mentre i piedi penzolan nel vuoto! La Fortezza: ecco almeno una Virtù adatta a Giotto pittore: questa matrona corazzata dietro l'assito del suo scudo insupe­rabile. L'Incostanza: pensate con quale ritmo di vento e di moto l'avrebbe rappresentata Duccio con la volubilità di cui è capa­ce, per l'appunto, la linea! Ma Giotto? per lui il problema non può esser che risolto in questo modo: supponendo che l'Inco­stanza diventi per un momento costante di posa e d'intenzione; ecco falsata la psicologia di questo vizio, ma ecco risolto per Giotto il problema artistico. Vedetela infatti assestarsi alla meglio sulla sfera, fermandosi la veste con la pianta del piede, in un mirabile motivo di pressione e di tensione! Ma quale insuccesso al contrario in questa Temperanza in questa Fede troppo plastiche per essere temperanti e credenti, troppo scarne per esser belle in senso giottesco! Giotto che vuole fare calligrafia; nulla di più triste.

Se questo adunque avveniva nella rappresentazione di sin­gole figure, che doveva avvenire nella interpretazione di scene complesse? Vi dovete richiamare a ciò ch'io dissi sulla impossi­bilità per il pittore di ricercare troppo il contrasto e la finezza psicologica. Il carattere che è affar di letteratura una volta ricercato dal pittore lo induce inevitabilmente a continue varia­zioni formali, di squadro corporeo, di tipi ecc. Per esprimer bene insomma la psicologia di una scena drammatica Giotto avrebbe dovuto far persone tutte diverse; eppure voi sapete che per far grande pittura egli non poteva che far le persone tutte uguali.

Ecco adunque un'altra riprova dell'indipendenza del soggetto dall'arte figurativa. Si può ulteriormente pensare a una fortunata coincidenza della psicologia di un soggetto col simbolo emanato dalla forma: non nego. E allora se pensiamo allo spirito raffinato spirituale incorporeo della leggenda Francescana possiamo credere ch'esso fosse passibile di coincidenza formale, per opera di Giotto? Evidentemente no.