Gadda

La cognizione del dolore

Il ritratto del fascismo durante il fascismo

In quegli anni, tra il 1925 e il 1933, le leggi del Maradagàl, che è paese di non molte risorse, davano facoltà ai proprietari di campagna d’aderire o di non aderire alle associazioni provinciali di vigilanza per la notte - (Nistitùos provinciales de vigilancia para la noche); e ciò in considerazione del fatto che essi già sottostavano a balzelli ed erano obbligati a contributi molteplici, il cui globale ammontare, in alcuni casi, raggiungeva e financo superava il valsente del poco banzavóis che la proprietà rustica arriva a fruttare, Cerere e Pale assenziendo, ogni anno bisestile: cioè nell’anno su quattro in cui non si sia verificata siccità, non pioggia persistente alle semine ed ai raccolti, e non abbi avuto passo tutta la carovana delle malattie.
(p.16)


Questo è il celebre incipit della cognizione del dolore, che Carlo Emilio Gadda ideò e iniziò a pubblicare in pieno regime fascista. Dietro il paese sudamericano del Maradagal si nasconde, ma neanche tanto, l’Italia, un paese povero e fragile, uscito male dalla prima guerra mondiale e in mano a un regime criminale. Il fascismo è evocato dall’obbligo di aderire a minacciose associazioni di vigilianza notturna i Nistituo provinciales de vigilancia para la noche


Nella provincia di Zigo-Zago, a mo’ d’esempio, fu assunto nel 1926 un vigile ciclista che doveva sorvegliare una zona due chilometri lunga: pochissimo frequentata, questo è vero, dai ladri, che non vi avevano nulla a poter rubare, se non delle stoppie. Il poveraccio aveva una gamba rigida: ed era anche riuscito a farla passare per gamba rigida di guerra, mentre si trattava in realtà di un’anchilosi al ginocchio, di probabile per quanto remota origine sifilitica. Egli adottò una bicicletta con un solo pedale, a destra, per la gamba sana: e dall’altro lato, da babordo, lasciava pencolare la sinistra diritta, come un barcarizzo della murata. Nel mito e nel folklore locale, dopo un po’ di tempo, la gamba rigida e non pedalante si tramutò addirittura in una gamba di alluminio. Quando accaddero furti di polli, tutti dissero: «Oeh! Per un furto di polli!»: e quando accadde qualche fatto più grave, tutti dissero: «Povero cristo, anche lui! ha da guardare mezzo circondario! e con quella gamba di alluminio!». Altri dissero: «Ha moglie e figli!». Altri, facendo spallucce: «Vivere e lasciar vivere!». Son buona gente, nel Maradagàl.

E poi lo scandaletto rurale di Lukones, nell’arrondimiento del Serruchón, questo in provincia di Novokomi.
(p.19)


Appare chiaro che i Nistituo non hanno né i mezzi né le competenze per garantire quella sicurezza per cui si fanno pagare, anche perché i problemi sembrano piuttosto portarli loro, e anche gravi: lo “scandaletto” di Lukones (di Lecco nella geografia allucinata gaddiana) è l’inquietante anticipazione delle vicende narrate nel libro


Lo sgangherato vigile è Pedro Mahagones, o Manganones (quasi Manganello) in realtà Gaetano Palumbo, falso mutilato di guerra, vero ricattatore è emblema della camicia nera in tutto il suo squallore


Allora, senza visiera, gli occhi rimanevano soli al comando, ferivano l’interlocutore con una espressione di richiesta e di attesa, si aveva la sensazione di dover assolutamente pagare qualche cosa, una specie di multa virtuale, per legge: perché così voleva la legge
(p.21)


Memorabile la definizione del fascismo come un sistema intimidatorio che tiene sotto controllo la nazione infondendo paranoia, la paura di sentirsi sempre in debito, sempre in colpa, di dover assolutamente pagare qualche cosa.


Il protagonista, Gonzalo Pirobutirro, vive solo con la madre in una grande e costosa villa di famiglia. Non vuole spendere un soldo, dei pochi che gli rimangono, per abbonarsi ai Nistituos, in realtà non vorrebbe avere nessun contatto con anima viva.


«Del resto[...] Basta che lo dica al Pedro, voglio dire al Gaetano, la prima mattina che lo sente passar di qui... Che le rilascia subito la bolletta... Quando lei ha pagato la prima bolletta, è come se avesse firmato il contratto d’abbonamento... Loro si impegnano per 25 anni...».

I quali venticinque anni furono subito una idea ossessiva per un tal fanatico della libertà, che avrebbe voluto scegliere, costruire il proprio destino di minuto in minuto.

«Perché hanno un contratto unico... un contratto-tipo... che deriva senz’altro dal regolamento... Poiché loro si attengono al regolamento... Anzi, se ben ci penso, deve essere una disposizione di legge...».

«...Non credo... legge...», sussultò il figlio arrossendo, con severità dura. Aveva, della legge, un concetto sui generis; non appreso alla lettura dell’editto, ma consustanziato nell’essere, biologicamente ereditario. E faticava a riconoscere la specie della legge in un abuso o in un arbitrio, tanto più, anche, in una soperchieria.
(p. 101)


I venticinque anni di abbonamento suonano terribilmenti precisi ripensando al regime fascista, che pervertì lo stato liberale a colpi di leggi approvate proprio da quel parlamento che infine sciolse.


«...Ossia, già, ma Lei deve considerare l’ordinanza governatoriale 5888».

Ne avrebbero dovute chiedere duecento, stando alle tariffe, ridotte però a cento: e ciò per pura bontà d’animo. Cento: date le dimensioni della torre: e dato il fatto che l’asta del parafulmine funzionava anche da antenna per la bandiera nazionale nei giorni di ricorrenza. Secondo le leggi del Maradagàl le due funzioni devono essere disgiunte, cioè demandate ad organi separati: poiché a rigore di logica l’antenna della bandiera nazionale, (e tanto meno la bandiera), non deve mai servire da parafulmine. Sarebbe proprio, orazianamente parlando, un miscere sacra profanis. Però il Nistitùo poteva chiudere un occhio, visto che il Governatore lo aveva autorizzato a chiudere un occhio... Inoltre la bandiera aveva dimensioni di m 1,80 x 2,80, cioè adeguate alle facoltà del signor cav.r Trabatta... Sicché con una bandiera simile, sarebbe stato opportuno... «...Pagare più degli altri?...», disse il vecchio. «...Ma allora ditelo chiaro, è un’altra tassa. Mi fate esporre la bandiera per incollarmi una tassa sulla bandiera: e una sul parafulmine...».

«...Una tassa?... Ma neppur per sogno... È in facoltà del proprietario di accettare o rescindere».

«...E allora che cosa gli fa a lei, voglio dire che cosa implica, per loro, la bandiera?...», aveva chiesto il finanziere, toltosi il pince-nez e rasciugatene accuratamente le lenti, con occhi a zero, riprendendo la frase sciatta con la forbita, e aspirando.

Sicché dopo il tira e molla se ne erano usciti delusi, un’ennesima volta.


Ora, Dio è grande.

Come il Thina dei vecchi tusci, anche il Dio di noialtri gli è un tipo di quelli che conoscono puranche bene il proprio mestiere: certi porconi, lui non ha premura: lui li lascia fare, e fa anzi le viste di non essersi accorto di nulla: e gira gli occhi alla larga, così, perché intanto abbada ad altri, ché delle grane, se si mette a cercarle, ne trova tante che non pulci un cane tra i peli. E quello seguita, seguita credendo che tutto vada per suo merito: e Lui tutt’a un tratto, zànchete, gli scaraventa tra i coglioni la manubia numero uno, ch’è il fulmine premonitore: un giallone troja a zig-zag, spaventoso, con una sfiammata abbacinante e poi uno sparo secco, da far accapponare la pelle.

Quello, eh, eh, fa il disinvolto... si dà, sì, l’aria del me ne impipo... ma intanto in cuor suo ha già cominciato a capire che le gambe gli cominciano a fare giacomo giacomo. E qualche volta si sente anche un certo tepore molle nelle mutande, e, cambiatosi i panni, quella marmellata se l’è goduta la lavandaia... Dopo un po’, siccome però vede che tutto va come prima, riprincipia, il fetente... Ed è proprio la volta, allora, che Thina gli molla la seconda briscola, il peremptorium, e tiene pronta la terza per subito dopo, cioè il fulmine stroncatore, scavezzacollo. Questo è il fulmine definitivo che ti lascia, al posto del delinquente, una chiazza nerastra per terra, arsiccia, da cui certe volte esala un breve odore di solfiti e ammoniaca: e nient’altro. Nient’altro, capite? Nient’altro, nient’altro se non un breve odore di solfiti e di ammoniaca, che un fiato di vento annichila nell’aria. Nient’altro.

Così, o press’a poco, era accaduto al Trabatta reo di empietà nei confronti del Nistitùo para la Noche.
(p.177)


In questo saggio dello stile inimitabile del Gadda, costretto a fare appello a tutta la tradizione della lingua italiana e non solo per avere gli strumenti per descrivere un mondo che gli appare pazzesco, si descrive crudamente quel che succede a chi non vuole abbonarsi al Nistituo. Il Nistituo ci tiene alle apparenze legali, ma non nasconde il suo volto violento.


Il Manganones difatti, da quando aveva assunto la sorveglianza della zona e perciò delle ville contigue al Trabatta, ch’erano abbonate, s’era del pari procurato una speciale pratica nell’escludere dalla sorveglianza le ville non abbonate: queste molto giustamente venivano abbandonate alla loro sorte. Come facesse ad escluderle, non si sa di preciso: forse, passandoci davanti, chiudeva gli occhi e voltava la faccia dall’altra parte. Certo è che adempiva così scrupolosamente e così efficacemente a’ suoi obblighi che non s’era mai dato il caso che alcuna delle ville abbonate avesse mai patito il benché minimo oltraggio. Le ville abbonate poi erano così pietosamente prive di vasellame e di biancheria da letto, che i ladri fiutata di lontano la fatica inutile le lasciavano godere tranquillamente il loro abbonamento, sotto la padella stellata della notte.
(p.180)


La nazione è tenuta in scacco da un sistema mafioso, che si è diffuso, come un tumore, nel tessuto della società.

Eppure non è serio: pur rimanendo lontano dalle aspre invettive del Pasticciaccio o di Eros e Priapo, Gadda non riesce a descrivere il regime fascista senza il dovuto sarcasmo, neppure in questo che è il suo romanzo più intimo e riflessivo.


Carlo Emilio Gadda La cognizione del dolore, Garzanti