I protagonisti del film sono schiacciati dalle circostanze, sono totalmente assoggettati ad esse e si comportano di conseguenza. Di queste persone non riuscireste a dire in maniera positiva chi tra esse è buono e chi è cattivo. Io, per esempio, non potrei mai affermare che il personaggio interpretato da Max von Sydow sia una persona cattiva. Tutti sono in parte buoni e in parte cattivi, a modo loro. Non ci sono condanne, perché le circostanze del film vengono utilizzate dal regista per indagare le possibilità umane che esse mettono alla prova, e non per illustrare una tesi aprioristica.
Com’è profondamente elaborato il personaggio di Max von Sydow! Si tratta di un’ottima persona. Un musicista. Un uomo buono e fine. Si scopre che egli è un vile. Ma non tutte le persone audaci sono buone e non sempre il vigliacco è un mascalzone. Naturalmente egli è un uomo debole e privo di carattere. Sua moglie è molto più forte di lui ed ha forze a sufficienza per superare la propria paura. Al personaggio interpetato da Max von Sydow, invece, le forze fanno difetto. Egli soffre per la propria debolezza, per la propria vulnerabilità, per la propria incapacità di resistere: egli si sforza di nascondersi, di rifugiarsi in un angolo, di non vedere, di non sentire, e lo fa come un bambino: in maniera del tutto sincera e ingenua. Quando però la vita e le circostanze lo costringono a difendersi egli si trasforma di colpo in un mascalzone. Egli perde ciò che vi era di migliore in lui, ma tutta la drammaticità e l’assurdità della situazione consistono nel fatto che in questo suo nuovo aspetto egli diviene necessario a sua moglie che, a sua volta, cerca in lui sostegno e salvezza, mentre prima lo disprezzava. Ella gli striscia davanti quando egli la percuote in viso e le dice: “Vattene!”. Comincia a risuonare l’idea, antica come il mondo, della passività del bene e dell’energicità del male, ma con quale complessità essa viene espressa! All’inizio il protagonista del film non sarebbe capace di uccidere neppure una gallina, ma non appena egli trova il mezzo di difendersi si trasforma in un cinico spietato.
Nel suo carattere c’è qualcosa di amletico: nel senso che, secondo la mia interpretazione, il principe di Danimarca non muore in seguito al duello con Laerte, quando, cioè, muore fisicamente, bensì subito dopo la scena della “caccia al topo”, non appena egli scopre l’inesorabilità delle leggi della vita che costringono lui, l’intellettuale umanista, a diventare simile alle nullità che popolano Elsinore. Questo tenebroso personaggio (parlo del personaggio di Max von Sydow) ora non ha più paura di nulla: egli uccide, non muove un dito per salvare un suo simile, egli agisce per il proprio bene.
Il fatto è che bisogna essere molto onesti per provare timore di fronte alla sporca necessità di uccidere e di umiliare. Perdendo tale timore e, apparentemente, acquistando con ciò stesso il coraggio, una persona, in realtà, perde la propria spiritualità, la propria onestà intellettuale, si congeda dalla propria innocenza. La guerra fa venire a galla in maniera particolarmente evidente i principi crudeli e disumani negli uomini. In questo film di Bergman la guerra svolge la stessa funzione di rivelatore della sua concezione del mondo che aveva svolto l’eroina del film Come in uno specchio scuro…
Bergman non permette mai ai suoi attori di porsi al di sopra delle circostanze nelle quali sono collocati i loro personaggi e per questo ottiene risultati straordinari. Nel cinema il regista deve ispirare nell’attore la vita e non farne un megafono per le proprie idee.