Il punto di vista di Ivan è quello dell’esperienza. In un mondo concepito sul modello della meccanica ("tutto scorre e si equilibra") è comprensibile la sofferenza, ma non la colpa.
Se la natura è un sistema di forze che si compensano e tendono all'omeostasi, in moto perpetuo, allora il pensiero scientifico ("euclideo") non può ammettere il problema del male: il male è davvero scandaloso solo se c'è Dio.
"Ascoltami: ho preso il caso dei bambini perché tutto fosse più evidente. Di tutte le altre lacrime dell'umanità, delle quali è imbevuta la terra intera, dalla crosta fino al centro, non dirò nemmeno una parola, ho ristretto di proposito l'ambito della mia discussione.[...] La mia povera mente, terrestre ed euclidea, arriva solo a capire che la sofferenza c'è, che non ci sono colpevoli, che ogni cosa deriva dall'altra direttamente, semplicemente, che tutto scorre e si livella - ma queste sono soltanto baggianate euclidee, io lo so, e non posso accettare di vivere in questo modo! Che conforto mi può dare il fatto che non ci sono colpevoli e che questo io lo so - io devo avere la giusta punizione, altrimenti distruggerò me stesso. E non già la giusta punizione nell'infinito di un tempo o di uno spazio remoti, ma qui sulla terra, in modo che io la possa vedere con i miei occhi. [...] Per la centesima volta lo ripeto: c'è una miriade di questioni, ma ho preso soltanto l'esempio dei bambini, perché nel loro caso quello che voglio dire risulta inoppugnabilmente chiaro. Ascolta: se tutti devono soffrire per comprare con la sofferenza l'armonia eterna, che c'entrano qui i bambini? Rispondimi, per favore. È del tutto incomprensibile il motivo per cui dovrebbero soffrire anche loro e perché tocca pure a loro comprare l'armonia con le sofferenze. Perché anch'essi dovrebbero costituire il materiale per concimare l'armonia futura di qualcun altro? [...] Qualche spiritoso potrebbe dirmi che quel bambino sarebbe comunque cresciuto e avrebbe peccato, ma, come vedete, egli non è cresciuto, è stato dilaniato dai cani all'età di otto anni. Oh, Alëša, non sto bestemmiando! Io capisco quale sconvolgimento universale avverrà quando ogni cosa in cielo e sotto terra si fonderà in un unico inno di lode e ogni creatura viva, o che ha vissuto, griderà: "Tu sei giusto, o Signore, giacché le tue vie sono state rivelate!" Quando la madre abbraccerà l'aguzzino che ha fatto dilaniare suo figlio dai cani e tutti e tre grideranno fra le lacrime: "Tu sei giusto, o Signore!": allora si sarà raggiunto il coronamento della conoscenza e tutto sarà chiaro. Ma l'intoppo è proprio qui: è proprio questo che non posso accettare. E fintanto che mi trovo sulla terra, mi affretto a prendere i miei provvedimenti. Vedi, Alëša, potrebbe accadere davvero che se vivessi fino a quel giorno o se risorgessi per vederlo, guardando la madre che abbraccia l'aguzzino di suo figlio, anch'io potrei mettermi a gridare con gli altri: "Tu sei giusto, o Signore!"; ma io non voglio gridare allora. Finché c'è tempo, voglio correre ai ripari e quindi rifiuto decisamente l'armonia superiore. Essa non vale le lacrime neanche di quella sola bambina torturata, che si batte il petto con il pugno piccino e prega in quel fetido stambugio[...]. Ma in che modo puoi riscattarle? È forse possibile? Forse con la promessa che saranno vendicate? Ma che cosa me ne importa della vendetta, a che mi serve l'inferno per i torturatori, che cosa può riparare l'inferno in questo caso, quando quei bambini sono già stati torturati? E quale armonia potrà esserci se c'è l'inferno? Io voglio perdonare e voglio abbracciare, ma non voglio che si continui a soffrire. E se la sofferenza dei bambini servisse a raggiungere la somma delle sofferenze necessaria all'acquisto della verità, allora io dichiaro in anticipo che la verità tutta non vale un prezzo così alto. [..] Hanno fissato un prezzo troppo alto per l'armonia; non possiamo permetterci di pagare tanto per accedervi. Pertanto mi affretto a restituire il biglietto d'entrata. E se sono un uomo onesto, sono tenuto a farlo al più presto. E lo sto facendo. Non che non accetti Dio, Alëša, gli sto solo restituendo, con la massima deferenza, il suo biglietto".
"Questa è ribellione", disse Alëša sommessamente e a capo chino.
"Ribellione? Non avrei voluto sentire una parola simile da te", replicò Ivan con ardore. "È impossibile vivere nella ribellione, mentre io voglio vivere. Dimmelo tu, ti sfido, rispondimi: immagina che tocchi a te innalzare l'edificio del destino umano allo scopo finale di rendere gli uomini felici e di dare loro pace e tranquillità, ma immagina pure che per far questo sia necessario e inevitabile torturare almeno un piccolo esserino, ecco, proprio quella bambina che si batteva il petto con il pugno, immagina che l'edificio debba fondarsi sulle lacrime invendicate di quella bambina - accetteresti di essere l'architetto a queste condizioni? Su, dimmelo e non mentire!"
"No, non accetterei", disse Alëša sommessamente. "hai appena detto: c'è in tutto il mondo un essere che possa e abbia il diritto di perdonare tutto? Ma quell'essere esiste, e può perdonare tutto, tutto, qualunque peccato si sia commesso, perché egli stesso ha dato il suo sangue innocente per tutti e per tutto. Ti sei dimenticato di lui, su di lui si fonda l'edificio ed è a lui che grideranno: "Tu sei giusto, o Signore, giacché le tue vie sono state rivelate!""
"Ah, parli dell' "Unico senza peccato" e del sangue suo! No, non l'ho dimenticato, anzi mi meravigliavo che in tutto questo tempo non lo avessi ancora tirato in ballo, visto che, di solito, in tutte le discussioni, quelli dalla vostra parte mettono sempre lui davanti a tutto. Lo sai, Alëša, non ridere, ma io ho composto un poema, circa un anno fa. Se tu potessi perdere insieme a me ancora una decina di minuti, te lo racconterei, puoi?"
"Tu hai scritto un poema?"
[...]"Vuoi che te lo racconti oppure no?" "Sono tutt'orecchi", rispose Alëša.
"Il mio poema s'intitola "Il Grande Inquisitore": è una cosa un po' assurda, ma voglio raccontartela".
(Fëdor Michajlovic Dostoevskij, I fratelli Karamàzov trad. di Maria Rosaria Fasanelli, Garzanti, Milano)
A suscitare la domanda di Alëša è stata la narrazione di Ivan di atroci e stranianti violenze sui bambini. Il fatto è che la verità alla fine svelata da Dio (“l’apoteosi della conoscenza”) non vale il suo prezzo. Ivan restituisce a Dio"rispettosamente" il biglietto d'ingresso nel suo regno: non è necessario detronizzare Dio, anzi, lo s'intronizzi ed è subito, suggerisce Ivan, il vuoto d'una rappresentazione da cui non ci si può che allontanare con dignità.
ancora camus...
Muovendosi in una Milano spettrale in mezzo a moribondi, disperati e sciacalli, Renzo resta pietrificato da un'autentica apparizione: una giovane madre, con inesprimibile decoro, depone il corpo senza vita della sua piccola bambina sul carro dei morti.
Entrato nella strada, Renzo allungò il passo, cercando di non guardar quegl’ingombri1, se non quanto era necessario per iscansarli; quando il suo sguardo s’incontrò in un oggetto singolare di pietà, d’una pietà che invogliava l’animo a contemplarlo; di maniera che si fermò, quasi senza volerlo.
Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio2, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo3 e maestosa, che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito4 ne’ cuori. Portava essa in collo5 una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza6, e il capo posava sull’omero7 della madre, con un abbandono più forte del sonno: della madre, ché, se anche la somiglianza de’ volti non n’avesse fatto fede, l’avrebbe detto chiaramente quello de’ due ch’esprimeva ancora un sentimento8.
Un turpe9 monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d’insolito rispetto, con un’esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, «no!» disse: «non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete». Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: «promettetemi di non levarle un filo d’intorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo, e di metterla sotto terra così».
Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato10, che per l’inaspettata ricompensa, s’affaccendò a far un po’ di posto sul carro per la morticina. La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un letto, ce l’accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l’ultime parole: «addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch’io pregherò per te e per gli altri». Poi voltatasi di nuovo al monatto, «voi,» disse, «passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola».
Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s’affacciò alla finestra, tenendo in collo un’altra bambina più piccola, viva, ma coi segni della morte in volto. Stette a contemplare quelle così indegne esequie11 della prima, finché il carro non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve. E che altro poté fare, se non posar sul letto l’unica che le rimaneva, e mettersela accanto per morire insieme? come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccia, al passar della falce che pareggia tutte l’erbe del prato.
«O Signore!» esclamò Renzo: «esauditela! tiratela a voi, lei e la sua creaturina: hanno patito abbastanza! hanno patito abbastanza!».
(da I promessi sposi, cap. XXXIV)
Renzo non può più sopportare oltre e implora la rapide fine dei tormenti per la madre e la figlia.
Manzoni non vuole suscitare del patetico sentimentalismo, ma metterci di fronte a un problema che non ha semplici soluzioni: quale rapporto siamo disposti ad ammettere tra la sofferenza umana e la volontà divina?