Passavano anche degli uomini da quelle parti, giovani soprattutto con delle teste come di legno rosa, sguardi secchi e monotoni, mascelle che non se ne potevano trovare di uguali, così larghe, così volgari... Alla fin fine, è così indubbiamente che le loro donne le preferiscono le mascelle. I sessi sembravano andare ciascuno per conto suo in strada. Loro, le donne, non guardavano quasi altro che le vetrine dei negozi, tutte monopolizzate dal fascino delle borse, delle scarpe, delle cosettine di seta, esposte, pochissime alla volta in ogni vetrina, ma in modo preciso, categorico. [...]
Sulla destra della panchina s’apriva per l’appunto un buco, largo, direttamente sul marciapiede tipo il metrò da noi. Quel buco mi parve adatto, grosso com’era, con dentro una scala tutta di marmo rosa. Avevo già visto molta gente per strada sparirvi e poi tornarne fuori. Era in quel sotterraneo che andavano a fare i loro bisogni. Capii sùbito come girava. In marmo anche la sala dove capitava la cosa. Una specie di piscina, però svuotata di tutta l’acqua, una piscina infetta, colma soltanto d’una luce filtrata, fioca, che veniva a smorire là sugli uomini sbottonati in mezzo ai loro odori e tutti paonazzi a sbrigare le loro sporche faccende davanti a tutti, con rumori barbari.
Tra uomini, così, alla buona, fra le risate di tutti quelli che erano intorno, accompagnati da incoraggiamenti che si scambiavano come al football. Prima si levavano la giacca, come per fare una prova di forza. Si mettevano in tenuta insomma, era il rito.
E poi tutti sbracati, ruttando e peggio, gesticolando come nel cortile dei matti, s’installavano nella caverna fecale. I nuovi arrivati dovevano rispondere a mille scherzi schifosi mentre scendevano i gradini dalla strada; ma sembravano tutti compiaciuti lo stesso.
Quanto più lassù sul marciapiede si comportavano bene gli uomini, formalmente, tristemente anche, tanto più qui la prospettiva di potersi svuotare le trippe in tumultuosa compagnia sembrava liberarli e rallegrarli intimamente.
Le porte dei gabinetti abbondantemente imbrattate pendevano, divelte dai loro cardini. Passavano dall’una all’altra cella per chiacchierare un po’, quelli che attendevano un posto vuoto fumavano dei sigari pesanti battendo sulla spalla dell’occupante al lavoro, lui, ostinato, la testa corrugata, rinchiusa fra le mani. Molti ci facevano dei forti gemiti come dei feriti o delle partorienti. Minacciavano gli stitici di torture ingegnose.
Quando uno scroscio d’acqua annunciava un posto vacante, raddoppiavano i clamori attorno all’alveolo libero, e allora sovente se ne giocavano il possesso a testa o croce. I giornali appena letti, anche se spessi come piccoli cuscini, finivano istantaneamente disciolti nella mota di quei lavoratori rettali. Si distinguevano male le facce per il fumo. Non osavo troppo avanzare verso di loro a causa degli odori.
Quel contrasto era proprio fatto per sconcertare uno straniero. Tutto quello sbracamento intimo, quella formidabile familiarità intestinale e in strada quella perfetta aria contegnosa! Ci restavo stravolto.
Risalii alla luce per quegli stessi gradini per riposarmi sulla stessa panchina. Orgia repentina di digestioni e volgarità. Scoperta del comunismo allegro della cacca. Lasciavo ciascuno al suo posto gli aspetti così sconcertanti della stessa avventura. Non avevo la forza di analizzarli né di tentare una sintesi. Era dormire che desideravo irresistibilmente. Deliziosa e insolita frenesia!
Osservando questi usi, che valgono quanto gli altri, ma che, dal punto di vista occidentale, sembrano ostentare un’eccessiva disinvoltura, ci si domanda fino a che punto il costume, piuttosto che essere un residuo arcaico, non risulti da una riforma voluta dal Profeta: «Non fate come gli altri popoli che mangiano con un coltello», ispirata dallo stesso interesse, senza dubbio inconscio, d’infantilizzazione sistematica, d’imposizione omosessuale della comunità per mezzo della promiscuità che risulta dai rituali di pulizia dopo il pasto, in cui tutti si lavano le mani, gargarizzano, ruttano e sputano nella stessa bacinella, mettendo in comune, con una incredibile indifferenza reciproca, la stessa paura dell’impurità associata allo stesso esibizionismo. La volontà di confondersi è del resto accompagnata dal bisogno di singolarizzarsi come gruppo, di qui l’istituzione del purdah: «Che le vostre donne siano velate perché si distinguano dalle altre».
a una certa distanza, ogni differenza s'assottiglia.