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teste mozze

e il ritratto

dalla parte dell'artista

Roberto Bolano

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Morini pensò che l'espressione riportare a galla non era la più indicata, malgrado il sapore marinaro. Al contrario, mentre mangiavano il dolce, ebbe di nuovo voglia di piangere o, ancora meglio, di perdere i sensi, di lasciarsi svenire, di cadere dolcemente dalla sedia, con gli occhi fissi sul volto della Norton, e non tornare mai più in sé. Ma ora lei stava raccontando una storia su un pittore, il primo che era venuto a vivere nel quartiere.

Era un tipo giovane, sui trentatré anni, conosciuto nell'ambiente ma non proprio famoso. In realtà era venuto a vivere qui perché l'affitto dello studio era più economico che altrove. A quel tempo il quartiere non era allegro come adesso. Vi abitavano ancora vecchi operai con il sussidio, ma non c'era gente giovane, né bambini. Le donne brillavano per la loro assenza: o erano morte o se ne stavano chiuse in casa senza mai uscire per strada. C'era solo un pub, in sfacelo come il resto del quartiere. Insomma, era un posto solitario e in rovina. Ma a quanto sembra fu proprio questo a spronare la fantasia e la voglia di lavorare del pittore. Anche lui era un tipo più o meno solitario. O che si sentiva bene in solitudine.

Così il quartiere non lo intimorì, al contrario, se ne innamorò. Gli piaceva rientrare di notte e camminare per strade e strade senza incontrare nessuno. Gli piaceva il colore dei lampioni e la luce che inondava le facciate delle case. Le ombre che si spostavano man mano che lui si spostava. L'alba color cenere e fuliggine. La gente di poche parole che si ritrovava al pub, di cui divenne cliente abituale. Il dolore, o il ricordo del dolore, che in quel quartiere era letteralmente risucchiato da qualcosa senza nome che si trasformava, dopo tale processo, in vuoto. La consapevolezza che questa equazione era possibile: dolore che alla fine si fa vuoto. La consapevolezza che questa equazione era applicabile a tutto o quasi.

In ogni modo si mise a lavorare con più ardore che mai. Un anno dopo fece una mostra alla Galleria Emma Waterson, una galleria alternativa di Wapping, ed ebbe un successo tremendo. Inaugurò qualcosa che poi si sarebbe chiamato «nuovo decadentismo» o «animalismo inglese». I quadri della mostra con cui inaugurava la scuola erano grandi, tre metri per due, e mostravano, in un amalgama di grigi, i resti del naufragio del suo quartiere. Come se fra il pittore e il quartiere si fosse stabilita una simbiosi totale. In altre parole, a volte sembrava che il pittore dipingesse il quartiere e a volte che il quartiere dipingesse il pittore con i suoi lugubri tratti selvaggi. I quadri non erano male. Ma nonostante tutto la mostra non avrebbe avuto né il successo né le ripercussioni che ebbe se non fosse stato per il quadro più famoso, il capolavoro, molto più piccolo degli altri, che anni dopo avrebbe chiamato sulla strada del «nuovo decadentismo» tanti artisti britannici. L'opera, di due metri per uno, era a ben guardare (anche se nessuno poteva essere sicuro di guardarlo bene) un'ellissi di autoritratto, talvolta una spirale di autoritratto (dipende da dove veniva contemplato), al cui centro, mummificata, era appesa la mano destra del pittore.

I fatti erano andati così. Una mattina, dopo due giorni di dedizione febbrile agli autoritratti, il pittore si era tagliato la mano con cui dipingeva. Subito si era messo un laccio emostatico al braccio e aveva portato la mano a un tassidermista di sua conoscenza che era al corrente della natura del nuovo lavoro che lo aspettava. Poi si era diretto all'ospedale, dove avevano bloccato l'emorragia e avevano provveduto a suturare il braccio. A un certo punto qualcuno gli aveva chiesto com'era avvenuto l'incidente. Lui aveva risposto che senza volere, mentre lavorava, si era tagliato la mano con un colpo di machete. I medici gli avevano chiesto dov'era la mano mozzata, perché c'era sempre la possibilità di reimpiantarla. Lui aveva detto che, mentre si dirigeva all'ospedale, l'aveva gettata nel fiume per via della rabbia e del dolore.

Anche se i prezzi erano esorbitanti, vendette tutti i quadri della mostra. Il capolavoro, si diceva, se l'era preso un arabo che lavorava in borsa, assieme a quattro quadri di quelli grandi. Poco tempo dopo il pittore impazzì e la moglie, perché a quel punto era sposato, non ebbe altra scelta che internarlo in una casa di cura nei dintorni di Losanna o di Montreaux.

Era ancora lì.

dalla parte dell'opera

Frances Larson

Teste Mozze

Marc Quinn, membro fondatore del gruppo degli “Young British Artists”, è celebre per la scultura Self, un calco della sua testa realizzato con quattro litri del suo stesso sangue congelato. Self è un work in progress: Quinn completò la sua prima “testa di sangue” nel 1991 e da allora documenta il proprio invecchiamento realizzandone una ogni cinque anni. La prima testa fu comprata da Charles Saatchi, la quarta acquisita dalla National Portrait Gallery.

Per Quinn Self è il “ritratto definitivo” che nasce dalla «volontà di portare all’estremo l’arte del ritratto, con una rappresentazione che non soltanto ha la forma del modello, ma è ricavata dalla sua carne». La fascinazione per i limiti della rappresentazione umana ha portato Quinn a produrre calchi della sua testa fatti di escrementi, o della testa del figlio neonato fatti di placenta. Naturalmente, per quanto siano espliciti questi ritratti, non possono ancora dirsi definitivi: sarebbe disposto Quinn, da morto, a consacrarsi come corpo alla propria missione artistica ed esibire al pubblico la sua testa mozza in una teca refrigerata? «Sì, ci ho pensato», dice Quinn. «Al momento non sono ancora giunto a una conclusione su quale sarebbe l’idea più interessante, e devo pensare anche al parere della mia famiglia. Però sì, usare quello che rimane di me renderebbe l’opera davvero definitiva.»

Per quanto disturbante, l’idea del “ritratto definitivo” di Quinn riprende una lunga tradizione di sculture realizzate nel momento della morte, così da restituire le fattezze del soggetto per come erano davvero. Il ritratto in vita non cattura che un momento, il ritratto nella morte ambisce a catturare le qualità essenziali di una vita intera. Di solito un ritratto testimonia la relazione o come minimo l’interazione tra artista e modello, relazione che non può esistere se il “modello” è morto. L’ultimo ritratto diventa il più vero perché sfugge all’influenza del soggetto. Privo di qualunque mediazione da parte del modello, è una rappresentazione apparentemente libera dai vincoli dell’interpretazione artistica o della posa […]

[...] l’idea di un ritratto “vero” è assurda. Ne ha parlato Marc Quinn: «Credo poi che nell’idea di fare un autoritratto totale usando il mio sangue e il mio corpo ci sia anche un aspetto ironico, perché nonostante la scultura abbia la mia forma e sia composta da materiali che vengono dal mio corpo, a me sembra soltanto enfatizzare la differenza tra una persona viva e la materia organica di cui è composta». La scelta estrema, la testa mozza come opera d’arte, ha una logica, ma una logica che a conti fatti non regge: non è un ritratto, perché non vi è illusione, né “Animazione”, perché la perizia dell’artista non aggiunge nulla all’opera. La testa di una persona morta non è neanche più quella persona, per quanto possiamo desiderare che lo sia. Gli osservatori della ghigliottina non riuscivano a credere che le teste decollate fossero morte. Le vedevano fremere e muoversi, erano convinti che vedessero e percepissero la realtà, ma nessuno può sapere se avessero ragione, perché nessuno è mai riuscito a comunicare con una testa tagliata (non che nessuno ci abbia provato, come vedremo).

commento

Marc Quinn dovrebbe tagliarsi la testa da vivo, se ha le palle.