Il film inizia con un prologo narrato in cui si ricorda l’episodio del cavallo di Torino, gesto estremo di Nietzsche prima di venir rinchiuso in una casa di cura. Il cavallo, il carrettiere e la figlia conducono un'esistenza grave e misera. Nietzsche è “l’anticristo” che ha annunciato la caduta degli dei, in 6 giorni di anticreazione il mondo pezzo per pezzo annichilisce: è una apocalisse silenziosa e privata. Il settimo giorno, l’ultimo, è lo schermo nero.
Il film è la riduzione minima della condizione umana. Per quanto possiamo illuderci di renderla più comoda, la vita è fatica e sofferenza, che si ripete ogni giorno in una natura ostile, tra desolazione e solitudine o peggio odio e rancore.
Con fatica estrema si strappa quotidianamente la miseria della sopravvivenza, sferzati da una tempesta che non dà tregua. Non sembra di chiedere molto, eppure anche questo poco viene negato.
Impossibile affrontare la vita senza la palinka.
Anche gli zingari fanno invidia: vivono di quello che trovano, prendono quel che gli serve e non ringraziano nessuno. Forse la colpa è di chi si illude di un senso, di chi spera di agire bene e attende ricompense. Una vita di attese deluse. Non c'è né bene né male, dice il visitatore, e chi se ne è accorto divora tutto insaziabile e senza pietà: prima corrompe gli ideali e poi li sbrana. O semplicemente li compra. Piano piano, portano via tutto.
E Dio c’è.
C’è ed è complice.
Se il maestro di Bela Tarr, Tarkovskij, accomuna il girare un film allo scolpire il tempo, Tarr lo musealizza: non solo descrive la precarietà dell’esistenza, ma la onora con profondo rispetto.
I suoi lunghi piani sequenza sono un tentativo di restituire dignità al tempo. Toccato, corrotto e rovinato come tutto.