"La terza via" nella comunicazione visuale
Composizione selfie realizzata, inserendo nel quadro familiare un elemento estraneo che diventa con la sua "personificazione" punto di riferimento per la realtà sottostante. L'elemento estraneo in questo caso non è elemento di disturbo ma diventa catalizzante.
Senza conoscerla, emula utilizzando uno smartphone, l'immagine del fotografo svizzero Armin Haab (CH 1919-1989) realizzata negli anni 70.
L’immagine, postata su un conosciuto social network ha destato il mio interesse per la mutazione in atto ormai da diverso tempo, che non può più essere ignorata.
Nell’articolo “La macchina del tempo” raccontavo come l’uomo dalla metà del XIX sec. riesce a coronare il sogno di perpetuarsi nel tempo. Tramite la fotografia l’uomo riesce a fermare il tempo, seppur per un istante, una piccola rivolta contro la tirannia del tempo.
Fino ad allora solo i più agiati potevano, grazie ai pittori, perpetuare la propria immagine, ma dal 6 gennaio 1839 tutti o quasi acquisivano una piccola immortalità virtuale tramandando la loro immagine alla progenie per mezzo della fotografia. Inoltre, l’immagine diventa inequivocabilmente il documento di qualcosa che è accaduto, con la fotografia non ci sarà più bisogno solo di parole per spiegare, “tutti ora vorranno vedere”.
Fino a tutto il XX sec. conviveranno due tipi di fotografia: c’è chi usa la fotocamera in modo artistico, utilizzandola come un pennello per un pittore e chi la usa per documentare come una penna per uno scrittore.
XXI sec. la rivoluzione digitale e l’evoluzione dei dispositivi atti alla registrazione fotografica aggiungeranno un nuovo livello all’originale natura documentaristica, la fotografia diventa uno strumento di comunicazione personale.
Fino alla fine del secolo scorso documentavano fotograficamente qualcosa che “è accaduto“, questo approccio documentaristico si evolve e diviene una testimonianza “Io c’ero” … e se non ci fotografano gli altri non importa, possiamo sempre fotografarci addosso, milioni, miliardi di selfie come se piovesse ! postarli in tempo reale sui social network, taggare chi vi è ritratto o chi potrebbe esserne interessato.
La fotografia è un super linguaggio di comunicazione universale che non si pone i limiti del comune linguaggio parlato-scritto limitato alla ristretta cerchia di chi conosce una lingua e nell’ambito su descritto la sua potenzialità è deflagrante, quasi quanto lo è stata in quel lontano 6 gennaio 1839.
Questa rivoluzione viene derisa sia dai "fotografi parvenu", con la Nikon acquistata nel centro commerciale rigorosamente in offerta sottocosto sia da quei bacchettoni un po snob legati alla tradizionale fotocamera realizzata con una scatola oscura dotata di uno specchio che va fragorosamente su e giù e un obiettivo infilato sul fronte della scatola stessa. A questi vorrei ricordare un aneddoto storico:
Nel 1925 venne presentata al pubblico alla fiera di Lipsia la “LEICA 1a”, la sua miniaturizzazione e l'utilizzo di una pellicola dal formato tanto piccolo era assolutamente in controtendenza rispetto al panorama fotografico del tempo e fu accolta con grandi riserve dai professionisti più intransigenti … sappiamo come è finita la storia.
Semmai le controindicazioni sono altre, la “fotografia compulsiva”, responsabile di generare un flusso di miriadi di immagini che alla lunga producono insensibilità, assuefazione, una conseguenza inquietante, per uno strumento di tali potenzialità.
No, non è sbagliato lo strumento, va utilizzato correttamente, non nel senso di leggere il manuale d’uso. La proposta è quella di rallentare per creare belle immagini “Slow Photography” direbbe Tim Wu , parafrasando il più conosciuto “Slow Food”.
Girando per il castello di Schönbrunn in attesa che Ilse si liberi dai suoi gruppi turistici, non posso far a meno di notare il comportamento fotografico di questi ultimi, ricordano i cani quando marcano il loro territorio, vedono una statua, si avvicinano, scattano un paio di foto e vanno avanti così fino al tramonto, i più temerari continuano anche dopo con l’ausilio del flash. Alla fine della giornata hanno raccolto centinaia o anche migliaia di immagini.
Queste persone guardano ormai attraverso il monitor ! Guardare prima con i propri occhi ciò che si sta fotografando è diventato opzionale. La fotografia è diventata compulsiva, così come nella peggiore abitudine del consumismo occidentale. Una volta alcune tribù temevano che la fotografia rubasse le loro anime, oggi temiamo che se non riusciamo a fotografare perdiamo qualcosa per sempre.
Nella “slow photography”, l’obiettivo primario è l'esperienza di studiare attentamente un soggetto e di esercitare una scelta creativa. La differenza tra la fotografia compulsiva e la ricerca ragionata della bella immagine è che quest'ultima ha il potere di produrre non solo un ricordo, ma una risposta emotiva in qualsiasi spettatore.
Un esempio - Osservazione del soggetto e decontestualizzazione
Osservando una fotografia vediamo un particolare spazio decontestualizzato dalla realtà che la circondava nel momento della sua registrazione.
Chi fotografa deve tenere sempre in mente che la sua fotografia sarà vista in un contesto spaziale e temporale diverso dal momento e luogo in cui è stata registrata.
Non esiste soluzione a questo limite ma possiamo cercare di ridurre il danno, come ?
“Decontestualizzando anche noi”
isolandoci da quanto c’è intorno l’immagine che si focalizza sul monitor, concentrandoci su quest’ultimo, utilizzando unicamente i nostri occhi, considerando non solo ciò che “si pensa di vedere” (un albero o un cane), ma i colori e le forme che si presentano sul monitor. Pensando cane o albero può nascondere ciò che veramente si vedrà “dopo”, una serie di fotoni disposti in modo tale che per comodità chiamiamo “cane”.
Può sembrare semantica, ma fa la differenza. Quando si guarda con attenzione l’immagine focalizzata isolandosi da input esterni, inevitabilmente si nota cose che si potrebbe non aver visto altrimenti.
Una volta i nostri avi erano avvantaggiati, per fotografare utilizzando le grandi fotocamere a cassetta e le lastre fotografiche disponibili allora, era necessario per poter visualizzare l’immagine coprirsi con un telo nero, indirettamente era una forma primitiva di decontestualizzazione.
Evidentemente non possiamo andare in giro a fotografare con tappi di cera nelle orecchie e lenzuoli neri sulla testa, ma possiamo allenarci a concentrarci per isolarci. Sicuramente avvantaggiati in tale senso sono i cultori di yoga !
Effettuata la scelta di ciò che deve essere incluso e ciò che deve essere escluso nel frame della nostra immagine, passiamo al secondo step:
la parte creativa che i nostri dispositivi automatici ci negano, dovremo scegliere l'esposizione la profondità di campo, ecc … queste scelte sono quelle che mettono il timbro della nostra personalità sulla foto e non possiamo demandarle agli algoritmi impersonali scelti dal produttore del dispositivo, sviluppati per accontentare la percentuale più alta della popolazione fotografa, potrebbe essere che fieri della nostra individuale personalità non vogliamo assoggettarla alle statistiche di massa .. .ma questa è un’altra storia ...