Ancora sulla qualificazione, a fini fiscali, delle indennità di trasferta e trasfertismo

Oggigiorno, la capacità di svolgere le proprie attività “in mobilità” costituisce un requisito imprescindibile dei moderni rapporti di lavoro e, pertanto, è necessario saperla padroneggiare sotto ogni aspetto, ivi incluso quello contabile.

A tal proposito, giova premettere, per quanto noto, che il lavoro in mobilità si distingue in “trasfertismo” ed in “trasferte”. Con il primo termine, ci si riferisce a quei lavoratori che svolgono le proprie mansioni in luoghi sempre variabili e diversi; con il secondo, invece, ci si riferisce a quei lavoratori che, pur avendo una sede prestabilita da contratto, svolgono occasionalmente la propria prestazione in altri luoghi.

Al fine di meglio distinguere le due tipologie di lavoro in mobilità, il Legislatore ha, poi, precisato che per essere dichiarati trasfertisti occorre (i) “la mancata indicazione, nel contratto o nella lettera di assunzione, della sede di lavoro”; (ii) “lo svolgimento di un'attività lavorativa che richiede la continua mobilità del dipendente” e (iii) “la corresponsione al dipendente, in relazione allo svolgimento dell'attività lavorativa in luoghi sempre variabili e diversi, di un'indennità o maggiorazione di retribuzione in misura fissa, attribuite senza distinguere se il dipendente si è effettivamente recato in trasferta e dove la stessa si è svolta” (cfr. art. 7quinquies, comma 1, d.l. n. 193/2016, conv. in legge n. 225/2016).

Il mancato rispetto anche solo di una delle menzionate condizioni implica l’applicazione della disciplina fiscale propria delle indennità di trasferta, in luogo di quella tipica dei trasfertisti (in aggiunta ai contributi eventualmente dovuti: cfr. Circolare INPS, n. 158/2019).

Ciò detto, in cosa differiscono le due discipline fiscali?

Anche qui, prima di rispondere, giova ricordare che entrambe le citate categorie di lavoratori possono beneficiare – a titolo di “remunerazione” per il lavoro svolto in mobilità – di erogazioni in denaro sotto forma di indennità o maggiorazioni retributive.

Tuttavia, mentre “le indennità e le maggiorazioni di retribuzione” per i trasfertisti “concorrono a formare il reddito nella misura del 50 per cento del loro ammontare” (cfr. art. 51, comma 6, TUIR), “le indennità percepite per le trasferte o le missioni” dai lavoratori non-trasfertisti sono esenti da imposizione fiscale sino ad un determinato importo, variabile a seconda che si tratti di indennità giornaliere forfettizzate oppure di c.d. “rimborsi a piè di lista” corredati degli opportuni giustificativi (cfr. art. 51, comma 5, TUIR).

In quest’ultimo caso – ossia: indennità corrisposta a fronte di spese documentate – occorre tener presente che essa ha sempre natura “restitutoria” (non “risarcitoria”) e, come tale, va dichiarata all’Agenzia delle Entrate in importo corrispondente a quello effettivamente documentato o documentabile; in caso contrario, potrebbe esservi il rischio di un accertamento ispettivo da parte dell’Agenzia delle Entrate ed una conseguente ricostruzione “induttiva” del reddito non dichiarato.

In tale ipotesi, recentemente riesaminata dalla Corte di Cassazione (sent. n. 8489/2020), l’infedele dichiarante sarà tenuto a pagare non solo maggior importo fiscale non versato, ma anche le sanzioni – piuttosto salate, ancorché depenalizzate – previste dalla legge in caso di omessa dichiarazione dei redditi.

Quindi, per non incorrere in errori, occhio sempre alla “regola aurea” dei rimborsi delle trasferte a piè di lista enunciata, anche di recente, dai Giudici di legittimità: “nel caso di rimborso analitico non si determina alcun riflesso di tassazione in capo al dipendente” se inferiore ai limiti di legge, a patto che sussista sia il requisito del “riconoscimento di detti costi … sulla base della documentazione fornita dallo stesso dipendente”, sia il requisito dell’erogazione di un’indennità “mai … superiore alla spesa effettivamente sostenuta” dal dipendente medesimo.