Sulla configurabilità di un diritto ai buoni pasto da parte di dipendenti in sede e smartworker

Per prassi o per previsione contrattual-collettiva, la maggior parte delle aziende è solita erogare buoni pasto, cartacei o digitali (i.e.: su carta elettromagnetica), ai propri dipendenti.

L’importo, che solitamente spazia da circa € 5,00 a circa € 10,00, costituisce una voce della busta paga in larga parte non imponibile né sotto il profilo fiscale, né sotto il profilo contributivo. In particolare, ai sensi del novellato disposto dell'art. 51, comma 1, lett. c), D.P.R. n. 917/1986, i buoni pasto cartacei sono esenti da tasse e contributi sino “all'importo complessivo giornaliero di euro 4”, mentre quelli digitali sono esenti da ciò sino “a euro 8”.

Chiarita la convenienza “bipartisan” del ricorso a tale strumento (invero, il datore di lavoro si accollerà un minor costo in sede di erogazione dei buoni pasto, mentre il lavoratore potrà beneficiare di una somma più netta a tale titolo), resta da capire se i dipendenti continuino a vantare una sorta di “diritto ai buoni pasto” anche nelle ipotesi in cui essi vengano unilateralmente revocati dal datore di lavoro.

La questione, invero a lungo dibattuta in giurisprudenza, sembrerebbe essere stata definitivamente risolta da due recenti sentenze, una della Suprema Corte di Cassazione ed una del Tribunale di Venezia, nel senso della insussistenza di un diritto ai buoni pasto.

Per meglio comprendere tale conclusione occorre, anzitutto, ripercorrere il precedente reso sul punto dal Supremo Collegio (ordinanza n. 16135/2020). In quell’occasione, i Giudici di legittimità hanno ritenuto che i buoni pasto abbiano natura “non già di elemento della retribuzione ‘normale’, ma di agevolazione di carattere assistenziale collegata al rapporto di lavoro da un nesso meramente occasionale (Cass. 21 luglio 2008, n. 20087; Cass. 8 agosto 2012, n. 14290; Cass. 14 luglio 2016, n. 14388), pertanto non rientranti nel trattamento retributivo in senso stretto (Cass. 19 maggio 2016, n. 10354; Cass. 18 settembre 2019, n. 23303)”.

Così motivando, la Suprema Corte ha dimostrato di aderire a quell’indirizzo giurisprudenziale di fine anni ’90, secondo il quale il buono pasto non costituisce “un corrispettivo obbligatorio della prestazione lavorativa, per la mancanza di corrispettività della relativa prestazione rispetto a quella lavorativa e di collegamento causale tra l'utilizzazione della mensa e il lavoro prestato, sostituendosi a esso un nesso meramente occasionale con il rapporto” (cfr. Cass. Civ., Sez. Lav., sentenza n. 12168/1998).

Sicché, proprio alla luce del fatto che il buono pasto sarebbe semplicemente “occasionato” dalla (e non già “necessariamente conseguente” alla) sussistenza di un rapporto di lavoro, il datore di lavoro sarebbe legittimato a rifiutarsi, unilateralmente ed anche in un secondo momento, di corrisponderli.

Cosa succede, però, se tale rifiuto interviene nell’ambito di trattative sindacali che hanno ad oggetto proprio il rinnovo dell’erogazione dei buoni pasto?

Di recente, infatti, è accaduto che, contestualmente all'intavolazione di alcune trattative sindacali, il Comune di Venezia abbia deciso di sospendere l’erogazione dei buoni pasto nei confronti dei propri dipendenti in smartworking e che, per di più, si sia rifiutato di negoziare con i sindacati su tale tema.

Immediata la reazione delle organizzazioni sindacali, le quali hanno tacciato il Comune di Venezia di condotta antisindacale ed adito il Tribunale di Venezia per sentirsi dichiarare il diritto a negoziare sui buoni pasto.

Sennonché, il Giudice veneziano (sentenza n. 1069/2020) ha escluso questo “diritto alla negoziazione”, facendo leva sul medesimo orientamento giurisprudenziale di legittimità già richiamato dalla pronuncia della Suprema Corte di Cassazione sopra esaminata.

In sostanza, i buoni pasto non sono "negoziabili" poiché non v’è, in generale, alcun diritto ai buoni pasto, e ciò neppure da parte dei lavoratori in smartworking: rincarando la dose, peraltro, il Tribunale veneziano ha altresì sottolineato che “il buono pasto è un beneficio che non viene attribuito senza scopo, in quanto la sua corresponsione è finalizzata a far sì che, nell’ambito dell’organizzazione di lavoro, si possano conciliare le esigenze di servizio con le esigenze quotidiane dei lavoratore, al quale viene così consentita – laddove non sia previsto un servizio mensa – la fruizione del pasto”. Esigenze che, a detta del Giudice del Lavoro, non sussisterebbero in caso di smartworking.

Sembrerebbe chiudersi, così, la partita sui buoni pasto.

Eppure, entrambe le sentenze celano peculiarità che potrebbero indurre a ritenere che la questione buoni pasto sia lungi dall’essersi risolta.

Invero, l’ordinanza della Suprema Corte di Cassazione non approfondisce il tema dell’erogazione dei buoni pasto sulla base di una prassi aziendale consolidata (che, come noto, non può essere revocata dal solo datore di lavoro, occorrendo anche il consenso delle altre parti: cfr. Cass. Civ., Sez. Lav., sentenza n. 6690/1996). Invece, il provvedimento del Giudice veneziano è stato reso sulla base di specifiche norme contrattuali, ossia gli artt. 45 e 46 del CCNL del 14 settembre 2000, le quali garantiscono il buono pasto solo a quei dipendenti pubblici la cui prestazione lavorativa sia articolata secondo “scadenze orarie” (di cui, però, non si è valutata l’effettiva applicazione rispetto agli smartworker, pur potendo questi alternare la prestazione lavorativa con “tempi di riposo” e “tempi di disconnessione”: cfr. art. 19, comma 1, legge n. 81/2017).

Sembra quasi il caso di dire: “chi vivrà, vedrà”. Nel frattempo, è innegabile che i buoni pasto, se opportunamente usati, rappresentano – come detto in apertura – un utile strumento di abbattimento del costo fiscale e contributivo della forza lavoro (nonché la misura di Welfare per eccellenza ed alla portata di tutti).