Sulla debenza di un compenso all’amministratore delegato di società

Con sentenza n. 27335/2019, la Suprema Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi sull’obbligatorietà del compenso nei confronti di colui che, all’interno di una società di capitali, ricopra il ruolo di amministratore delegato.

Le società convenute in giudizio dall’amministratore-ricorrente - che rivendicava, per l'appunto, un compenso per la carica ricoperta - rilevavano come, nel caso specifico, egli “avesse accettato incarichi che non prevedevano compensi, per lunghi anni” e che, in ogni caso, le delibere con cui era stato conferito il suddetto incarico non prevedevano alcun compenso. Dal canto proprio, l’amministratore-ricorrente eccepiva che il proprio incarico fosse un mandato a tutti gli effetti il quale, ai sensi dell’art. 1710 Cod. Civ., si presume oneroso.

Sennonché, i Giudici di legittimità respingevano la tesi del ricorrente rilevando, da un lato, come gli statuti societari nulla prevedessero circa l’obbligatorietà di un compenso nei confronti di quei soggetti che riprovano l’incarico di amministratore delegato; dall’altro, che “il rapporto che lega l’amministratore alla società è di immedesimazione organica, non riconducibile al rapporto di lavoro subordinato, né a quello di collaborazione coordinata e continuativa, dovendo essere, piuttosto, ascritto all’area del lavoro professionale autonomo ovvero qualificato come rapporto societario ‘tour court’”.

Pertanto, “il possesso della qualifica di amministratore di società di capitali, non comporta in capo a chi tale qualifica riveste, alcun tipo di rapporto contrattuale con la società stessa, di guisa che non potrebbe riconoscersi all’amministratore alcun diritto ex lege al compenso”. In conclusione, l’assenza di un corrispettivo nell’atto di conferimento dell’incarico di amministratore delegato non inficia la genuinità dell’incarico stesso, ben potendo essere quest’ultimo a titolo gratuito.

Forse, la scelta della gratuità, ancorché non piacevole, è motivabile in ragione del fatto che, sempre più spesso, la qualità di amministratore delegato si innesta su un rapporto di lavoro di tipo dirigenziale con un soggetto già assunto alle dipendenze della società. A fronte dell’incalzare del fenomeno, l’INPS ha ritenuto, da ultimo con Messaggio 3359/2019, di ritornare sull’argomento dettando tre criteri generali, evinti dalla giurisprudenza di legittimità, al sussistere dei quali il “rapporto amministrativo” può ritenersi compatibile con quello di lavoro subordinato: (i) che “il potere deliberativo … sia affidato all’organo (collegiale) di amministrazione della società nel suo complesso e/o ad un altro organo sociale”; (ii) che “sia fornita la rigorosa prova … dell’assoggettamento del lavoratore interessato, nonostante la carica sociale, all’effettivo potere di supremazia gerarchica … di un altro soggetto”; (iii) che “il soggetto svolga, in concreto, mansioni … non … ricomprese nei poteri di gestione che discendono dalla carica ricoperta o dalle deleghe che gli siano state conferite”.

In difetto di uno di questi requisiti, e dunque in ipotesi di sovrapposizione o sovrapponibilità dei contenuti e delle attività di amministratore delegato con quelle di dirigente, il rischio potrebbe essere quello del disconoscimento dei contributi versati in relazione alla posizione previdenziale del secondo, con conseguente perdita del diritto a percepire un qualsivoglia trattamento pensionistico e/o previdenziale a carico dell’Istituto.