Recenti tendenze in tema di sicurezza sul lavoro al tempo del Covid-19

Come visto in precedenza (per maggiori info, cliccate qui), a fronte dell'emergenza pandemica nazionale, in data 14 marzo 2020, le principali Associazioni datoriali e sindacali, su invito del Governo, hanno siglato un importante Protocollo (“Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto ed il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”) volto a garantire la continuità e produttività delle imprese italiane in sicurezza.

Il Protocollo in questione - "fatto proprio" dal Governo con D.P.C.M. del 10 aprile 2020 - ha, inevitabilmente, introdotto oneri in tema di prevenzione dei rischi sul lavoro aggiuntivi rispetto a quelli di cui, normalmente ed ai sensi dell’art. 2087 Cod. Civ. (nonché del "T.U. Sicurezza", d.lgs. n. 81/2008), sono oberate le aziende ed i dipendenti.

Nella prassi, la “mappatura” delle misure di sicurezza adottate all’interno di una qualsiasi realtà aziendale è cristallizzata nel Documento di Valutazione dei Rischi (c.d. “DVR”, previsto dagli artt. 17 e 28 del d.lgs. n. 81/2008). Ci si è chiesti, dunque, se, stante il contesto emergenziale che stiamo vivendo, tale mappatura debba essere integrata anche con le misure di sicurezza approntate per fronteggiare il rischio specifico di contagio da Covid-19.

Orbene, sul punto è intervenuto l’Ispettorato Nazionale del Lavoro (cfr. Nota INL n. 89/2020) che ha ritenuto utile – non già obbligatorio (o, almeno, non espressamente) – raccogliere le misure di prevenzione da Covid-19 adottate a livello aziendale in “un’appendice del DVR a dimostrazione di aver agito al meglio, anche al di là dei precetti specifici del d.lgs. n. 81/2008”.

Invero, l’Ispettorato, dopo aver precisato che il “rischio biologico” rappresentato dal Covid-19 non scaturisce dalle singole lavorazioni aziendali, ma abbraccia un ambito – sociale e non solo lavorativo – ben più ampio del "luogo di lavoro" e che, per tale motivo, quelle misure non possono costituire parte essenziale del DVR, ha ciononostante ritenuto utile invitare a predisporre un piano volto alla “attuazione delle misure di prevenzione, basate sul contesto aziendale, sul profilo del lavoratore – o soggetto a questi equiparato – assicurando al personale anche adeguati DPI”.

In altri termini: non esiste una “formula magica” che le aziende devono elaborare per prevenire (o, meglio, per dimostrare di aver prevenuto) i rischi di contagio da Covid-19; al contrario, le aziende devono dimostrare di aver calibrato quella prevenzione tenendo conto dello specifico profilo di ciascun lavoratore e dei "Dispositivi di Protezione Individuale" (c.d. "DPI") da fornire in base a quello specifico profilo; ciò che si aggiunge, certamente, alle generali misure di prevenzione imposte dal d.l. n. 19/2020 a qualsiasi cittadino (datore di lavoro o lavoratore che sia).

Peraltro, un interessante spunto di approfondimento della tematica, proprio con riguardo al discorso del "profilo del lavoratore" e dei conseguenti DPI da fornire, è stato recentemente offerto dal Giudice del lavoro fiorentino (cfr. Trib. Firenze, 1° aprile 2020, est. Gualano), che si è pronunciato sul caso di un rider che aveva richiesto alla “piattaforma datrice di lavoro”, senza successo, “dispositivi individuali di protezione contro il rischio COVID-19" quali "guanti, gel igienizzanti e prodotti di pulizia dello zaino”.

A fronte del silenzio/rifiuto serbato dalla datrice di lavoro, il rider si rivolgeva al Tribunale di Firenze; questi, dopo aver premesso che il procedimento in questione non doveva considerarsi sospeso ai sensi del d.l. n. 18/2020 (c.d. “Decreto Cura Italia”) giacché la salute e la sicurezza sul lavoro costituiscono espressione di “diritti fondamentali della persona” (tematica che il Legislatore ha sottratto al regime generale della sospensione), ha immediatamente ordinato alla controparte datoriale di fornire i beni richiesti dal rider medesimo.

Il sintetico provvedimento reso dal Giudice di Firenze sembra basarsi più sul buon senso, che non su disquisizioni giuridiche. Si potrebbe obiettare in merito al fatto che debba essere la piattaforma di lavoro a dover fornire i DPI ai rider, anziché essere costoro a procurarseli; resta, però, il fatto che le attività che implicano contatti con il pubblico sono, ad oggi, quelle contrassegnate da un rischio elevato tanto quanto quello che contraddistingue le professioni sanitarie e, pertanto, debbono essere tutelate con maggiore accortezza.

Ciò che è stato evidenziato dallo stesso INAIL con Circolare n. 13/2020, laddove ha affermato che per i “lavoratori che operano in front-office, alla cassa, addetti alle vendite/banconisti” opera una vera e propria “presunzione semplice … di origine professionale … dell’avvenuto contagio”, per il sol fatto che a quelle attività professionali corrisponde un contatto col pubblico. Il che, evidentemente, ha contribuito a dare maggiore forma e sostanza al precetto generale, enunciato dall'art. 42, comma 2, d.l. n. 18/2020, secondo cui "nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS - CoV-2) in occasione di lavoro" è assicurata "la relativa tutela dell'infortunato" (cfr. D.P.R. n. 1124/1965).

A parte quest'ultimo rilievo, la specificazione introdotta dall'INAIL nella menzionata Circolare 13/2020 non è certo di poco conto, posto che da questa presunzione semplice discende, automaticamente, la “malattia professionale” del lavoratore. Con ogni conseguente "alleggerimento" della prova che il lavoratore stesso dovrà fornire per dimostrare la natura professionale della propria malattia ed "appesantimento" dei doveri, anche remunerativi, che incombono sul datore di lavoro.