Sull’utilizzo del contratto di solidarietà di tipo "difensivo" durante una procedura di mobilità

Nei momenti di crisi aziendale, anche a prescindere da eventi del tutto imprevedibili (come è stato, ed è ancora, il diffondersi del contagio da Covid-19), il ricorso cumulativo a più forme di ammortizzazione sociale potrebbe fare la differenza in termini di salvaguardia dei posti di lavoro.

Nell’ambito di queste forme, complice anche l’attuale scenario pandemico, ormai ci si è abituati a sentir parlare di Cassa Integrazione, nelle sue varie declinazioni (Ordinaria; Straordinaria; In Deroga; Covid-19). Minore eco mediatica hanno avuto, invece, gli ulteriori ammortizzatori sociali che pure possono essere autorizzati o su istanza della singola parte datoriale interessata (tra cui il Fondo di Integrazione Salariale - FIS), o attraverso il coinvolgimento delle parti sociali.

Si tratta, in quest’ultimo caso, sempre di forme di ammortizzazione sociale contemplate dalla legge, per la cui attivazione però occorre raggiungere un “accordo” e, precisamente, un contratto collettivo aziendale stipulato tra il datore di lavoro, da un lato, e le Organizzazioni Sindacali, dall’altro.

In questo particolare novero di forme di ammortizzazione sociale, una certa rilevanza è assunta dal c.d. “contratto di solidarietà” (originariamente disciplinato dall’art. 1, d.l. n. 726/1984 – conv. in l. n. 863/1984 – e oggi dall’art. 21, comma 5, d.l.gs. n. 148/2015) che può essere di due tipi, entrambi basati sul principio della riduzione dell’orario di lavoro: 1) di tipo “espansivo”, quando la riduzione dell’orario di lavoro mira ad agevolare nuove assunzioni; 2) di tipo “difensivo”, quando la riduzione dell’orario di lavoro mira ad evitare esuberi di personale.

In quest’ultimo caso, dunque, la riduzione dell’orario di lavoro – e, conseguentemente, della retribuzione – interviene a fronte di un comprovato stato di crisi aziendale ed è volto a salvaguardare i posti di lavoro di quelle unità di personale (generalmente espresse in termini di “full time equivalent”, ossia di ore di lavoro a tempo pieno) ritenute eccedentarie.

Orbene, tale ammortizzatore è stato considerato dal Legislatore del 1993 addirittura meritevole di cumulo con i trattamenti di Cassa Integrazione (cfr. art. 13, legge n. 223/1991) che, solitamente, seguono l’avvio di procedure di mobilità; a tal proposito, il Legislatore aveva rinviato ad un apposito decreto ministeriale l’individuazione dei casi in cui tale cumulo può avere luogo (cfr. art. 13, comma 2, ult. cit.), poi adottato in data 23 dicembre 1994 dall’allora Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale.

In particolare, con tale decreto è stato ritenuto che, in una “unità produttiva interessata sia da contratti di solidarietà, sia da programmi di cassa integrazione guadagni straordinaria”, il cumulo del contratto di solidarietà di tipo difensivo con il trattamento di integrazione salariale fosse possibile a condizione – tra l’altro, anche – che “i lavoratori interessati ai due distinti benefici siano comunque diversi, e precisamente individuati, tramite appositi elenchi nominativi”.

Ma, fermo restando il suddetto limite, cosa succede invece se in un ambito aziendale solo parzialmente interessato da una procedura di mobilità si prova ad innestare l’istituto del contratto di solidarietà di tipo “difensivo”? Forse, la soluzione più ragionevole dovrebbe portare all’annullamento della procedura di mobilità: invero, quest’ultima avrebbe potuto essere evitata a priori ricorrendo, sin dall’inizio, ad una riduzione oraria tramite contratto di solidarietà “difensivo”.

Tale soluzione, però, non è stata abbracciata dalla Suprema Corte di Cassazione che, recentemente (sent. n. 9307/2021), ha invece propeso per la piena compatibilità tra l’apertura di una procedura di mobilità e l’attivazione di un contratto di solidarietà “difensivo”. Ciò sulla base del rilievo per cui “il contratto collettivo di solidarietà nel quadro degli strumenti atti a fronteggiare situazioni di eccedenza di personale, evitando in tutto o in parte di addivenire ad una riduzione di personale”: di modo che anche “qualora l'impresa avvii una procedura di mobilità volontaria di personale in un determinato arco temporale” dovrebbe, “nel perdurare dello stesso”, essere messa in grado di fronteggiare qualsiasi “criticità produttiva sopravvenuta inerente ad uno specifico settore … qualora questa comprometta la continuità aziendale”.

Insomma: per i Giudici di legittimità l'innesto è ammissibile, purché il frutto sia quello di conservare i posti di lavoro; ciò a maggior ragione se la crisi aziendale in corso, che già aveva determinato l’apertura di una procedura di mobilità, è diventata per il datore di lavoro più onerosa da sostenere.

Viceversa, per i medesimi Giudici non sarebbe percorribile l’opzione inversa, ossia dichiarare aperta una procedura di mobilità dopo che si è già fatto ricorso al contratto di solidarietà “difensivo”, essendo “la stipula del contratto di solidarietà, in connessione al sacrificio richiesto ai lavoratori con la riduzione dell'orario lavorativo e quindi della retribuzione” preordinata al mantenimento dei posti di lavoro (essendo, al contrario, scopo della procedura di mobilità l'eliminazione di posti di lavoro).

La sentenza in commento farà certamente discutere, ma sembrerebbe anche aprire nuovi orizzonti sul fronte della composizione delle crisi aziendali. Salva sempre, s’intende, la necessaria copertura finanziaria a monte a carico dello Stato.