Prassi e divieti non sempre esonerano il datore di lavoro in caso di infortunio.

Con sentenza n. 30679/2019, la Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata su un caso di risarcimento per danno da infortunio sul lavoro, in relazione al quale i precedenti Giudici di merito accertavano una responsabilità del lavoratore-vittima nella misura del 65%.

In particolare, la responsabilità dell’infortunato era stata determinata sulla base della circostanza per cui, pur essendogli stato detto di non eseguire un lavoro, questi decideva di svolgerlo comunque, “senza essere sufficientemente informato sulle caratteristiche dell’opera da svolgere”.

Al riguardo, i Giudici delle leggi, senza entrare nel merito della ripartizione delle colpe tra il lavoratore ed il datore di lavoro, hanno rilevato che vi possono essere dei casi in cui il comportamento dell’infortunato, seppure non integrante un c.d. “rischio elettivo” (ossia: un comportamento abnorme, contrario a qualsiasi principio di accortezza e dovere di ordinaria diligenza), sia comunque tale da determinare, quantomeno, un concorso di colpa dell'infortunato stesso nella causazione dell’evento lesivo.

In questo caso, infatti, varrà il principio – poco giuridico, ma molto aderente – secondo cui “chi è causa del suo mal, pianga sé stesso”. Viceversa, e cioè laddove sia accertata la violazione, da parte del datore di lavoro, “di specifici doveri informativi (o formativi) datoriali, tali da rendere altamente presumibile che, ove quegli obblighi fossero stati assolti, quel comportamento non vi sarebbe stato”, la percentuale di responsabilità dell'infortunio si ribalterà esclusivamente in capo al datore.

In tali ipotesi, concludono i Giudici di legittimità, “non è possibile addossare al lavoratore … l'ignoranza delle circostanze che dovevano essere oggetto di informativa (o di formazione)”.

E lo stesso principio vale anche nel caso in cui l’infortunio derivi da “prassi” quotidianamente seguite dal lavoratore, laddove sia accertato – come ha recentemente fatto sempre la Suprema Corte di Cassazione (sent. n. 29879/2019) – che tali prassi non sono idonee a far presumere una responsabilità dell’infortunato nella causazione dell’evento lesivo.

Tale è stato ritenuto il caso di una custode di un collegio studentesco che veniva “aggredita ed uccisa da ignoti … al presunto fine di impossessarsi di una cassetta contenente poche centinaia di migliaia di lire [n.d.r.: il fatto risaliva al 1998]; in relazione a tale evento, veniva accertato che la custode “era solita custodire anche le somme di denaro proventi delle quote di pernottamento degli studenti e ciò anche in tempo di notte maggiormente esposto ad atti criminosi di terzi [n.d.r.: così il testo della sentenza].

Ciononostante, i Giudici di legittimità non riconoscevano alcuna attenuante alla prassi in questione, posto che la semplice detenzione di valori rende prevedibile il “verificarsi di episodi di aggressione a scopo di lucro”, giacché insiti “nella tipologia di attività esercitata”.

Pertanto, alla luce di tutto quanto precede, al datore di lavoro, che intenda escludere qualsiasi propria responsabilità in caso di infortunio, non basterà semplicemente essere “attivo”, ma dovrà essere anche “proattivo”, intervenendo cioè sui comportamenti abituali che il lavoratore volontariamente e quotidianamente pone in essere, prima che sia troppo tardi.