Sulla non sostituibilità del comporto con le ferie autonomamente azionate dal lavoratore.

Nell’impianto delineato dal recentissimo D.P.C.M. 26 aprile 2020, il Governo continua a raccomandare (cfr. art. 1, lett. hh) la fruizione delle ferie – maturate od in corso di maturazione – quale misura di prevenzione dal rischio di contagio da Covid-19, sia pure subordinatamente alla verifica della possibilità di collocare il personale dipendente in regime di smart working (sul punto, per maggiori info, si rinvia al contributo pubblicato qui).

A tal proposito, occorre premettere che l’impianto del D.P.C.M. dianzi citato non muta, in senso sostanziale, l’istituto delle ferie, di modo che queste continueranno ad essere azionabili su input del dipendente, ma soltanto “nel tempo che l’imprenditore stabilisce, tenuto conto delle esigenze dell’impresa e degli interessi del prestatore di lavoro” (cfr. art. 2109, comma 2, Cod. Civ.).

Ciò che è destinato a valere anche nel caso in cui un lavoratore si trovi in malattia e decida di ricorrere alle ferie una volta che sia scaduto il periodo di conservazione del posto di lavoro ex art. 2110, comma 2, Cod. Civ. (c.d. “periodo di comporto”), senza mai rientrare sul posto di lavoro e senza previamente confrontarsi con il datore di lavoro circa i giorni da fruire a titolo di ferie.

Sul punto, si è recentemente pronunciata la Suprema Corte di Cassazione (sentenza n. 7566 del 27 marzo 2020), sancendo l’illegittimità della condotta di un dipendente che aveva operato nel modo sopra descritto e che, avendo fatto registrare un’assenza non giustificata né giustificabile, era stato licenziato per giusta causa.

A nulla sono valse le doglianze del lavoratore su ciò che, essendo la propria assenza per malattia prolungatasi per più di sessanta giorni, questi avrebbe avuto diritto, in ogni caso e prima di essere licenziato, ad una visita medica di idoneità ex art. 41, comma 2, lett. e-ter), d.lgs. n. 81/2008: invero, poiché tale visita è destinata a verificare l'eventuale compatibilità del lavoratore con le mansioni svolte prima dell’insorgere della suddetta malattia, il controllo medico è condizionato al previo ed effettivo rientro in servizio del dipendente.

Nel caso esaminato dai Giudici di legittimità, invece, il ricorrente invocava tale disposizione pur non avendo mai ripreso l’attività lavorativa e, quindi, senza che si fosse concretizzata alcuna violazione della norma in questione da parte del datore di lavoro.

Per le medesime ragioni, a nulla è parimenti valsa l’ulteriore doglianza, pure mossa dal lavoratore, su ciò che la mancata ripresa dell’attività lavorativa sarebbe stata determinata dall’esigenza di auto-cautelarsi (cfr. art. 1460 Cod. Civ.) contro una possibile riassegnazione alle mansioni da ultimo svolte, ritenute eziologicamente connesse alla malattia.

Ed è in questo scenario che il Supremo Collegio ha ribadito il consolidato – ma, forse, dimenticato – principio di diritto secondo cui “il lavoratore assente per malattia non ha incondizionata facoltà di sostituire alla malattia la fruizione delle ferie, maturate e non godute, quale titolo della sua assenza, allo scopo di interrompere il decorso del periodo di comporto, ma il datore di lavoro, di fronte ad una richiesta del lavoratore di conversione dell'assenza per malattie in ferie, e nell'esercitare il potere, conferitogli dalla legge (articolo 2109 c.c., comma 2), di stabilire la collocazione temporale delle ferie nell'ambito annuale armonizzando le esigenze dell'impresa con gli interessi del lavoratore, è tenuto ad una considerazione e ad una valutazione adeguate alla posizione del lavoratore”.

Insomma, ad ognuno il proprio compito: al lavoratore, quello di comunicare la propria intenzione di fruire delle ferie; al datore di lavoro quello di contemperare la richiesta con le esigenze imprenditoriali; ad entrambi, quello - invero, più difficile - di collaborare secondo reciproca buona fede e correttezza (cfr. artt. 2094, 2104, comma 2, e 1375 Cod. Civ.).