Il punto della giurisprudenza su licenziamento post-isolamento e vaccini

Se da un lato infervora il dibattito su cosa accadrà dopo il 31 marzo 2021, allo scadere del c.d. “blocco generalizzato” dei licenziamenti (v. qui per alcune considerazioni circa la violazione del blocco), d’altro lato è altrettanto ‘infiammato’ l’ulteriore dibattito su quando sia, invece, ammissibile un licenziamento in costanza di emergenza pandemica.

Ed invero, fatta eccezione per i licenziamenti che traggono origine da contestazioni disciplinari (i quali possono sfociare, nei casi più gravi, in un licenziamento per giusta causa e, nei casi meno gravi, in un licenziamento per giustificato motivo soggettivo) e per i licenziamenti individuali dei dirigenti (cui non si applica l’art. 7 della legge n. 604/1977, ossia la norma “bloccata” dal Legislatore), le possibilità di dismettere il personale dipendente non dirigenziale, per motivi diversi da quelli oggettivi (soppressione del posto di lavoro; crisi economica; etc.), si riducono a licenziamenti intimati – non senza qualche dubbio – per superamento del periodo di comporto (ossia per superamento del periodo massimo di conservazione del posto di lavoro, ai sensi dell’art. 2110 Cod. Civ. e della contrattazione collettiva applicabile) e a risoluzioni consensuali del rapporto di lavoro.

Quelle sopra ricordate, ovviamente, sono ipotesi "tipiche" di licenziamento/risoluzione del rapporto di lavoro che, anche durante il periodo emergenziale, debbono continuare ad essere soggette alle proprie, consuete, regole di intimazione. Ci si chiede, peraltro, come quelle stesse ipotesi di licenziamento possano essere declinate nel nuovo contesto pandemico e adattarsi a casistiche assolutamente nuove, quali (i) il caso del lavoratore che si è auto-procurato l’isolamento fiduciario e (ii) il caso del lavoratore che rifiuti di vaccinarsi.

Entrambe queste casistiche sono state già esaminate dalla giurisprudenza, che non ha mancato di fornire originali soluzioni interpretative.

In particolare, in punto di isolamento fiduciario, il Giudice del Lavoro trentino (Trib. Trento, ord. 21 gennaio 2021, est. Flaim) ha ritenuto che l’essersi una dipendente recata in Albania in “ferie dal 3 al 16 agosto”, in seguito al quale periodo – poi protrattosi in ragione di alcuni permessi – “non ha potuto rientrare immediatamente al lavoro, dovendo osservare il prescritto periodo di isolamento fiduciario per 14 giorni, fino al 9.9.2020”, costituisce una condotta negligente passibile di licenziamento: stante la chiara e severa normativa emergenziale adottata in punto di spostamenti extranazionali e l’obbligo di sottoporsi ad un periodo di isolamento fiduciario, per il Giudice trentino la dipendente “si è posta, per propria responsabilità, in una situazione di impossibilità di riprendere il lavoro alla data prescritta, ossia subito dopo la fine del periodo di ferie”.

A fronte di questa responsabilità, “la sua assenza dal lavoro per 14 giorni, seppur dovuta alla necessità di adempiere l’obbligo pubblicistico di isolamento fiduciario, non può considerarsi giustificata. Infatti la ricorrente avrebbe ben potuto evitare di trovarsi assoggettata a detto obbligo astenendosi dall’effettuare il viaggio in Albania durante il periodo feriale” restando quindi in Italia; del resto, “il soddisfacimento delle esigenze di sanità pubblica … ha comportato per ampi strati della popolazione residente in Italia il sacrificio di numerosi diritti della personalità, in particolare di libertà civile, anche tutelati a livello costituzionale”.

Non meno interessante è la pronuncia resa dal Giudice del Lavoro messinese (Trib. Messina, ord. 12 dicembre 2020, est. Bonanzinga) con riguardo all’obbligo di vaccino, sebbene i fatti di causa si riferiscano ad un piano vaccinale diverso da quello Astrazeneca-Pfizer-Moderna.

Precisamente, nell’ambito del "programma di vaccinazione antinfluenzale e antipneumococcica per l'anno 2020/2021" specificamente indetto dalla Regione Sicilia per il proprio personale medico, un’infermiera rifiutava di sottoporsi al suddetto vaccino antinfluenzale e per tale motivo veniva dichiarata inidonea alla mansione e privata dello stipendio. E però, tale ‘sanzione’ era stata disposta da una normativa regionale, mentre è notorio che l’introduzione di una campagna vaccinale forzata è di esclusiva competenza della normativa statale.

Sicché, il Giudice messinese, rilevato che – al tempo dei fatti di causa“la normativa [n.d.r.: nazionale] volta a contrastare la diffusione del covid 19 non ha introdotto un obbligo vaccinale per il personale sanitario, il cui mancato assolvimento determina inidoneità al lavoro”, l’infermiera in questione non poteva essere dichiarata inidonea al lavoro e, per ciò solo, privata della retribuzione.

Si tratta, com’è evidente, di una soluzione “politica” e che, chiaramente, non reggerebbe a fronte di una normativa statale che introduca un obbligo generalizzato di vaccinarsi. In situazioni di emergenza sanitaria, infatti, la Corte costituzionale ha già avuto modo di evidenziare come le esigenze di tutela della salute della collettività siano destinate a prevalere su qualunque altra esigenza (“la profilassi per la prevenzione della diffusione delle malattie infettive richiede necessariamente l’adozione di misure omogenee su tutto il territorio nazionale”: C. cost., sentenza del 18 gennaio 2018, n. 5).

In questa ipotesi, sorge spontaneo chiedersi se il dipendente che rifiuti di vaccinarsi possa essere ritenuto inidoneo, oppure no, a svolgere l’attività lavorativa: problema, questo, particolarmente delicato – e con esiti, forse, prevedibili – per quei lavoratori che svolgono mansioni in ambito sanitario, oppure a contatto diretto con il pubblico.