Sui limiti collettivi alla disciplina del contratto di lavoro intermittente

Con sentenza n. 29423/2019, la Suprema Corte di Cassazione ha arricchito il novero dei principi che regolamentano il ricorso all’istituto del contratto di lavoro intermittente.

Nell’intenzione del Legislatore (cfr. artt. 33 e ss. del d.lgs. n. 276/2003, poi abrogati ed integralmente sostituiti dagli artt. 13 ss. e 55 del d.lgs. n. 81/2015), per contratto di lavoro intermittente si intende quel tipo di contratto “mediante il quale un lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro che ne può utilizzare la prestazione lavorativa in modo discontinuo o intermittente”.

Proprio in ragione di tale peculiarità, il Legislatore ha previsto che le “esigenze” che possono legittimare siffatto contratto devono essere stabilite dalla contrattazione collettiva (cfr. art. 34, comma 1, d.lgs. n. 276/2003) e, in caso di inerzia delle Parti sociali, dal Ministero del Lavoro (che vi ha provveduto con D.M. 23 ottobre 2004).

Nel caso di specie, era accaduto che il contratto collettivo applicabile al rapporto di lavoro in questione avesse contemplato le specifiche esigenze che ammettevano l’utilizzo di prestazioni di lavoro intermittente soltanto nella tornata contrattuale del 2004; successivamente, e cioè nell'ambito della tornata contrattuale del 2011, l’istituto del contratto di lavoro intermittente veniva sic et simpliciter espunto.

Pertanto, nella prospettiva del lavoratore, poiché la società datrice di lavoro aveva stipulato con lui un contratto di lavoro intermittente nel vigore del contratto collettivo del 2011 (che, lo ripetiamo, non contemplava tale istituto), il contratto in questione doveva ritenersi per ciò solo illegittimo; a dimostrazione del divieto di sottoscrivere contratti di lavoro intermittente soccorreva, poi, il fatto che tale istituto veniva reintrodotto soltanto con il contratto collettivo del 2017.

Né, secondo la tesi del lavoratore, si poteva sostenere che l’impugnato contratto di lavoro intermittente potesse essere “sanato” dal fatto che il Ministero del Lavoro avesse adottato un decreto ministeriale, dove esplicitava alcune ragioni legittimanti l’impiego di lavoratori intermittenti: invero, il decreto ministeriale in questione rappresenta un mero “intervento sussidiario e sostitutivo ... contemplato ... nella sola ipotesi di inerzia delle parti collettive e non anche quando queste si fossero comunque attivate esprimendosi in senso ostativo alla utilizzabilità di tale tipologia contrattuale nell'ambito del settore oggetto di regolazione”.

Sennonché, la tesi del lavoratore non è stata accolta dal Supremo Collegio, il quale ha ritenuto che nessuna norma di legge riconosce “espressamente alle parti sociali alcun potere di interdizione in ordine alla possibilità di utilizzo di tale tipologia contrattuale; né un siffatto potere di veto può ritenersi implicato dal richiamato ‘rinvio’ alla disciplina collettiva che concerne solo un particolare aspetto di tale nuova figura contrattuale e che nell'ottica del legislatore trova verosimilmente il proprio fondamento nella considerazione che le parti sociali, per la prossimità allo specifico settore oggetto di regolazione, sono quelle maggiormente in grado di individuare le situazioni che giustificano il ricorso a tale particolare tipologia di lavoro”.

Al di là delle considerazioni che accompagnano e connotano il caso di specie, il principio da ultimo enunciato dai Giudici è molto chiaro: “andate e sottoscrivete contratti di lavoro intermittente”.

Con buona pace dei lavoratori così ingaggiati.