Recenti riflessioni giurisprudenziali sul patto di non concorrenza: corrispettivo e recesso

Per i datori di lavoro, i propri know-how e processi produttivi costituiscono beni aziendali di inestimabile valore: su di essi si fonda, infatti, il c.d. “avviamento”, ossia l’attitudine di un’impresa a generare profitto per il tramite dei suoi asset materiali ed immateriali.

Diviene, così, comprensibile la necessità di evitare che i dipendenti venuti in contatto con quei know-how e processi produttivi possano, un domani, metterli – accidentalmente o volontariamente – al servizio di un competitor.

A tale scopo, la legge – e precisamente l’art. 2125 Cod. Civ. – acconsente all’apposizione, nel contratto di lavoro, di un “patto di non concorrenza”, ossia di una clausola in base alla quale il lavoratore si impegna, per un limitato periodo di tempo decorrente dalla cessazione del rapporto di lavoro e con riguardo ad uno specifico territorio, a non mettere a disposizione di terzi, indirettamente o direttamente, il patrimonio di conoscenze acquisito in costanza di rapporto, oppure a non svolgere per altri le medesime mansioni prestate in favore dell’ex datore di lavoro.

A fronte dell’impegno così assunto dal lavoratore, però, sempre la legge richiede che il datore di lavoro si impegni a versare un corrispettivo congruo rispetto ai contenuti ed alla portata di quell’impegno. Tale obbligo del datore di lavoro non è di poco conto: un corrispettivo iniquo comporterà, infatti, la nullità del patto di prova (ciò si verifica, ad esempio, nel caso in cui il corrispettivo del patto di non concorrenza sia inferiore al 15% della retribuzione globale annua del dipendente: così, Trib. Milano, 11 settembre 2004).

E proprio sulla congruità, oppure no, del corrispettivo del patto di non concorrenza si sono registrati molteplici contenziosi pervenuti, di recente, dinnanzi alla Suprema Corte di Cassazione. Sicché, i Giudici di legittimità ne hanno approfittato per fornire, ancora una volta, una ricostruzione di tale peculiare istituto, nella speranza di chiarirne l’utilità e le implicazioni.

In particolare, con sentenza n. 9790/2020, il Supremo Collegio ha, anzitutto, ricordato che “le clausole di non concorrenza sono finalizzate a salvaguardare l'imprenditore da qualsiasi ‘esportazione presso imprese concorrenti’ del patrimonio immateriale dell'azienda, nei suoi elementi interni (organizzazione tecnica ed amministrativa, metodi e processi di lavoro, eccetera) ed esterni (avviamento, clientela, ecc.), trattandosi di un bene che assicura la sua resistenza sul mercato ed il suo successo rispetto alle imprese concorrenti”.

Quindi, il medesimo Supremo Collegio ha precisato che l’operatività del patto di non concorrenza “non deve … limitarsi alle sole mansioni espletate dal lavoratore nel corso del rapporto”, potendo essa anzi “riguardare qualsiasi attività lavorativa che possa competere con quella del datore di lavoro”.

Ed è questa la “lente di ingrandimento giuridica” con cui deve essere valutata la congruità del corrispettivo del patto di non concorrenza e non già, come pure taluni ritengono, il solo fatto che quel patto sia remunerato in costanza di rapporto (prassi, questa, peraltro non espressamente vietata: cfr. Trib. Milano, Sez. Lav., ordinanza del 21 luglio 2005). Per modo che, conclude la Suprema Corte, saranno nulli soltanto quei patti di non concorrenza caratterizzati da corrispettivi “manifestamente iniqui o sproporzionati in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione delle sue possibilità di guadagno”.

Ciò detto, attenzione, però, ad eccepire la nullità del patto di non concorrenza per incongruità del corrispettivo: di fatti, un eventuale accoglimento di questa eccezione potrebbe determinare non solo l’insussistenza del vincolo anticoncorrenziale assunto dal lavoratore, ma anche – secondo le comuni regole civilistiche – l’obbligo di questi di restituire tutte le somme percepite in virtù del patto medesimo (cfr., da ultimo, Trib. Modena, Sez. Lav., sentenza del 23 maggio 2019).

Fermo quanto precede, si potrebbe nondimeno valutare di recedere dall'iniquo patto di non concorrenza secondo gli ordinari istituti civilistici, oppure secondo le modalità pattuite tra le parti stipulanti il patto.

In merito a tale ultimo punto, si rammenta, peraltro, che la giurisprudenza mal tollera l’attribuzione di un “diritto potestativo” di cessazione del patto, ovvero di un recesso esercitabile “a piacere” da una soltanto delle parti (solitamente, il datore di lavoro): a fronte di una simile clausola, a nulla vale che il recesso in questione sia esercitato in costanza di rapporto di lavoro od a rapporto di lavoro concluso, giacché il patto di non concorrenza sarà, per ciò solo, invalido.

Ed è proprio questo il caso recentemente esaminato sempre dalla Suprema Corte con ordinanza del 3 giugno 2020, n. 10536, la quale è arrivata a sancire che “tamquam non esset va considerata la successiva rinuncia al patto [...] appunto perché, mediante questa, si finisce per esercitare la clausola, nulla, tramite cui la parte datoriale unilateralmente riteneva di potersi sciogliere dal patto, facendo cessare ex post gli effetti, invero già operativi, del patto stesso, condizione risolutiva affidata in effetti a mera discrezionalità di una sola parte contrattuale”.

Insomma, se l’intento dei Giudici di legittimità era – in teoria – quello di fare luce su un istituto ancora controverso, forse – nei fatti – sono stati sollevati ancora più dubbi. Dubbi che, a ben vedere, potrebbero, in larga parte, essere fugati mediante un’accurata e chiara – nonché preventiva – pattuizione tra le parti dei rispettivi obblighi anticoncorrenziali e remunerativi, meglio se rinforzati da apposite clausole penali in caso di loro inosservanza.