Delimitazione delle ipotesi di reintegra in caso di licenziamento “sproporzionato”.

Con sentenza n. 28098/2019, la Suprema Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sul tema, in verità tanto annoso quanto complesso, del licenziamento per “giusta causa” (cfr. art. 2119 Cod. Civ.) e, precisamente, del licenziamento per giusta causa ritenuto “sproporzionato” rispetto ai fatti addebitati.

La complessità del tema deriva da ciò che, come noto, la giusta causa di licenziamento costituisce una “clausola generale” del nostro ordinamento (cfr. art. 30, commi 1 e 3, legge n. 183/2010) che necessita di essere valorizzata e, in un certo senso, ‘colmata’ ricorrendo a “fattori esterni relativi alla coscienza generale”, nonché ai “principi che la … disposizione tacitamente richiama” (id est, l’art. 2119 Cod. Civ.).

In questa clausola generale vi rientrerebbe, come concorda la giurisprudenza, anche il concetto di “proporzionalità” del licenziamento rispetto ai fatti addebitati. Non altrettanto concordi sono stati, però, gli esiti cui tale operazione interpretativa ha portato nella prassi.

Tant’è che si è reso necessario l’ennesimo interpello della Suprema Corte, la quale, con la pronuncia in commento, ha sancito che “lo scollamento tra la gravità della condotta realizzata e la sanzione adottata”, ossia il sostrato del concetto di proporzionalità, perché dia luogo alla tutela reintegratoria (cfr. art. 18, comma 4, legge n. 300/1970), deve emergere “dai contratti collettivi ovvero dai codici disciplinari applicabili”.

Per contro, ove vi sia un “difetto di proporzionalità che non risulti dalle previsioni del contratto collettivo”, il dipendente potrà rivendicare soltanto una tutela di tipo risarcitorio (cfr. art. 18, comma 5, legge n. 300/1970).

Ciò che si evince dal ragionamento logico-giuridico dianzi enucleato è, anzitutto, lo sforzo, in verità apprezzabile, dei Giudici di legittimità volto a dare coerenza sistematica a discipline alquanto confusionarie, esercitando così la propria “funzione nomofilattica”.

E, tuttavia, trattasi di uno sforzo destinato, per così dire, a ‘non superare la notte’. Di fatti, con sentenza n. 29090/2019, a distanza di appena pochi giorni dalla citata sentenza n. 28098/2019, la stessa Suprema Corte ha arricchito il concetto di proporzionalità, precisando che esso non deve essere rapportato esclusivamente alle ipotesi per cui il contratto collettivo prevede l’applicazione di una sanzione conservativa – di cui il Giudice dovrà comunque tener conto – bensì anche “all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all’assenza di pregresse sanzioni, alla natura e tipologia del rapporto medesimo”.

Pertanto, conclude la recente sentenza n. 29090/2019, anche il dipendente che ha abbia dato luogo ad un diverbio seguito da vie di fatto – ipotesi “di scuola” di licenziamento per giusta causa – potrebbe avere una chance di rientrare in servizio, laddove il diverbio sia stato “sedato con l’intervento di una sola persona” ed il dipendente in questione, apparentemente difesosi rispetto ad un’aggressione ricevuta, sia stato impiegato “da lungo tempo” dalla società, senza mai divenire “soggetto ad alcun procedimento disciplinare”.

Così è (se vi pare).