Con questa definizione si intende comunemente una sezione della Parodo dell'Agammenone compresa fra i versi 160-183, in cui il coro interrompe la rievocazione dell'antefatto mitico, per innalzare un inno alla divinità.
L'inno comprende la seconda coppia strofica: strofe e antistrofe e la terza strofe.
La definizione nasce dal fatto che la sezione comprende i moduli tipici dell'innografia:
invocazione alla divinità;
nomi del dio, varie sue epiclesi (attributi con cui il dio è venerato in relazione a vari luoghi, santuari, specificità del rito o del culto),
aretalogia, cioè elenco delle virtù del dio, delle sue prerogative,
sezione cletica: supplica e richiesta di intervento.
Il tema dell'inno è una riflessione filosofico-teologica sulla sofferenza e sulla conoscenza. La conoscenza passa attraverso la sofferenza: essa dunque non è inutile, non è vana, è ordinata ad una superiore consapevolezza ed è espressione della giustizia di Zeus.
Si esprime, in questa meditazione, da un lato la consapevolezza del limite dell'uomo che non possiede in modo incondizionato l'accesso alla saggezza, ma vi viene costretto - instradato - dagli eventi e dal dio; dall'altro l'attività del dio come garante e responsabile della giustizia, anche contro la volontà degli uomini.
L'origine di questa riflessione è in Esiodo e nel nesso da lui istituito fra sofferenza, apprendimento, giustizia.
Tuttavia, nella tragedia, Agamennone non sembra incarnare il precetto dell'apprendimento-sofferenza: egli muore - unico caso nella tragedia eschilea - senza giungere a consapevolezza del proprio errore.
Il nesso fra sofferenza e conoscenza esprime quella che Vincenzo di Benedetto ha definito "la cellula scissa", identificandola come essenza del tragico. L'evento tragico è un evento contraddittorio e autoconflittuale. Esso è al tempo stesso giusto e ingiusto; giusto e doloroso; pio ed empio. La tragedia, secondo lo studioso, rifiuta un modo banale e piatto di vedere le cose ed esprime la tensione che si nasconde sotto ciò che viene considerato 'normale'. Soffrire e conoscere significa in primo luogo essere consapevoli della propria sofferenza, farne oggetto di meditazione, addentrarsi con gli strumenti della conoscenza nelle profondità dell'inspiegabile (la sofferenza umana, l'imperscrutabile volontà degli déi, il carattere primitivo e inquietante della cultura che fa da sfondo ai miti, in cui si iscrivono pratiche come il sacrificio umano).
Questa specificità del conoscere tragico si esprime attraverso meccanismi - non solo razionali, ma anche emotivi - tipici della tragedia, che vanno dal semplice essere informato da un messaggero allo sperimentare uno stato di ansia e di paura, avvertire un presentimento.
Mentre in Sofocle e in Euripide fra cultura primitiva (che fa da sfondo ai miti) e cultura contemporanea si produce un conflitto, in Eschilo essa viene integrata in una griglia concettuale unitaria, in cui le richieste della cultura primitive vengono integrate in una superiore giustizia divina che conferisce loro un significato più ampio. Generalmente è il COro a farsi portavoce di questo messaggio etico-didattico.
Tuttavia, la struttura della tragedia rendeva possibile l'espressione di altri sentimenti nei confronti del soffrire e del morire (non incasellabili nel concetto di una superiore giustizia): vi sono personaggi che soffrono incolpevoli e per i quali non c'è alcuna 'lezione' da imparare, per esempio - nell'Agamennone - Cassandra.
La bilancia (ἐπισταθμώμενος);
Il peso/zavorra da gettare via (ἄχθος ἀπὸ βαλεῖν);
L'assennatezza, il senno: φρήν/πρόφρων/φρονέω;
Lo stillicidio del dolore (στάζω) vs. il 'cogliere il bersaglio' (τεύξεται) del senno.
Campo semantico del negativo (il peso, lo stillicidio) vs campo semantico della positività (bilancia, il bersaglio)
L'esperienza del conoscere è intrinsecamente tragica.
Tale conoscenza, turbata, si manifesta in vari modi nella tragedia: alcuni personaggi passano dall'ignoranza alla consapevolezza, mentre altri sviluppano una nuova prospettiva su ciò che già sanno, diventando consapevoli e pentendosi delle proprie azioni.
Particolarmente interessanti sono i casi in cui un personaggio:
- si trova in uno stato di follia e riconquista le facoltà mentali.
- si rende conto di essere stato manipolato.
Nelle Baccanti, Agaue emerge in scena dominata dall'incoscienza: crede di brandire sul tirso la testa di un leone, ma in realtà tiene la testa del proprio figlio, da lei ucciso in un acceso delirio bacchico. Attraverso un dialogo con il padre, gradualmente riacquista la consapevolezza e comprende l'orrore:
"Arti manthano! Adesso ho capito!"
Nelle Coefore, Clitemestra crede a lungo che suo figlio Oreste sia morto e ne è dispiaciuta. Poi finalmente si rende conto che il figlio è vivo; anzi è giunto fino a casa sua, fingendosi straniero e mentendo, con l'intenzione di ucciderla!
"Xuneka toupos! Ho capito il discorso!"
Cerca invano di preservare la propria vita, ma alla fine accetta l'inevitabile esito.
Tragico è comprendere tardi, in colpa o per essere ingannati dagli altri..