CAP 2: LA GIUSTIZIA NELL'ANTICA GRECIA (SOLONE, CLISTENE, PLATONE E I SUOI AMICI)

Solone (630-560 a.C.) definisce la giustizia come eumonia (buongoverno) = legge di misura per garantire il demos contro l'arbitrio degli aristocratici ed evitare rivolte.

Clistene V sec.: riforme per ottenere l'isonomia = uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.

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Platone (428-348 a.C.):

Di giustizia e Stato (polis) giusto parla il libro II del dialogo "La Repubblica".

Metto anche il riassunto per i pigri.

La città ideale/utopica di Platone è organizzata in 3 classi (vedi il dialogo "La Repubblica", VIII libro):

Filosofi (virtù = sapienza) / paragonati a vasi d'oro

Guardiani (virtù = coraggio) / vasi d'argento

Produttori-commercianti (virtù = temperanza) / vasi di bronzo

L'aristocrazia non è quella della nascita o della ricchezza, ma quella fornita da attitudini che ci sono date, e che possono essere in contrasto con la classe sociale che ci ha generato. Quindi l'aristocratico Platone si rivela un meritocratico.

Voi cittadini siete tutti fratelli, diremo loro continuando il racconto, ma la divinità, plasmandovi, al momento della nascita ha infuso dell'oro in quanti di voi sono atti a governare, e perciò essi hanno il pregio più alto; negli ausiliari ha infuso dell'argento, nei contadini e negli altri artigiani del ferro e del bronzo. Dal momento che siete tutti d'una stessa stirpe, di solito potete generare figli simili a voi, ma in certi casi dall'oro può nascere una prole d'argento e dall'argento una discendenza d'oro, e così via da un metallo all'altro. Ai governanti quindi la divinità impone, come primo e più importante precetto, di non custodire e non sorvegliare nessuno così attentamente come i propri figli, per scoprire quale metallo sia stato mescolato alle loro anime; e se il loro rampollo nasce misto di bronzo o di ferro, dovranno respingerlo senza alcuna pietà tra gli artigiani o i contadini, assegnandogli il rango che compete alla sua natura. Se invece da costoro nascerà un figlio con una vena d'oro o d'argento, dovranno ricompensarlo sollevandolo al rango di guardiano o di aiutante, perché secondo un oracolo la città andrà in rovina quando la custodirà un guardiano di ferro o di bronzo. (LA REPUBBLICA).

L'aristocrazia non è quella della nascita o della ricchezza, ma quella fornita da attitudini che ci sono date, e che possono essere in contrasto con la classe sociale che ci ha generato. Possibile la mobilità sociale.

"Se nelle città i filosofi non diventeranno re o quelli che ora sono detti re e sovrani non praticheranno la filosofia in modo genuino e adeguato, e potere politico e filosofia non verranno a coincidere, con la necessaria esclusione di quelli che in gran numero ora si dedicano separatamente all'una o all'altra attività, le città non avranno tregua dai mali". (LA REPUBBLICA).

LA GIUSTIZIA

È giusto ciò che va a vantaggio della città.

Giusto è che ogni classe svolga al meglio il compito che le è assegnato. GIUSTO È CHE CIASCUNO STIA AL POSTO SUO.

Scopo della politica è evitare conflitti all'interno della città, dunque Platone propone il comunismo dei beni e l'uguaglianza tra i sessi.


Per Platone i bisogni dei singoli trovano realizzazione dello Stato.

Socrate condannato a morte, rifiuta di fuggire per rispetto alla legge e per amore della democrazia, che pone al di sopra di tutto, anche in un caso di chiaro errore giudiziario.

Di giustizia si parla nei primi quattro libri de LA REPUBBLICA di Platone, dove diversi personaggi espongono la loro idea di giusto:

  • Il giovane, irruento Trasimaco sostiene che la giustizia è l'utile (sympheron) del più forte. Questa definizione, tramite le domande di Socrate, viene politicamente chiarita così (338c):

"... ciascun governo istituisce leggi (nomoi) per il proprio utile; la democrazia fa leggi democratiche, la tirannide tiranniche e allo stesso modo gli altri governi. E una volta che hanno fatto le leggi, proclamano che il giusto per i governati è ciò che è invece il loro proprio utile, e chi se ne allontana lo puniscono come trasgressore della legge ed ingiusto. Questo, mio ottimo amico, è quello che dico giusto, il medesimo in tutte quante le poleis, l'utile del potere costituito. Ma, se non erro, questo potere detiene la forza. Così ne viene, per chi sappia ben ragionare, che in ogni caso il giusto è sempre identico all'utile del più forte." (338e-339a).

Per Trasimaco la giustizia si riduce in tutti i casi a uno strumento del potere costituito - sia esso democratico, aristocratico o tirannico - finalizzato al suo utile.

  • Glaucone, invece, sostiene una più elaborata teoria contrattualistica sull'origine delle leggi:

L’opinione comune sulla giustizia, dice Glaucone, si basa sull’idea che commettere ingiustizia sia un bene e subirla un male. Ma le persone che non hanno la forza di prevalere sugli altri e temono che gli altri possano a loro volta sopraffarle, trovano vantaggioso mettersi d’accordo per non farsi ingiustizia a vicenda. Così hanno cominciato a porre leggi e a far patti fra loro, e hanno chiamato nòmimos (legittimo e conforme alle consuetudini) e dìkaios (giusto) ciò che è stabilito dal nomos.

"quando gli uomini commettono ingiustizie reciproche e provano entrambe le condizioni, non potendo evitare l'una e a scegliere l'altra sembra loro vantaggioso accordarsi per non commettere né subire ingiustizia. Di qui cominciarono a stabilire leggi e patti tra loro e a dare a ciò che viene imposto dalla legge il nome di legittimo e di giusto. Questa è l'origine e l'essenza della giustizia, che sta a metà tra la condizione migliore, quella di chi non paga il fio delle ingiustizie commesse, e la condizione peggiore, quella di chi non può vendicarsi delle ingiustizie subite. Ma la giustizia, essendo in una posizione intermedia tra questi due estremi, viene amata non come un bene, ma come un qualcosa che è tenuto in conto per l'incapacità di commettere ingiustizia; chi infatti potesse agire così e fosse un vero uomo, non si accorderebbe mai con qualcuno per non commettere o subire ingiustizia, perché sarebbe pazzo. Tale, Socrate, è dunque la natura e l'origine della giustizia, secondo l'opinione corrente. Ci renderemmo conto perfettamente che anche chi la pratica lo fa contro voglia, per l'impossibilità di commettere ingiustizia, se immaginassimo una prova come questa: dare a ciascuno dei due, al giusto e all'ingiusto, la facoltà di fare ciò che vuole, e poi seguirli osservando dove li condurrà il loro desiderio. Allora coglieremmo sul fatto il giusto a battere la stessa strada dell'ingiusto per spirito di soperchieria, cosa che ogni natura è portata a perseguire come un bene, mentre la legge la devia a forza a onorare l'uguaglianza.

(Repubblica, libro II, 358e-359a ss.).

La posizione di Glaucone anticipa il contrattualismo nella versione di Hobbes, cioè nella forma di un pactum unionis fra individui, cui non partecipa il sovrano.

Secondo la testimonianza di Aristotele (Politica III 1280b) una tesi simile a quella di Glaucone era sostenuta dal sofista Licofrone, per il quale la legge (nomos) era solo una composizione (syntheke) che assicura reciprocamente il giusto ai cittadini, ma non li rende buoni e giusti. In questo modo, commentava Aristotele, la comunità politica (koinonia) diviene simile a una alleanza militare (symmachia), con la sola differenza che ha luogo fra vicini e non fra popoli reciprocamente distanti. Una posizione analoga è esposta da Tucidide nel dialogo fra Ateniesi e Melii (V,89.1), in questi termini:

"...nella considerazione [logos] umana il giusto [dikaia], come complesso dei diritti e dei doveri di ciascuno] viene preferito per una uguale necessità [apo tes ises ananches], mentre chi è più forte fa quello che può e chi è più debole cede." (V, 89, 1)

Per sostenere la sua tesi Glaucone ricorre al mito de l'anello di Gige. Del mito di Gige esistono due versioni: una di Erodoto e una più antica, che racconta Glaucone. Il mito è anche letto nel film "Il paziente inglese".

  • Adimanto invece dice che la giustizia viene di solito elogiata solo per la buona reputazione che ne deriva e per i vantaggi ad essa connessi. Anche la religione, promettendo ricompense ai giusti e supplizi eterni agli ingiusti, nell’Ade, tratta la giustizia solo come un bene non di per sé, ma per qualcos’altro ( 363a ss.).
  • Socrate dimostrerà a tutti i suoi amici che la giustizia è un bene in sé.

[fonte https://btfp.sp.unipi.it/dida/resp/ar01s10.xhtml, dove puoi trovare interessanti approfondimenti sulla Repubblica di Platone]

In un altro dialogo platonico "Gorgia" troviamo la tesi estrema sulla giustizia del misterioso sofista

  • Callicle:

"Per quanto i filosofi si perdano nelle loro vane sottigliezze, la verità è che la Giustizia è la ragione del più forte, e che tutti gli uomini, se potessero, desidererebbero vivere al modo del tiranno, il quale dispone di un potere così grande che da esso dipende la vita di moltissimi uomini. Tutti, infatti, bramano il potere, perché è il mezzo più efficace per realizzare i desideri: maggiore è il potere posseduto e più vasta è la gamma di desideri realizzabili. Quale uomo, infatti, non vorrebbe che tutti i suoi desideri fossero realizzati? Fare tutto ciò che si vuole è la felicità (e la libertà)! E tutti gli uomini, per natura, tendono ad essa. È giusto, perciò, per natura che in questa lotta siano i più forti a godere del maggiore potere, e ne dispongano secondo i propri desideri. Così infatti prescrivono le leggi di natura: che i più forti dominino e i più deboli siano dominati. D'altronde, la natura si struttura gerarchicamente, e, mentre gli animali deboli sono dominati, i leoni, le aquile e gli sparvieri dominano in virtù della loro forza. E nei rapporti tra gli Stati, non si nota, forse, una dinamica simile? Gli Stati più potenti subordinano con i mezzi legittimi della guerra, delle alleanze, e della violenza, gli Stati più deboli. Queste sono le leggi della natura (phusis)! Le leggi dello Stato, le norme (nomoi), invece, sono leggi della massa, dei deboli, perché vincolano i più forti ad inibire i propri impulsi di potere, ed i propri desideri di dominio (legittimati dalla loro evidente superiorità in ogni campo alla mediocrità della massa). Esse li vincolano all'eguaglianza, e alla Giustizia, parole vuote, contraffatte, belle favolette che riempiono le bocche degli stolti, e nascondono ipocritamente la verità della lotta per il potere. Costringono i forti, i superiori, i valorosi, gli aristoi, a subordinarsi a questi valori vuoti, che hanno il solo scopo di indebolire e impedire lo sviluppo di quei caratteri che per natura sarebbero destinati al governo e al dominio, e che soli sono degni di valore e di bellezza. Chi si appella a queste leggi ingannatrici vuole dominare laddove dovrebbe essere solamente disposto ad essere dominato. E la tua filosofia, caro Socrate, è davvero una bella attività, se la si pratica da ragazzi, quando lo sviluppo armonioso e sano delle attività dello spirito la richiede, ma la si abbandoni nell'età adulta, se non si vuole risultare ridicoli, dannosi, e inutili alla città! Che utilità può avere un filosofo? Egli è akrestos, inutile: non conosce nemmeno la via dell'agorà, e non partecipa alle Assemblee, ma se ne sta tutto il tempo, oscuro, rincantucciato in un angolo a confabulare con i suoi discepoli, e a pervertire i giovani, quasi tramasse contro l'unità della koinonia, della comunità dei cittadini, mentre, invece, non saprebbe nemmeno difendersi pubblicamente dalle accuse di un Tribunale che volesse sbranarlo! Come può un tale cittadino essere utile alla Città?"

Bellissimo è anche il mito Prometeo raccontato da Protagora nel dialogo omonimo per spiegare l'origine delle società politiche. Ricordo che Protagora è un sofista, nemico (rispettato, ma nemico) di Platone, Socrate e della loro allegra brigata.

Ricordo anche che per i sofisti le leggi sono umane, non divine, si possono dunque cambiare. I valori su cui si fondano sono relativi. L'opinione giusta è quella che trova concorde il maggior numero di cittadini.

N.B. questa idea di giustizia è del tutto opposta a quella di Socrate e Platone.

Di contro alla tesi di Trasimaco e ai dubbi di Glaucone e Adimanto nei libri I e II della Repubblica, Socrate dimostra nel libro IX che il tiranno è il più infelice tra gli uomini.

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A proposito dei miti, celebre è anche il passaggio de "La Repubblica" nel quale Socrate se la prende coi poeti e gli aedi inventori di storielle sugli dei.

"E pregheremo di nuovo Omero e gli altri poeti di non rappresentare Achille, figlio di una dea, "talora disteso su un fianco, talora invece supino, talora bocconi", "e talora, levatosi dritto, errante sulla riva del mare infecondo", e neppure "che prende con ambo le mani la cenere scura e la versa sul capo", o mentre effonde tutti quegli altri pianti e lamenti che ha descritto il poeta; e nel contempo di non raffigurare Priamo, discendente degli dèi, mentre supplica e "nel fimo si voltola, chiamando per nome ogni guerriero". Ma pregheremo ancora di più Omero di non rappresentare gli dèi che si lamentano e dicono "oh me sventurato, me misera madre!". E se proprio vogliono rappresentarli, almeno non osino ritrarre il più grande degli dèi in maniera così difforme dal vero, da fargli dire: "ahi, che un prode a me caro attorno alla rocca inseguito veda con gli occhi, e il mio cuore ne piange"; e "ahimè, ahimè! Sarpedone, a me il più caro tra gli uomini, per mano del Meneziade Patroclo è destino che cada!". Se infatti, caro Adimanto, i nostri giovani ascoltassero seriamente simili parole senza deriderle come indecorose, difficilmente uno potrebbe ritenersi indegno di queste azioni in quanto uomo e rimproverarsi se gli capita di dire o di fare qualcosa del genere, ma intonerebbe senza ritegno e senza forza d'animo molti lamenti e molti gemiti per dolori da poco".

"Quello che dici è verissimo", affermò.


Insomma, Socrate se la prende coi poeti che rappresentano le debolezze di eroi e dei. Nel mito della caverna, negli illusionisti che proiettano le ombre sul fondo della prigione sono identificabili con poeti, pittori, scultori e sofisti.

Il mito va bene, ma solo se usato per spiegare complicati concetti filosofici, non se come mezzo di puro intrattenimento diseducativo.

All’inizio Platone adotta l’orientamento tipicamente razionalistico di Socrate, il quale di fronte al mito ha un atteggiamento di rifiuto perché privilegia la discussione razionale.

Successivamente, Platone rivaluterà il racconto di tipo mitico. Lo usa spesso, gli attribuisce una notevole importanza e se ne serve come stimolo e spiegazione per il logos (ragionamento).

Ma l'arte deve essere educativa. L'educazione dei cittadini è fondamentale per avere una città giusta e armonica. Gli insegnanti saranno molto stimati nella città ideale di Platone. Le materie insegnate saranno:

  • ginnastica ed educazione a una vita sana
  • musica ed educazione al bello
  • aritmetica
  • astronomia
  • geometria
  • stereonomia (geometria dei solidi)
  • la filosofia è corso avanzato solo per i migliori

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Il tema politico tornerà in due opere tarde di Platone: "Il Politico" [clicca sul link e vai a pagina 10, al mito di Crono] e "Le leggi", scritti dopo "La Repubblica". Non c'è Socrate. Platone sviluppa ulteriormente il proprio pensiero, cercando di trovare un giusto mezzo tra l'eccellenza del modello da lui proposto ne "La Repubblica" e l'effettiva applicabilità delle sue teorie nella realtà.

Nel Politico ribadisce che a governare debbano essere i filosofi, ma propone una classificazione delle forme di governo possibili.

6 tipi di governo ordinati dal migliore al peggiore:

  1. Monarchia, cioè il governo di uno solo, tra tutti il migliore se chi governa è saggio e agisce nel rispetto delle leggi
  2. Aristocrazia, cioè il governo di pochi esperti
  3. Democrazia retta da leggi, senza dubbio la forma di governo peggiore tra quelle in cui vige un codice di leggi perché sottomessa ai capricci della moltitudine
  4. Democrazia non retta da leggi, la più vivibile tra le forme di governo degenerate
  5. Oligarchia, cioè il governo di pochi malvagi (nella Repubblica viene chiamata timocrazia)
  6. Tirannia, cioè il governo di un tiranno, il quale mira unicamente al proprio tornaconto disinteressandosi del popolo

A questi sei ne viene aggiunto un settimo, che consiste nel governo dei filosofi tratteggiato nella Repubblica (297c) e che viene separato da tutti gli altri (303b). Il compito del buon politico nella polis è emanare leggi giuste e imporne il rispetto, anche con la forza se necessario: come nel Gorgia e nella Repubblica, anche nel Politico chi governa una città è paragonato a un medico, il quale a volte deve ricorrere a cure dolorose pur di risanare un paziente, anche se questi è contrario. Con quale diritto, infatti, un paziente può accusare un medico di averlo curato contro la sua volontà, se dall'operato del medico egli è guarito e quindi ne ha tratto un miglioramento? Per risanare la città malata è dunque necessario far rispettare le leggi e persuadere i cittadini della loro bontà con l'arte oratoria o, in casi estremi, ricorrere alla violenza, esiliando gli oppositori politici e uccidendo i colpevoli di reati (294b-c).

Ne "Le Leggi" Νόμοι , l'ultima opera di Platone, il nostro cambierà idea sul comunismo e sul governo dei filosofi ammettendo che tutti possano partecipare al governo della città (ma in realtà il voto dei ricchi conta di più). Attenzione che non dice mai di essersi sbagliato nella Repubblica. Il tipo di governo descritto nella Repubblica è il migliore in assoluto; quello descritto nelle Leggi è il migliore possibile.

Visto che gli uomini sono imperfetti tocca concedergli alcuni istituti primitivi quali:

  • il matrimonio
  • le unioni monogame permanenti, con delle pene per chi non si sposi entro i trentacinque anni e rigide disposizioni sulla procreazione e sulle abitudini sessuali.
  • La proprietà privata, anche se rigorosamente regolata secondo un modello analogo a quello vigente a Sparta.

Restano vietati:

  • industrie, commercio, professioni, per i cittadini liberi. Queste attività vengono svolte dagli stranieri.
  • il prestito a interesse
  • il possesso di oro e d’argento (la moneta è di ferro, simile a quella in uso a Sparta)
  • l'ateismo.

Nelle Leggi dunque i cittadini non svolgono attività produttive, e lo Stato si fonda sui privilegi economici.

Si discute dell'importanza dell'educazione (paideia) intesa come "formazione alla virtù a partire dall'infanzia" estesa a tutti: bambini, giovani, donne e uomini. Le materie sono le stesse previste nella Repubblica. Scuole statali con insegnanti pagati.

Nella Repubblica l’autorità conosce perfettamente il bene dei cittadini e dello Stato, quindi non vi è bisogno di leggi. Nelle Leggi Platone rimette la legge al di sopra dei governanti. Governati e governanti sono ugualmente soggetti alla Legge sovrana. La legge è "una corda d'oro" che tiene unita la società. Qui la costituzione ideale è un misto dei pregi della monarchia e democrazia, ma in realtà il compito dell’assemblea generale dei cittadini si riduce all’elezione di un consiglio supremo dei magistrati, composto da un gruppo di trentasette uomini detti “Custodi della Legge”, i 10 più vecchi dei quali formano il Supremo Consiglio Notturno.