Quaresima 2002

Prima domenica

Vorrei farvi una domanda: voi pensate che il peccato sia bello o brutto?

Penso che tutti siamo d’accordo che il peccato sia brutto, però…

Perché c’è un però, c’è il fatto che il peccato si presenta, ci appare come bello, piacevole. Nel libro della Genesi c’è scritto: “Allora la donna [cioè Eva] vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza“.

D’altra parte se il peccato non fosse apparentemente bello e attraente non ci cadremmo così facilmente!!!

E allora come difenderci da colui che ci vuole ingannare? La strada ce la indica Gesù nel vangelo di oggi: la parola di Dio. Conoscerla e amarla. Leggere e rileggere la Bibbia. Non lasciar passare neanche un giorno senza leggerne (e meditarne) un passo. E cercare di viverlo.

E se nonostante tutto cadiamo ancora?

Non disperare, ma lasciarsi rialzare dal Signore. Perché come dice s. Paolo nella seconda lettura: “Dove è abbondato il peccato, là ha sovrabbondato la Grazia“.

Seconda domenica

Devo iniziare questa riflessione con una confessione. Oggi a messa ero distratto. Spero che il Signore non si sia arrabbiato, perché a distrarmi è stato il Vangelo.

Oggi c’era il passo della Trasfigurazione. Devo dire che sono molto legato a questo brano, sia per ragioni teologiche che personali. Oggi però mi ha distratto.

Pensavo: “che bello che sarebbe stato essere lì presente”. Ma poi pensavo che in fondo, in quel momento, lì sull’altare, avveniva un fatto ancora più grande: un pezzo di pane e un po’ di vino diventavano Gesù. Era lo stesso Gesù trasfigurato che veniva a donarsi a noi. Mi è venuto da chiedermi quante volte ho assistito distrattamente a questo miracolo. E ho chiesto perdono perché il desiderio della Trasfigurazione del vangelo non mi ha fatto cogliere ciò che di ben più grande avviene in ogni messa.

Un’altra distrazione c’è stata alla fine, proprio nel saluto finale: “La messa è finita, andate in pace“. Mai come oggi questa frase mi è sembrata sbagliata. Gesù, dopo la Trasfigurazione, scende dal monte, si ritrova in mezzo alla folla, guarisce un indemoniato. La sua missione non è sul Tabor, ma sulle strade che portano ad un altro monte, al Calvario.

E anche per noi è così. La nostra vita di cristiani non va vissuta sul monte della messa, ma nella pianura di tutti i giorni, nella famiglia, nel lavoro, con le persone che Dio ci mette accanto, le simpatiche e quelle che proprio non possiamo sopportare. È con tutte loro, con i loro pregi e i loro difetti, che siamo chiamati ad essere cristiani.

Per questo penso che il congedo dovrebbe essere: “La messa continua, andate in pace“.

Terza domenica

Il vangelo di questa III domenica di Quaresima è quello della samaritana. In Giovanni ogni dettaglio, anche il più piccolo ha una sua importanza. In questo passo c’è un particolare che, sinceramente, mi intriga. Quella brocca abbandonata che fine ha fatto? ma soprattutto qual è il suo significato?

Una prima cosa può indicare: l’incontro con Gesù non lascia mai le cose come prima. Quello che sembrava avere la precedenza assoluta, passa in secondo piano. Certe preoccupazioni che prima ci toglievano il sonno, ecco che diventano ridicole. Se trovi Cristo, non trovi più le cose di prima. Ne scopri altre, nuove, impensabili, e molto più importanti.

La brocca rimane però sempre lì, abbandonata vicino al pozzo.

Io penso che, alla fine, la donna sia tornata a riprenderla. Anche perché i suoi compaesani non gliene hanno di certo regalata una nuova a ringraziamento per l’incontro con Gesù.

Lei stessa si era illusa che l’acqua che toglie definitivamente la sete la potesse esentare dal fastidio di doversi recare ogni giorno al pozzo, a spezzarsi la schiena per riempire la sua brocca.

Gesù non dispensa nessuno dal proprio duro lavoro. Non abbuona a nessuno la fatica, le difficoltà, le pene e gli impegni dell’esistenza quotidiana.

Se accetti la sua offerta, tutto cambia, ma solo dentro di te. Fuori ritrovi le solite cose, i pesi di sempre. Ma le porterai in un’altra maniera. Il Maestro non ti esenta dalle ore difficili, e sono molte, anche nella stessa giornata. Ma dà ad esse un significato. Grazie a Lui, il peso quotidiano diventa qualcosa che assomiglia ad una liturgia.

E quell’anfora, come la carriola, il ferro da stiro, il computer, il martello, e così via, pur rimanendo pesanti, acquistano un valore sacro.

Quarta domenica

Leggendo il Vangelo di oggi, ci verrebbe da dire che a volte guarire può esser un problema, una disgrazie. Il cieco nato, prima non creava problemi salvo, per molti, quello di scansarlo. Ma una volta guarito… discussioni, chiacchiere, polemiche, processi… insomma, tutta una serie di guai che hanno coinvolto anche la sua famiglia. Un fracco di gente preoccupata per la sua salute ritrovata. Invece di un Te Deum, si è levato un coro di contestazioni. E tutto perché il miracolo è avvenuto fuori dell’orario stabilito.

Quasi che volessero dirgli: “Hai aspettato tanto tempo, potevi aspettare ancora un po’, e soprattutto avere i permessi necessari, cioè i nostri.” Per certa gente l’uomo può anche andare in malora, basta che sia salvo il regolamento, l’ortodossia. C’è tanta gente che ha la presunzione di ingabbiare pure Dio nelle proprie costruzioni mentali.

Loro detenevano il sapere, il linguaggio, le argomentazioni dotte, tutto l’armamentario teologico, avevano scritto un mucchio di libri. Lui invece era un poveraccio, un analfabeta che non aveva letto niente (e d’altra parte essendo cieco come avrebbe potuto leggere?).

Però a tutte le loro teorie ha opposto un fatto semplicissimo, di una logica disarmante: un tale mi ha aperto gli occhi sigillati fin dalla nascita. “Una cosa sola so: prima ero cieco e ora ci vedo”. Ha detto loro: voi sapete un mucchio di cose, anche molto difficili. Io ne so una sola, elementare, e questa mi basta.

Un piccolo fatto opposto ad un mucchio di discussioni, sottigliezze, chiacchiere, distinzioni. E quel piccolo fatto ha resistito a tutti gli attacchi.

Così deve essere la testimonianza di ogni credente: basta un incontro, un’esperienza, un contatto diretto.

I dottori della legge hanno continuato imperterriti a parlare, sentenziare, insultare e scomunicare. E il cieco li ha lasciati dire quello che volevano, ormai ci vedeva. Dopo quell’incontro non era più l’uomo di prima. È contento di sapere una cosa sola, è convinto che non è questione di tenere gli occhi aperti, ma di farseli aprire da qualcuno. È contento di aver imparato la Verità non su di un libro, ma su di un Volto. La Verità si è affidata non ad un cervello sapiente, ma ad un cuore ardente.

Per concludere vi vorrei invitare, quando sarete a casa, a rileggervi con calma il cap. 9 di Giovanni. Se durante la lettura vi scoprirete a ridere, fatelo pure. Ricordatevi però che in fondo state ridendo di tutte quelle volte che avete cercato di insegnare a Dio il suo mestiere.

Quinta domenica

Sapete, secondo me, qual è il miracolo più grande del vangelo di oggi? (per chi non fosse ancora andato a messa ricordo che oggi c’è la resurrezione di Lazzaro) È una piccola frase, solo 4 parole: “Gesù scoppiò in pianto”.

Che bello un Dio che piange la morte di una amico, un Dio che non nasconde i propri sentimenti, un Dio che non si vergogna di apparire, di ESSERE umano.

È un Dio colto nella sua debolezza. Ed è lo stesso che tra poco manifesterà la sua potenza richiamando alla vita l’amico morto da quattro giorni.

Ha appena detto “Io sono la resurrezione e la vita“. E adesso, con i fatti, aggiunge: “Io sono colui che non si vergogna di piangere“.

Queste due frasi, “io sono la resurrezione e la vita” e “Gesù scoppiò in pianto”, non sono in contrasto tra loro. Al contrario, si armonizzano perfettamente. La fede, senza lacrime, può apparire addirittura disumana, anzi il più delle volte lo diventa. In mezzo a queste due frasi si stende il territorio tormentato, contraddittorio, della condizione umana.

Alla vedova di Naim che accompagnava la bara del figlio, Gesù aveva ordinato di non piangere. Qui invece piange anche lui, insieme a Maria, insieme a Marta, insieme ai presenti.

Anche Gesù sente la morte come un assurdo, come un insulto. Sente che è una cosa intollerabile e quindi capisce, ma soprattutto condivide, la nostra ripugnanza di fronte al morire.

Piange, anche se dichiara “chiunque vive e crede in me non morrà in eterno”, anche se tra poco strapperà alla morte la sua preda.

Che bello, che liberazione constatare che Gesù ci chiede di credere in Lui che è la resurrezione e la vita, ma non ci proibisce di piangere. Anzi, sarà Dio stesso, come ci dice l’Apocalisse, ad asciugare le nostre lacrime nell’ultimo giorno. Ma fino ad allora, quaggiù su questa terra, il pianto resta legittimo. Dirò di più, il pianto è necessario per fecondare il terreno della speranza.

E anche i commenti dei presenti, sia quelli fatti con simpatia (Vedi come lo amava) che quelli ostili ( Costui che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva far sì che questi non morisse?), non fanno altro che rendere omaggio all’umanità di Gesù.

Dicevo che il pianto è necessario. Io sono diacono da quasi sei mesi. Faccio parte del clero, ma ho una famiglia, dei figli, un lavoro. Ma non sono migliore, anzi. Invece di avere i pregi dei due stati di vita, mi sembra, in tutta sincerità, di avere i difetti di tutti e due. Sono un peccatore come tutti, più di tutti. Ma come vorrei incontrare sempre dei pastori la cui umanità sia sacramento della luce di Dio e del suo immenso amore per gli uomini. Dei pastori la cui umanità sia trasparenza della verità di Dio-amore.

Vi chiedo, pregate per noi, per noi cosiddetti uomini di Dio. Pregate perché non ci dimentichiamo di essere uomini, pregate perché non dimentichiamo la nostra umanità. Perché non ci vergogniamo MAI di avere un cuore, di manifestare dei sentimenti, di mostrare della tenerezza.

Nostro compito dovrebbe essere di darvi “almeno” il sospetto della luce di Dio, attraverso lo strumento della nostra umanità. Perché l’umanità è il sintomo più sicuro della presenza di Dio in mezzo a noi tutti.

L’acqua battesimale ci ha battezzato come cristiani, l’acqua delle lacrime di Gesù ci deve battezzare come uomini. E quando ci sentiremo un po’ aridi in fatto di umanità, torniamoci, torniamo a bagnarci in quelle lacrime.

Domenica delle Palme

Oggi vorrei parlarvi di asini. Dopo la teologia della liberazione, la teologia del volto, la teologia della croce, e così via, mi piacerebbe fare un po’ di teologia dell’asino. E la chiamo così non perché la faccio io, ma perché tratta di asini a quattro zampe.

Oggi in chiesa ci dovrebbe essere un posto per gli asini. Non è una mia idea, ma una scelta di Gesù. Difatti nel Vangelo c’è scritto che il Maestro ha mandato due discepoli nel villaggio vicino a prendere un’asina col suo puledro. Ha detto: “Scioglieteli e conduceteli a me. Se qualcuno poi avrà da ridire, rispondete: “Il Signore ne ha bisogno”". Vedete quindi che c’è poco da discutere.

Gli occorre un asino, non un dottore o un professore. E guai se qualcuno trova da obiettare a questa sua scelta.

Personalmente non mi sentirei umiliato ad essere considerato simile all’asino che Lui fa requisire. Anzi, quasi quasi sento una punta d’orgoglio. E devo stare attento a non lasciarla crescere troppo, perché in tal caso smetterei di essere un asino che serve al Signore.

Si, Gesù ha bisogno di un asino come me, o almeno come dovrei essere. Per questo mi invita: “Se non ti farai asino …

Gesù prima di tutto vuole “scioglierci”. Slegarci dalle placide abitudini, dalla pigrizia, dalla paura di comprometterci, dalla riluttanza a piegare la schiena. Intende scioglierci dalle chiacchiere inconcludenti, dalla perpetua indecisione, dall’esitazione a vivere un cristianesimo di ampio respiro. Lo vuole per spingerci al largo.

Si, il Signore ha bisogno di un asino, quindi ha bisogno di me. Ne ha bisogno solo per qualche ora. Solo questo. Perché sa che dopo finirei per combinare chissà quali pasticci. Se ne fossi convinto, sarei sempre disponibile, senza tuttavia prendermi sul serio, e senza darmi arie da padreterno. Quando si parla di umiltà, bisognerebbe far riferimento agli asini.

Ecco, un cristiano dovrebbe essere l’asino che sta lì, pronto a venire impiegato come, quando e per quanto tempo a Lui piacerà, e poi rimandato indietro perché non serve più. Ed è contento lo stesso. Il trionfo è di Cristo, lui torna al suo posto, non pretende il primo piano alla televisione, l’intervista, il titolo sui giornali. Un asino da niente, però sempre pronto nel caso lo venissero ancora a cercare perché serve, cioè per un servizio, non per una premiazione.

Un asino che, tra l’altro, ha il grosso merito di stare zitto.

Dobbiamo metterci bene in testa che il Signore ha bisogno esclusivamente di un asino per qualche ora. Mentre noi non possiamo fare a meno di Lui neanche per un istante.

Per concludere vorrei citare il testo di un poeta, Francis James, intitolato “Preghiera per andare in Paradiso insieme agli asini”. Parte dalla considerazione che, come tutti i bastonati e maltrattati in terra, anche per gli asini c’è sicuramente un Paradiso che li attende. E conclude dicendo:

"Mio Dio, fa' che con gli asini io venga a Te.

Arriverò seguito dalle loro miriadi di orecchie.

Fa' che in quel soggiorno di anime che è il Paradiso,

io sia simile agli asini che, umili e poveri,

si specchieranno nella limpidezza del tuo amore eterno."

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