Cap. 1

L’ICONOGRAFO

Abbiamo già mostrato come l’icona ha senso solo in un contesto liturgico-ecclesiale. Cioè l’icona non è un’opera d’arte autosufficiente, bensì un’opera testimoniale, a cui è necessaria anche l’arte, insieme a parecchio d’altro. Quindi la funzione del pittore d’icone è una funzione sacerdotale[1]. Così leggiamo in un podlinnik russo[2]: “Il ministero sacro della rappresentazione iconografica comincia già presso gli apostoli [...] Il sacerdote nei servizi liturgici ci presenta il Corpo del Signore per mezzo della forza delle parole [...] Il pittore lo fa per mezzo delle immagini[3].

L’icona deve avere come punto di partenza una visione interiore. L’iconografo deve avere una visione di Dio in tutte le cose, avere un’anima vedente, essere guidato da un’ispirazione dello Spirito Santo e non solo dall’ispirazione artistica[4]. Molto correttamente fa notare P. Evdokìmov: “se nessuno può dire: Gesù è il Signore! se non sotto l’azione dello Spirito Santo (1Cor 12,3), nessuno può rappresentare l’immagine del Signore se non per dono dello Spirito Santo. Egli è l’Iconografo divino[5].

Da parte loro gli esicasti parlano di visione taborica, quella che fu accordata ai tre apostoli sul Tabor durante la trasfigurazione. Non è per caso che gli allievi della scuola di pittura di icone del Monte Athos dovevano, come loro prima opera, produrre precisamente l’icona della Trasfigurazione, che doveva essere il frutto dell’esperienza artistico-contemplativa da loro vissuta.

Gli iconografi non sono gente ordinaria, devono essere umili e mansueti, mantenere la purezza sia dell’anima che del corpo, osservare il digiuno e la preghiera, confessarsi spesso al padre spirituale.

Perché la visione interiore, aiutata dalla santità di vita, si concretizzi nell’icona, sono necessari ancora alcuni passaggi, varie fasi della creazione dell’opera. La genesi interiore dell’icona è stata mirabilmente descritta da P. Florenskij[6] e consiste in una successione di fasi.

La prima fase è tenebrosa e in essa si percepisce che la visione spirituale non è di questo mondo e che niente di ciò che vediamo le corrisponde.

Segue poi la seconda fase, quella “dell’ascensione“. L’immaginazione e i sensi interni iniziano a produrre immagini e forme nuove, senza corrispondenza col reale, ma neanche con la visione spirituale. Vi sono però degli artisti che prendono queste creazioni come simboli per esprimere la realtà spirituale, invece esprimono solo l’irreale, l’illusorio.

I veri artisti attendono il momento successivo, quello “della discesa“. Adesso l’artista, stanco dell’illusione, inizia a guardare di nuovo alla realtà. Però la contraddizione tra mondo reale e mondo spirituale lo fa soffrire. Ma è una sofferenza che giunge ad un momento felice.

È la quarta fase. Questa è solo un istante, ma un istante colmo di significato. Le forme reali, del mondo concreto, diventano capaci di essere simbolo, espressione della visione spirituale vissuta prima.

A questo punto il pittore è pronto per la quinta fase, cioè la creazione artistica propriamente detta, la pittura dell’immagine. Questo perché, come dice P. Florenskij, “questa visione è più oggettiva delle oggettività terrestri, più sostanziale e reale di esse; è il punto di appoggio dell’opera terrestre, il cristallo attorno al quale e secondo le cui leggi di cristallizzazione, sul cui modello, si verrà cristallizzando l’esperienza terrena, che diventa tutta, nella sua stessa struttura, un simbolo del mondo spirituale[7].

Nella quinta fase si inserisce un punto molto importante: il “digiuno degli occhi“. Per Evdokìmov questo digiuno è un’ascesi che ha lo scopo di far coincidere la propria vista con la vista della Chiesa[8] in modo da passare dall’arte all’arte sacra[9].

Più articolata è la posizione di T. Špidlìk[10]. Scopo di questo digiuno è la capacità di rigettare le forme inutili. Qui digiuno è inteso in senso pienamente patristico, cioè nell’uso secondo il bisogno, secondo la regola della sufficienza: niente di più e niente di meno.

Secondo questa visione, Adamo nel paradiso terrestre fissava il suo sguardo sulle cose visibili solo per crescere nella conoscenza e nell’amore di Dio, ed è ciò che cerca di fare l’iconografo con le forme del mondo concreto. Ecco così che due alberi esprimono la foresta. Il dolore di Maria sotto la Croce si esprime in un piccolo gesto e la consolazione di Gesù con un semplice sguardo. La profondità della visione divina si cela negli occhi dei santi.

Ma la visione ispirata, anche se necessaria, non è però sufficiente per l’iconografo. Una cattiva icona è un’offesa a Dio e quindi si deve impedire che un inetto si dedichi a questo lavoro. I canoni sono estremamente severi su questo punto, richiamando i vescovi ad una attenta vigilanza. L’iconografo deve possedere il senso dei colori, la consonanza quasi musicale delle linee e delle forme, un dominio perfetto dei mezzi che permettono di narrare, di aprire all’infinito. Questo perchè la Verità deve discendere e rivestirsi delle forme dell’icona[11].

Negli atti del VII Concilio Ecumenico si dice che le icone sono basate sulla concezione, sulla personale invenzione del pittore, ma in forza della norma inviolabile e della Tradizione della Chiesa Universale, che comporre e prescrivere è affare non del pittore bensì dei Santi Padri; a loro spetta la normativa intera della composizione e al pittore soltanto l’esecuzione, la tecnica[12]. Questa dichiarazione è prova non di una dottrina antiartistica o di una censura delle icone, ma è la testimonianza che la Chiesa considera come veri pittori delle icone i Santi Padri. L’iconografia non è un libero gioco dell’immaginazione, ma la lettura degli archetipi e la contemplazione dei prototipi[13]. È essenziale quindi l’insegnamento diretto e la trasmissione orale dal maestro ai discepoli. Solo quando la conoscenza della tradizione iniziò a indebolirsi, nei secoli dal XVI al XVIII, iniziò la diffusione dei manuali per iconografi (podlinnik).

L’artista scompare dietro la tradizione che parla, e in effetti le icone non sono quasi mai firmate. A questo però vi è anche un’altra spiegazione. L’icona non fu mai concepita come il prodotto di una creazione solitaria, ma dell’opera collettiva di tutta la Chiesa. Perfino se per un motivo qualsiasi fosse dipinta dal principio alla fine da un solo artista, si presuppone una collaborazione ideale di altri artisti, come la Messa risulta collettiva anche se celebrata da un solo sacerdote, essendo la partecipazione del vescovo, degli altri sacerdoti, dei diaconi e degli altri ministri idealmente implicita. Il pittore talvolta si trova a prestare una parte della sua opera ad altri, ma è implicito che egli dipinge individualmente. L’iconografo invece talvolta deve lavorare isolato, ma è implicita la collegialità del lavoro[14].

Quindi l’iconografia è molto stretta nei suoi canoni, ma libera nel tema della sua ispirazione. Però se si confrontano icone che hanno la stessa composizione e lo stesso tema si può facilmente constatare che, malgrado la loro somiglianza, non se ne trova una che sia la copia pedissequa di un’altra. Non si trovano mai, nelle epoche di maggior splendore di quest’arte, due icone assolutamente uguali, ogni scuola ed ogni icona porta il suo sigillo proprio. Questo è possibile perché, senza mai abbandonare i canoni, ma modificando il ritmo della composizione, i contorni, le sfumature, le linee lunghe o corte, la distribuzione dei colori e dei volumi, ogni artista riusciva facilmente a dare un’aria di novità a ciascuna delle sue opere, a renderla un’opera unica.

L’iconografo deve quindi essere ispirato, avere un reale talento e dipingere secondo i canoni determinati. Ma è richiesta anche la santità di vita, un’anima purificata dall’ascesi e dalla preghiera e affinata dalla contemplazione. Questa necessità fu sancita anche nel Concilio dei Cento Capitoli del 1551[15] e ripreso anche dal Concilio del 1667. Questi concili non facevano che reperire la tradizione e il sentire della Chiesa. Soprattutto il Concilio del 1551 insiste molto su questo punto, arrivando a condannare anche al pittura di icone a scopo di lucro, fatto che sfigura e disonora l’immagine di Dio.

L’insistenza sulla preghiera è molto forte. Un manoscritto del Monte Athos insiste sulla “preghiera con lacrime, affinché Dio penetri l’anima” dell’iconografo e consiglia “il timore di Dio, perché si tratta di un’arte divina, trasmessa da Dio stesso“. E poco oltre dice: “Tu, che così mirabilmente hai ispirato l’evangelista Luca[16], illumina l’anima del tuo servo, conduci la sua mano perché possa eseguire perfettamente i Tuoi lineamenti misteriosi[17].

I buoni pittori di icone in Grecia si chiamano “zógraphi” e in Russia “zhivopíszi” cioè “coloro che descrivono la vita“, ma essendo l’icona destinata alla preghiera, devono descrivere una vita di preghiera e lo possono fare solo se la vivono in prima persona.

[1] SPIDLÌK, Tomás. L’icône…, op. cit.. pp. 541-542

[2] Testi autentici. Manuali di istruzione che servivano da guide agli iconografi. Alcuni erano illustrati e presentavano i modelli schematici delle composizioni tradizionali, altri esplicativi contenevano precetti tecnici. Insegnavano la preparazione delle paste, la fissazione dei colorii e soprattutto dell’oro, la rappresentazione di alcuni dettagli simbolici, gli attributi dei personaggi, l’ordine delle pitture nell’iconostasi e nella chiesa.

[3] Citato in SPIDLÌK, Tomás. L’icône…, op. cit.. p. 542

[4] Cfr. SPIDLÌK, Tomás. L’icône…, op. cit.; MIQUEL Pierre. Théologie de l’icône, in Dictionnaire de Spiritualité, VII, coll. 1229-1239

[5] EVDOKÌMOV, Pàvel Nikolàjevic. Teologia …, op. cit.. p. 31

[6] FLORENSKIJ, Pavel. Le porte …, op. cit.. pp. 32 e segg.

[7] ibid. p. 42

[8] EVDOKÌMOV, Pàvel Nikolàjevic. Teologia …, op. cit.. p. 184

[9] ibid. p. 189

[10] SPIDLÌK, Tomás. L’icône…, op. cit.. pp. 546-547

[11] EVDOKÌMOV, Pàvel Nikolàjevic. Teologia …, op. cit.. pp. 209-210

[12] FLORENSKIJ, Pavel. Le porte …, op. cit.. p. 78

[13] EVDOKÌMOV, Pàvel Nikolàjevic. Teologia …, op. cit.. p. 211

[14] Cfr. FLORENSKIJ, Pavel. Le porte …, op. cit.. p. 152

[15] nel canone 43

[16] Secondo un’antica tradizione s. Luca, oltre che evangelista, fu anche il primo iconografo. Iniziò la sua arte solo dopo la Pentecoste ed ebbe la Grazia di poter dipingere tre icone di Maria avendola in carne ed ossa davanti agli occhi. Queste poi furono il prototipo dei tre tipi di icona mariana: la Madonna Odighítria, col Bimbo seduto sul braccio destro mentre l’altro braccio lo indica come la ‘Via’; la Madonna della Tenerezza in cui i volti della Madre e del Figlio sono teneramente accostati; e infine la Diesis in cui la Vergine è senza il figlio e sta in atteggiamento di preghiera (Deisis significa appunto preghiera)

[17] Citato da EVDOKÌMOV, Pàvel Nikolàjevic. Teologia …, op. cit.. p. 181

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