Introduzione

Come profeticamente rileva il Papa nella sua enciclica sull’ecumenismo “Ut unum sint“, bisogna che l’Europa torni a respirare coi suoi due polmoni[1].

L’uomo d’oggi, “in ricerca di risposte ultime, desideroso di esperienze e di pratiche religiose, preso da una specie di nostalgia di spiritualità e di religiosità vissuta[2], sente il bisogno di qualcosa che parli al suo cuore oltre che al suo cervello. In questo senso il recupero di un linguaggio simbolico andato in gran parte perduto quale quello delle icone potrebbe essere una proposta cristiana per quanti cercano un fuoco per scaldarsi il cuore più che un’idea per nutrire il cervello.

Il linguaggio della Chiesa, dovendo esprimere l’inesprimibile, è sempre stato simbolico. Purtroppo la Chiesa, essendosi “preoccupata di proporre l’annuncio della salvezza a un uomo «disincantato», interessato soprattutto ai dati della scienza e della tecnica[3] ha cercato di spiegare i propri simboli con la sola razionalità, dimenticando che un simbolo deve prima parlare al cuore e poi al cervello e che in esso vi è sempre una apertura al mistero che va contemplato e non spiegato. Ha ragione Jean Guitton quando sostiene che il cattolicesimo latino ha sacrificato il numen al lumen, ossia il mistero all’intelligibiltà. Purtroppo ormai il mistero è stato perso dall’uomo moderno, per cui è necessario riaprire questa porta.

Agli inizi dell’arte cristiana, così come si presenta nelle catacombe, l’elemento essenziale è la comunicazione. Un’immagine diventa elemento di incontro tra i cristiani, una sorta di “simbolo” in cui essi si riconoscono. Allo stesso tempo quest’immagine si fa contenuto spirituale, teologico, che comunica la memoria di Cristo Risorto. Con la prima pittura cristiana appare una dimensione nuova: quella della comunicazione di Cristo[4].

Questa esigenza primaria di comunicazione è sempre rimasta viva nella chiesa ortodossa e ha raggiunto il suo apice nell’arte iconografica.

Base dell’iconografia è l’Incarnazione, senza la quale l’icona sarebbe una semplice tavola di legno con dei colori. L’icona non va letta col metro della critica artistica, ma con gli occhi dello spirito. Scopo dell’icona non è il godimento estetico, ma, come dice Olivier Clément, farci accedere alla comunione dei santi[5].

L’icona è sempre o più grande di se stessa, quando è una visione celeste, o è meno di se stessa, se essa non apre a una conoscenza il mondo soprannaturale, e non si può chiamare altro che una tavola dipinta. [...] Ora l’icona ha lo scopo di sollevare la coscienza al mondo spirituale, di mostrare «spettacoli misteriosi e soprannaturali»[6].

Pregare di fronte ad un’icona non è pregare l’icona, ma lasciare che l’icona preghi in noi, lasciare che l’icona diventi un organismo vivente, un luogo d’incontro tra il Creatore e gli uomini[7]. Attraverso il visibile, l’Invisibile viene verso di noi e ci accoglie alla sua Presenza[8]. Le icone, dicono i Santi Padri e, con le loro parole, il Settimo Concilio Ecumenico, evocano per coloro che pregano, i propri archetipi, e, guardando le icone, il fedele solleva la mente dalle immagini agli archetipi[9]. È così che si può arrivare alle esperienze come quella descritta da Florenskij davanti ad un’icona mariana:

Ecco, osservo l’icona e dico dentro di me: - È Lei stessa - non la sua raffigurazione, ma Lei stessa, contemplata attraverso la mediazione, con l’aiuto dell’arte dell’icona. Come attraverso una finestra vedo la Madre di Dio, la Madre di Dio in persona, e Lei prego, faccia a faccia, non la sua raffigurazione. Sì, è nella mia coscienza e non è una raffigurazione; è una tavola con dei colori ed è la stessa Madre del Signore[10].

Oppure come dice Evdokìmov a proposito di un’altra icona, questa ci fa intravedere che “tutto il mistero di Dio è racchiuso in questo sorriso[11]. L’icona ci fa intravedere che avremo tutta la nostra eternità per contemplare questo sorriso, sempre nuovo come il primo mattino della creazione[12].

Quindi l’icona è un ponte gettato tra il visibile e l’invisibile. Un’icona elimina la distinzione netta e apparentemente insanabile tra materiale e spirituale. Ci fa capire che: “il mondo spirituale, invisibile non è in un qualche luogo lontano, ma ci circonda; e noi siamo come sul fondo dell’oceano, siamo sommersi nell’oceano di luce, eppure per la scarsa abitudine, per l’immaturità

dell’occhio spirituale, non notiamo questo regno di luce, nemmeno ne sospettiamo la presenza e soltanto col cuore, indistintamente percepiamo il carattere generale della correnti spirituali che si muovono attorno a noi[13].

Come un’immensa parabola, il mondo offre una lettura della Poesia divina iscritta nella sua carne. Le immagini delle parabole evangeliche e la materia cosmica dei sacramenti non sono fortuite. Le cose più semplici sono conformi ad un destino molto preciso. Tutto è immagine, similitudine, partecipazione all’economia della salvezza, tutto è canto e dossologia. “Infine le cose non sono più l’arredamento del nostro bagno, bensì quello del nostro tempio[14] dice Paul Claudel.

Per trovare i fondamenti di questa forza dobbiamo tener presente che le icone “pronunciano in linee e colori - trascritto coi colori - il Nome di Dio, perché cos’è l’immagine di Dio, la Luce spirituale del santo sguardo, se non il Nome di Dio tracciato sul volto santo?[15]. Questo perché secondo la Bibbia, il nome di Dio è uno dei luoghi della sua presenza e l’icona è il suo nome disegnato[16].

Proprio in questa prospettiva si capisce perché l’icona è fortemente inserita in un contesto liturgico-ecclesiale e, anzi, al di fuori di questo contesto perde ogni senso, diventando una semplice tavola dipinta. Non si può comprendere una icona fuori dalla sua integrazione nel mistero liturgico[17]. L’icona si costituisce tale soltanto quando la chiesa ha riconosciuto la conformità dell’immagine raffigurata alla Protoimmagine di ciò che è raffigurato o, in altre parole, l’ha dichiarata icona[18]. L’iconografo[19], tracciando il volto umano di Dio, esprime la visione della Chiesa, perché è così che la chiesa contempla il Mistero di Dio[20].

Per l’Oriente, l’icona è uno dei sacramentali, più precisamente quello della presenza personale. Perciò l’intercessione di un sacerdote e il rituale della consacrazione sono richiesti per istituire l’icona nella sua funzione liturgica e dunque nel suo ministero teofanico. Il Concilio dell’860 afferma nel medesimo senso: “ciò che il Vangelo ci dice con la parola, l’icona ce l’annuncia con i colori e ce lo rende presente.[21] E la preghiera della santificazione dell’icona dice: “Signore Dio, tu hai creato l’uomo a tua immagine, la caduta ha offuscato quest’immagine ma, l’incarnazione del tuo Cristo divenuto Uomo, tu l’hai restaurata e così hai ristabilito i tuoi santi nella loro primitiva dignità. Venerandoli, noi veneriamo la tua immagine e la tua somiglianza e, attraverso di essi, Ti glorifichiamo come loro Archetipo[22].

L’icona evoca un archetipo, cioè desta nella coscienza una visione spirituale: per chi ha contemplato nitidamente e coscientemente, questa nuova visione per mezzo dell’icona è anch’essa nitida e cosciente. Invece per un altro la stessa icona risponderà ad una percezione spirituale profondamente assopita, al di sotto della consapevolezza. Comunque essa non afferma semplicemente che esiste questa percezione, ma ne fa sentire, o avvicina alla coscienza, l’esperienza. Col fiorire della preghiera, specialmente degli asceti, non è strano che le icone diventino non soltanto una finestra attraverso la quale appaiono i volti che vi sono raffigurati, ma anche una porta da cui questi entrano nel mondo sensibile[23]. Ecco quindi che attraverso la liturgia e la preghiera ogni fedele, guardando le icone, vede i suoi “fratelli maggiori” (patriarchi, apostoli, martiri, santi) come degli esseri presenti, e con essi partecipa al Mistero diventando co-liturgo degli angeli[24].

Quindi la contemplazione dell’icona, come ogni azione liturgica, va fatta sotto la guida dello Spirito. Uno degli effetti dello Spirito è l’unificazione, unificazione di noi stessi, dell’umanità e anche del tempo e dello spazio. Ecco perché la piena intelligenza di un’icona presuppone che si riesca a leggere l’insieme, perché ad esempio l’icona di una festa contiene tutte le feste, la Natività parla di tutta la vita del Cristo e bisogna cogliere il suo messaggio che tutto contiene[25]. La visione è molto ricca. Spiega le conseguenze dell’Incarnazione: la santificazione della materia e la trasfigurazione della carne. Fa vedere i “corpi spirituali” e la natura “cristificata“. L’equilibrio perfetto del divino e dell’umano condiziona ed orienta la visione verso il candore splendente della luce del mezzogiorno taborico[26].

Ma questa unificazione non investe la sola contemplazione. Lo stesso Spirito che la genera, opera anche nella fase di creazione dell’icona. La pittura delle icone è un tipo di arte nella quale tutto è unificato: la materia, la superficie, il disegno, l’oggetto e il significato del tutto. E questo collegamento di tutti gli aspetti dell’icona è conforme all’integralità organica della cultura ecclesiale[27].

Da questo emerge che l’arte dell’icona “non è autonoma, è inclusa nel Mistero liturgico e rifulge di presenze sacramentali. Essa fa sua una certa «astrazione»; si potrebbe dire una certa transfigurazione. Nella sua libertà di composizione, essa dispone a suo piacimento gli elementi di questo mondo nella loro totale sottomissione allo spirituale. Essa può rappresentare la Vergine con tre braccia, far camminare un martire che tiene tra le mani la propria testa, dare ad un folle in Cristo i tratti di un cane, mettere il cranio di Adamo ai piedi della Croce, personificare il cosmo sotto la figura di un vecchio re e il Giordano in quella di un peccatore, capovolgere la prospettiva e far culminare in un solo punto tutti i tempi e tutti gli spazi. Qui la luce serve da materia colorante per l’icona, la fa luminosa per se stessa, ciò che rende inutile ogni altra luce, come nella Città celeste dell’Apocalisse[28].

Per essere questo ponte tra visibile e invisibile, questa porta tra spirituale e sensibile, però si devono usare i simboli. C’è da notare che in greco il “diavolo” e il “simbolo[29] hanno la medesima radice, ma il diavolo separa ciò che il simbolo unisce. Un simbolo è un ponte che unisce due sponde: il visibile e l’invisibile, il terrestre e il celeste, l’empirico e l’ideale e li trasporta l’uno nell’altro[30]. Inoltre il simbolo, nello spirito dei Padri della Chiesa e secondo la tradizione liturgica, contiene la presenza di ciò che simbolizza. Esso compie una funzione rivelatrice del senso e, nello stesso tempo, si erige a luogo espressivo della presenza. La conoscenza simbolica, sempre indiretta, fa appello alla facoltà contemplativa dello spirito, all’immaginazione vera, evocatrice e invocatrice, affinché scopra il senso, il messaggio del simbolo e colga il suo carattere epifanico di presenza, figurata, simbolizzata, ma reale, del trascendente[31].

Gli iconoclasti, ad esempio, credevano perfettamente ai simboli, ma a causa della loro concezione ritrattista dell’arte, rifiutavano all’icona il carattere simbolico e per conseguenza non credevano a una misteriosa presenza del Modello nell’immagine. Essi non riuscivano a capire che accanto alla rappresentazione visibile di un’altra realtà visibile (copia, ritratto) esiste anche un’arte del tutto diversa, in cui l’immagine presenta il visibile dell’invisibile rivelandosi così come simbolo autentico. Essi avrebbero accettato più volentieri l’arte astratta nella sua figurazione geometrica, per esempio la croce senza il crocifisso. La somiglianza iconica invece si oppone radicalmente a tutto ciò che è ritratto e non si rapporta che all’ipostasi (la persona) e al suo corpo celeste. Per questo l’icona di un vivente è impossibile ed ogni ricerca di somiglianza carnale, terrestre, è esclusa. Nell’iconografia l’ipostasi “inipostatizza“, si appropria non già di una sostanza cosmica (tavola di legno, colore), bensì della somiglianza come tale, della figura celeste dell’ipostasi che assume il corpo trasfigurato che l’icona rappresenta[32].

Per concludere si possono usare le parole di P. Florenskij:

A dirla in breve, la pittura d’icone è una metafisica dell’essere - non una metafisica astratta, ma concreta. [...] La pittura d’icone sente ciò che raffigura come manifestazione sensibile dell’essenza metafisica [...] i mezzi tecnici della pittura d’icone sono determinati dal bisogno di esprimere in concreto la metafisicità del mondo [...]

Sulla pittura d’icone non incide niente di casuale, non soltanto di empiricamente casuale, ma neanche di metafisicamente casuale, se una tale espressione si usa sostanzialmente, del tutto veridicamente e non orecchiandola.

Così la peccaminosità e la carnalità del mondo non vanno giudicate come empiricamente accidentali, perché sempre corrompono il mondo. Ma metafisicamente, cioè rispetto all’essenza spirituale del mondo edificato da Dio, la peccaminosità e la carnalità non sono necessarie, possono esistere e non esistere, e in esse non si coglie l’essenza del mondo, ma la sua condizione attuale. Non spetta alla pittura d’icone esprimere questa condizione di eclissi della natura autentica delle cose: il suo oggetto è la natura stessa, il mondo edificato da Dio e la sua sovraterrena bellezza. Sull’icona tutto ciò che non è accidentale è rappresentato in tutti i particolari, ed è un’immagine o il riflesso del mondo degli archetipi, delle essenze supreme, sovracelesti. [...]

L’icona è un’immagine del mondo venturo; essa consente di saltare sopra il tempo e di vedere, sia pure vacillanti, le immagini - “come in enigmi nello specchio” - del mondo venturo. Queste immagini sono del tutto concrete e parlare dell’accidentalità di alcune delle loro parti significa assolutamente fraintenderne la natura simbolica.[33]

[1] JOANNES PAULUS II. Ut unum sint, lettera enciclica. Milano, Ed. Paoline, 1995. ver. 54, p. 43

[2] Segretariato per l’ecumenismo e il dialogo della Conferenza Episcopale Italiana. L’impegno pastorale della Chiesa di fronte ai nuovi movimenti religiosi e alle sette, nota pastorale. Milano, Ed. Paoline, 1993. ver. 3, p. 11

[3] ibid. ver. 3, p. 11

[4] Spidlìk, Tomás; Rupnik, Marko Ivan. Narrativa dell’immagine. Roma, Lipa, 1996. pp. 8-9

[5] Clément, Olivier. Teologia e poesia del corpo. Casale Monferrato (AL), PIEMME, 1997. p.28

[6] FLORENSKIJ, Pavel. Le porte regali. Milano, Adelphi, 1997. p.61

[7] “Elle était devenue un organ vivant, un lieu de rencontre entre le Créateur et les hommes”. I. Kiréïevsky citato in Špidlìk, Tomáš. L’icône, manifestation du monde spirituel. Gregorianum, 61 (1980). p. 541

[8] EVDOKÌMOV, Pàvel Nikolàjevic. Teologia della bellezza. L’arte dell’icona. Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 1990. p. 57

[9] FLORENSKIJ, Pavel. Le porte …, op. cit.. p. 67

[10] ibid. p. 65

[11] qui P. Evdokìmov fa riferimento ad un passo de “L’idiota” di F. M. Dostoevskij.

[12] EVDOKÌMOV, Pàvel Nikolàjevic. Teologia …, op. cit.. p. 63

[13] FLORENSKIJ, Pavel. Le porte …, op. cit.. p. 59

[14] Citato in EVDOKÌMOV, Pàvel Nikolàjevic. Teologia …, op. cit.. p. 77

[15] FLORENSKIJ, Pavel. Le porte …, op. cit.. p. 64

[16] Cfr. EVDOKÌMOV, Pàvel Nikolàjevic. Teologia …, op. cit.. p. 200

[17] Cfr. EVDOKÌMOV, Pàvel Nikolàjevic. Teologia …, op. cit.. p. 179

[18] FLORENSKIJ, Pavel. Le porte …, op. cit.. p. 95

[19] In greco, come in russo e in altre lingue con forte tradizione di produzione di icone, si dice “scrivere” l’icona. Da qui anche il titolo di questa tesina.

[20] EVDOKÌMOV, Pàvel Nikolàjevic. Teologia …, op. cit.. p. 207

[21] Citato in EVDOKÌMOV, Pàvel Nikolàjevic. Teologia …, op. cit.. p. 182

[22] Citata in EVDOKÌMOV, Pàvel Nikolàjevic. Teologia …, op. cit.. p. 204

[23]Le porte …, op. cit.. p. 69

[24] EVDOKÌMOV, Pàvel Nikolàjevic. Teologia …, op. cit.. p. 180

[25] ibid. p. 217

[26] ibid. p. 120

[27] FLORENSKIJ, Pavel. Le porte …, op. cit.. pp. 167-168

[28] EVDOKÌMOV, Pàvel Nikolàjevic. Teologia …, op. cit.. pp. 104-105

[29] Symbolon in greco implica la riunione di due metà: simbolo e simbolizzato. Allo stesso modo il mashal ebraico ma sempre nella prospettiva di un incontro personale.

[30] EVDOKÌMOV, Pàvel Nikolàjevic. Teologia …, op. cit.. pp. 100-101

[31] ibid. p. 172

[32] ibid. p. 101

[33] FLORENSKIJ, Pavel. Le porte …, op. cit.. pp. 125-129

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