Avvento 2008

Prima domenica

Un presepe senza pastori non è un presepe. In effetti proprio loro sono stati i primi invitati, i primi destinatari della “buona notizia”, portata a loro direttamente dagli angeli. Però nella realtà loro non erano come quelle statuine belle pulite che usiamo noi per i nostri presepi. Anzi!

Nella società ebraica di quei tempi erano considerati, al pari di soldati, marinai, prostitute, usurai, esattori delle imposte, dei pubblici peccatori. A motivo della loro vita errabonda non potevano studiare e quindi osservare la Legge. E quindi erano gente senza legge.

E invece proprio loro, che a causa del loro mestiere, non potevano testimoniare in tribunale, sono chiamati a diffondere la notizia della nascita di Dio in terra, sono chiamati ad esserne i primi testimoni.

Decisamente i modi di Dio non sono i nostri modi. Quando noi dobbiamo diffondere una notizia indiciamo una conferenza, a cui ci preoccupiamo di invitare le persone più importanti, cerchiamo di metterci sotto le luci più forti. Dio invece viene di notte, e chiama solo gli ultimi, i reietti, gli esclusi.

I pastori nel presepe ci dicono che le preferenze di Dio non sono le nostre, che la sua lista degli invitati boccia sonoramente la nostra. Lui gradisce la presenza, ma soprattutto la vicinanza, della gente da niente, degli individui che non contano, di quelli che non hanno le carte in regola perché le carte non le hanno (e in effetti sono i primi sans-papier).

Ci dicono che c’è sempre qualcuno, che noi magari disprezziamo, che è più vicino al Bambino di quanto noi pretendiamo di essere; e questo perché lui è arrivato prima di noi, ha capito meglio le esigenze del Vangelo, e fa la verità, mentre noi ci accontentiamo di conoscerla.

Ma soprattutto ci ricordano il dovere di accogliere i diversi, gli esclusi, gli immigrati, gli extracomunitari.

Quando mettiamo i pastori nel presepe occorre farlo con uno stile penitenziale, domandando perdono per tutti i nostri razzismi, per tutte quelle volte che abbiamo detto, o anche solo pensato, che gli zingari … i romeni … i cinesi … gli arabi … e via dicendo. Dobbiamo chiedere perdono per tutte quelle volte che abbiamo diviso gli uomini in due: da una parte “noi” i buoni, i giusti, i sani, e dall’altra gli altri, cioè i cattivi, gli sbagliati, i delinquenti.

Seconda domenica

Domani è l’Immacolata, e allora oggi nel presepe metteremo la statuina di Maria. Il Vangelo della Natività non riporta neanche una parola della Madonna. E neanche di Giuseppe. Loro due nel presepe custodiscono il silenzio. Avvolgono il Bambino nel silenzio, ed è questo il loro modo di custodirlo.

L’evangelista Luca è quello che ci parla di più di Maria. E usa spesso questa frase: “serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore”. Noi viviamo in un tempo in cui l’ultima notizia cancella tutto ciò che è accaduto solo pochi minuti prima. Abbiamo la memoria corta, l’ultima emozione cancella ogni altro sentimento. E in questo modo tutto ci scivola addosso, niente ci rimane, ma soprattutto finiamo per non capire più niente, per essere sballottati qua e la come una foglia secca nella corrente di un fiume tumultuoso.

Invece occorre custodire, avvolgere nel silenzio il mistero. Bisogna leggere gli avvenimenti alla luce della fede. Aprirsi progressivamente (e tante volte anche faticosamente, tra molte incertezze e tanti dubbi) alla rivelazione e alla comprensione. I “valori” vanno prima di tutto custoditi nel profondo dell’anima, riscaldati da un cuore. Senza una fase di raccoglimento, di meditazione, di interiorità non ci può essere racconto, annuncio. In fondo sia il “riferire” dei pastori che il “serbare in cuore” di Maria fanno parte di una stessa esigenza missionaria. Si tratta di essere attivi nella contemplazione e contemplativi nell’azione. Contempl-attivi, secondo una formula di alcuni anni fa.

Ma c’è un’altra cosa. Maria che offre il Bambino all’adorazione dei pastori è una patena. La Vergine ha letteralmente “messo al mondo” il proprio Figlio. Perché lo ha donato al mondo, agli uomini, ai legittimi destinatari. Maria nel presepe è ostensorio e patena. Compie una specie di liturgia eucaristica, ci dice, senza bisogno di parlare: “Questo è il mio Figlio che è per voi …”.

A Betlemme, ossia nella “casa del pane” (perché questo è il significato di Betlemme), Maria offre il proprio Figlio per la fame degli uomini.

Terza domenica

Dopo i pastori e Maria, un’altra statuina immancabile è quella di s. Giuseppe. Immancabile anche se la mettiamo sempre in un angolino della grotta, un po’ in fondo e un po’ in disparte, dove avanza un posticino. Ma non penso che questo gli dispiaccia. In fondo tutta la sua vita è stata all’insegna del nascondimento. La sua azione è poco appariscente, e anche la sua paternità è all’insegna della discrezione e del riserbo.

Di fronte all’annuncio dell’angelo, che non fornisce spiegazioni esaurienti, lui ubbidisce, accetta una realtà misteriosa (e anche tormentosa) nella propria vita, non rifiuta il mistero. Noi vorremmo sempre tutto chiaro, avere una soluzione convincente a qualsiasi problema, una risposta sempre chiara a ogni dubbio. Ragioniamo, discutiamo, chiariamo, e solo poi facciamo (ma tante volte ci accontentiamo di dire). Proprio l’opposto di Giuseppe. Lui prima fa e poi, eventualmente capisce. Noi invece volgiamo prima capire e poi eventualmente fare.

Anche il suo mestiere, falegname dice la tradizione, in realtà a quel tempo era un po’ il tuttofare della comunità, colui che aggiustava, riparava, sistemava ogni cosa, mobili, utensili, case. Anche noi dovremmo imparare l’arte di Giuseppe. Dopo gli incidenti, gli scontri, le liti, quando qualcosa dentro si rompe o si blocca nel nostro rapporto con gli altri, dovremmo avere la pazienza e la delicatezza di riparare i guasti, tentare di rimediare agli inconvenienti, cercare di ricucire, rimettere insieme. Soprattutto dovremo resistere alla tentazione di fare come si usa oggi con le cose che non funzionano bene: buttare via. Dovremmo resistere alla tentazione di gettare le persone, scartarle, ignorarle, dichiarare che non c’è più niente da fare.

Ma soprattutto nel mettere nel presepe la statuina di Giuseppe dovremmo pregarlo perché aggiusti tutto ciò che non funziona. Non nel presepe, ma nella nostra vita di credenti, nella nostra vita di uomini.

Quarta domenica

Nel corso di questi anni nel nostro presepe ormai abbiamo messo tutte le statuine necessarie: le pecore, i pastori, il bue, l’asino, Maria e Giu­seppe, e infine il Bambino. A questo punto mi pare che manchino solo i Magi.

Belle figure queste. Vengono, portano dei doni, e poi se ne tornano a casa.

Innanzi tutto mi pare che siano proprio loro ad iniziare l’abitudine di scambiarsi regali per Natale. Il fatto che sia narrata nel vangelo ci dice che è una bella abitudine. Siamo noi che, in questi anni di consumismo sfrenato, l’abbiamo portata a degenerare. Abbiamo ridotto tutto ad un fatto di denaro. Sappiamo il prezzo delle cose, ma non riusciamo a sapere quanto valgono.

E ci lasciamo talmente prendere da questa ansia di “dover fare” i regali, che dimentichiamo che il regalo più grande è quello che ci viene fatto. Anche se, come i Magi, riuscissimo a regalare “oro, incenso e mirra”, doni degni di un re, i nostri doni sarebbero ben miseri di fronte al dono che ci viene dato: Dio che si fa uomo, Dio stesso si fa dono per noi.

Forse almeno per una volta, davanti al presepe, davanti a Dio, dovremmo presentarci non con le mani piene, ma vuote, disposte solo all’accoglienza.

Ma anche il ritorno è indicativo. Matteo ci dice che “un’altra strada fecero ritorno al loro paese”. E questo è molto indicativo. Quando si incontra il Signore, si cambia strada. L’incontro con Dio ti cambia dentro. E quando sei cambiato dentro non hai più voglia di percorrere le solite strade, compiere le solite azioni.

Ma ci dice anche un’altra cosa. La conversione è un ritorno a casa. Alla vera casa, quella che il Signore ha preparato per noi.

Torna alla pagina principale