Ct 8,1-7

Ed eccoci arrivati anche quest’anno alla fine di nostri incontri. Dopo i precedenti incontri, questa sera incontriamo il vero protagonista del Ct. Non solo di questo libro, ma anche di tutta la Bibbia. Ma è anche il vero ed unico protagonista della nostra vita. La mancanza di cibo o di acqua uccide il nostro corpo, ma la mancanza d’amore uccide la nostra vita. Senza amore, senza amare, siamo morti, siamo morti dentro, siamo dei cadaveri che camminano. Pensateci bene, non saremo giudicati su quante Messe abbiamo assistito, su quante preghiere abbiamo recitato, su quanti rosari abbiamo sgranato, o su a quante GMG abbiamo partecipato. No! Saremo giudicati solo ed esclusivamente su quanto abbiamo amato (Mt 25,31-46).

Ma amare, anche se è la cosa più naturale, è anche la più difficile, richiede anche un tirocinio, una scuola, un apprendistato. Provate un po’ a pensare a questo fatto: tutti noi camminiamo facilmente, ma guardate un bambino che sforzi fa per imparare a farlo! Quante cadute e quanta fatica. Ma anche per noi non è sempre facile camminare, una salita ripida, un terreno scivoloso o molto accidentato, un forte vento e anche noi siamo in difficoltà.

Il racconto (Ct 8,1-7)

(LEI) 1 Oh se tu fossi un mio fratello, / allattato al seno di mia madre! / Trovandoti fuori ti potrei baciare / e nessuno potrebbe disprezzarmi. / 2 Ti condurrei, ti introdurrei nella casa di mia madre; / m’insegneresti l’arte dell’amore. / Ti farei bere vino aromatico, / del succo del mio melograno.

3 La sua sinistra è sotto il mio capo / e la sua destra mi abbraccia.

4 Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, / non destate, non scuotete dal sonno l’amato, / finché non lo voglia.

(CORO) 5 Chi è colei che sale dal deserto, / appoggiata al suo diletto?

(LEI) Sotto il melo ti ho svegliato; / là, dove ti concepì tua madre, / là, dove la tua genitrice ti partorì.6 Mettimi come sigillo sul tuo cuore, / come sigillo sul tuo braccio; / perché forte come la morte è l’amore, / tenace come gli inferi è la passione: / le sue vampe son vampe di fuoco, / una fiamma del Signore! / 7 Le grandi acque non possono spegnere l’amore / né i fiumi travolgerlo. / Se uno desse tutte le ricchezze della sua casa / in cambio dell’amore, non ne avrebbe che dispregio.

Il commento

L’inizio di questo capitolo sembra esprimere con intensità la reciproca sete di amore che le circostanze esterne impediscono di saziare completamente. Infatti le rigide convenzioni orientali impedivano la spontaneità delle effusioni anche tra gli sposi quando erano in pubblico o in presenza di estranei. La donna allora si abbandona ad una specie di sogno: se il suo uomo fosse un suo fratello, se appartenesse al suo stesso clan, lei potrebbe baciarlo anche quando lo incontrasse per le strade della città, e nessuno malignerebbe. Infatti solo le prostitute baciavano i “non parenti” per strada, vedi Pro 7, 11.13.

Il sogno della sposa continua e immagina di accompagnare lo sposo alla casa della madre per poter vivere la loro storia d’amore. Le parole del v. 2 presentano nel testo originale varie incertezze, ma sono comunque tutte ricamate di varie allusioni amorose. La donna si offre al suo uomo: “m’insegneresti l’arte dell’amore”. Ma la donna sa che anche il suo sposo ha molto da ricevere da lei, cioè l’ebbrezza e la bellezza del corpo femminile. Il suo corpo è come vino che eccita e stordisce, come il succo della melagrana che deve essere gustato subito, prima che inacidisca, un succo che inebria ed esalta.

Il sogno si chiude con uno stupendo ritratto che era già stato presentato in 2,6-7 e 3,5: i due abbracciati con lo sposo assopito e abbracciato al corpo della sposa. La sinistra dell’uomo è sotto il capo della sua donna mentre la destra la abbraccia in un gesto che esprime tenerezza, affetto, delicatezza, ma anche possesso, protezione, attrattiva fisica. Questo abbandono totale porta dolcemente l’amato al sonno. La donna contempla piena di tenerezza, quasi materna, il suo amore che si è addormentato tra le sue braccia. E lancia un appello poetico per avere silenzio e pace. Bisogna notare che la donna chiama il suo uomo col termine astratto “ha’ahabah”, l’“Amore” per eccellenza. L’Amore ora si fa persona, e quindi la persona è espressione incarnata dell’Amore eterno e infinito.

Il piccolo stacco del coro, con la sua domanda, crea un’atmosfera di stupore. Da lontano, nel deserto, nella solitudine e nella pace, appare una coppia: la donna appoggia la testa, o il braccio, alla spalla dell’amato. Sono poche parole, ma vivide come un’istantanea. Due innamorati ritratti nella tenerezza del reciproco abbandonarsi.

C’è chi ha visto in questa immagine un riferimento alla marcia degli ebrei dall’esilio babilonese verso Gerusalemme in mezzo al deserto che sta fiorendo (cfr. Is 35; 45,18-20).

I due avanzano verso il coro, e la donna inizia uno stupendo canto in tre strofe. Ci troviamo di fronte in un certo senso all’apice del Ct, al suo epilogo ideale. Nell’originale ebraico sono in tutto 48 parole, compresi avverbi e segni dei casi, ma quelle fondamentali sono meno di venti!!! Eppure è un vero e proprio gioiello della letteratura di tutti i tempi. È un inno alla “divinità” dell’amore. Infatti solo qui, per la prima e l’unica volta nel Ct compare il nome di Jahweh. Viene celebrata la potenza e la gioia dell’amore, la realtà più grande che l’uomo possegga. Ma proprio il richiamo al Signore, anche se del tutto marginale, lo rende anche un’esaltazione dell’unità: nell’al di qua dell’amore umano si gusta la primizia della vita di Dio stesso. È un’irruzione dell’eterno nella storia e un aprirsi della storia all’eterno.

Da subito la donna riesce ad esprimere in poche parole un’intuizione molto profonda. Al centro c’è un melo, albero che già in 2,3 veniva presentato come albero dell’amore: cioè lo sposo si è addormentato all’ombra dell’amore. E proprio là la donna lo risveglia. In quel momento di tenerezza lei sente di essere, per il suo uomo, non solo sposa e sorella, ma anche “madre”. L’amato è pienamente persona non solo perché c’è stata una donna che l’ha partorito, ma anche perché c’è una sposa che l’ha generato ad una nuova vita.

Il luogo dell’amore (“sotto il melo”) viene a coincidere spiritualmente col luogo della nascita dello sposo (“là, dove ti concepì tua madre”). È come se la donna dicesse: “Io col mio amore ti sveglio ad una nuova vita. Tu stai per nascere di nuovo nel luogo dove ti concepì tua madre, cioè non nella tua casa, ma nell’abbraccio dell’amore”.

Col v. 6 il canto della donna sale ancora di tono e di intensità. La donna vuole esprimere la donazione totale che sigilla per sempre l’amore. Ed è per questo che usa il simbolo del sigillo, esprimendo un desiderio di vicinanza e di unità.

Infatti il sigillo (di metallo o di pietra) era usato per autenticare i documenti (cfr. Es 28,11) e per farsi identificare. Era quindi portato sempre con sé, o al dito o legato ad una catenella e pendente dal collo, così da cadere sul cuore. Il sigillo era custodito gelosamente perché in pratica definiva la persona. C’è qui anche un parallelo con la Legge, la Torah, i cui comandamenti dovevano essere legati “alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi” (Dt 6,8, ma anche Pr 6,21; 7,3). La sposa è quindi lo stesso “io” dello sposo, è la sua “carta d’identità”, la sua stessa persona, la “stessa carne” (Gen 2,23). La sposa vuole che l’intelligenza, la volontà, l’affettività, la personalità intera dell’uno si trasfondano all’altra in una piena simbiosi. È lo stesso traguardo che, a proposito dell’esperienza d’amore per il Cristo farà esclamare a Paolo: “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).

Questa reciproca appartenenza non può essere infranta neppure da un avversario potente, neppure dall’arcinemico per eccellenza: la morte. Nella Bibbia gli inferi, l’anti-mondo regno della morte, è spesso descritto come una bocca che non si sazia mai, che non dice mai “basta!” (cfr. Pr 30,15). Ma l’amore con la sua passione ardente ed esclusiva riesce a sopravvivere.

Le sue fiamme non sono esili e facilmente estinguibili. Le sue sono fiamme che appiccano fuochi colossali, sono fulmini che la divinità scaglia sulla terra. Sono “fiamme di Jahweh”, una fiamma suprema e invincibile, simile a quella del roveto ardente sull’Horeb, il monte di Dio, che ardeva ma non consumava il roveto (Es 3,2). C’è in quest’unica citazione di Dio all’interno del Ct una forte sottolineatura: l’amore partecipa in qualche modo della forza stessa di Dio, essendo di sua natura “vita”, come Dio che è per eccellenza il Vivente.

Il simbolo del fuoco suscita, per antitesi, quello dell’acqua. Nell’A.T. per 28 volte le “grandi acque” sono il simbolo del caos, del nulla primordiale, ancora più incontenibile del fuoco che da esse è spento: basti pensare al diluvio (Gen 6-8). Però l’amore riesce a resistere ad ogni avversario. È come la roccia contro cui si infrange la rabbia dei fiumi gonfi per le piogge (Sal 46(45)). Però per i profeti, le grandi acque sono anche il simbolo delle potenze militari del tempo (egiziani = Nilo; babilonesi = Eufrate) che incombevano su Israele (Is 17,13; 43,16; Ger 47,7-8; 51,55; Gb 38,8-11). Capite allora il messaggio sottinteso, al di là anche del senso letterale, nel v. 7a: le prove della storia, passate o future, gli incubi quotidiani e le disgrazie eccezionali non potranno mai dividere due che si amano. Entrambi passeranno attraverso tutti gli “inferni” e tutte le paludi del dolore, delle crisi, delle desolazioni della vita, conservando intatta la fiamma del loro amore, fiamma che non conosce tramonto. Viene in mente il celebre brano di Paolo quando celebra il suo amore per il Cristo: “Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? ... In tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore.” (Rm 8,35-39)

Anche se la seconda parte del v. 7 è una frase in tono minore, il tema però è sempre molto alto e intenso: quello della gratuità dell’amore. L’amore non può essere considerato come un bene economico, un oggetto di scambio con una sua quotazione. Purtroppo questo a volte succede, ma è solo una vergogna, umilia la persona, svilisce la sessualità umana, è solo una larva dell’amore. Chi vuole “comprare” l’amore in realtà compera solo un oggetto e umilia sé stesso e l’altra persona diventando un essere spregevole. L’amore non è un bene commerciabile perché è superiore ad ogni bene terrestre e ad ogni perla preziosa, proprio come la Bibbia dichiara a proposito della sapienza (Pr 3,15; 4,7; 8,11; Sap 7,8ss) e come dirà Gesù a proposito del Regno di Dio (Mt 13,44-46). L’amore è grazia, è dono, è vita, è libertà.

Messaggio per noi

Come sempre alcuni spunti per aiutarvi nella meditazione.....

M’insegneresti l’arte dell’amore” - Lo scopo della vita è imparare ad amare. Non vi è niente di più religioso al mondo dei nostri rapporti con gli altri, con tutti gli altri. Ce lo rivela il Vangelo, ma soprattutto la nostra esperienza: i momenti più preziosi della nostra vita non sono forse quelli in cui siamo stati in più stretta comunione con un altro? A volte penso che non ci sia niente di più bello che diffondere nella nostra civiltà la convinzione che in fondo vi è un solo ideale, che la sola ambizione umana è amare tutta la vita, amare per tutta la propria vita.

L’arte dell’amore” - Diceva Madre Teresa di Calcutta: “Non permettere che qualcuno venga a te e se ne vada più triste e infelice. Sii l’espressione della bontà d Dio”. Amare non è soltanto provare dei bei sentimenti: è donarsi, è dare sé stessi con gioia. Il contrario di amare non è odiare, ma cessare di amare, lasciare che il cuore sia spento, indifferente. Sbagliare, peccare, non è poi un gran male se si continua ad amare; ci si può correggere e migliorare.

Non destate, non scuotete dal sonno l’amato, finché non lo voglia” - Non sempre nella vita si ha lo stesso “passo”. Capita a volte che l’altro si “addormenti”, rimanga un po’ indietro. Allora è necessario anche rispettare i tempi dell’altro, dargli tempo di riprendersi. Non sempre si riesce a camminare mano nella mano, anzi tante volte c’è uno che precede e l’altro che segue. Sono cose che capitano ora all’uno, ora all’altro. E non sempre lo “spronare” è bene, a volte l’unica cosa da fare è attendere amorevolmente.

Là, dove ti concepì tua madre, là, dove la tua genitrice ti partorì” - Siamo nati dall’amore, e l’amore ci fa risorgere. L’esperienza di essere amati è esperienza di resurrezione. Quando amo una persona non vedo in lei ciò che era, né ciò che è, ma ciò che può diventare, vedo le sue possibilità, le sue capacità. Il meglio di noi può nascere solo da uno sguardo d’amore. Ce lo insegna Gesù: Zaccheo, Maria Maddalena, la Samaritana, Matteo il pubblicano sono riusciti ad essere il meglio di sé dopo aver incontrato una persona che li ha amati fino in fondo, e che, proprio per questo amore, è riuscita a vedere al di là di quello che vedevano gli altri.

Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio” - Come detto altre volte si sottolinea che lui è di lei, come lei è di lui. Nell’amore non va ricercato chi comanda, perché entrambi sono schiavi l’uno dell’altro, come dice Paolo: “Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo” (Ef 5,21). È l’obbedienza reciproca, anzi è l’obbedienza alle decisioni di coppia.

Le sue vampe son vampe di fuoco” - La sessualità, vissuta come relazione, non è solo l’ambito dove vivere secondo la morale, non riguarda solo il campo dei doveri, ma appartiene prima di tutto all’ambito dei mezzi che Dio ha dato agli uomini per santificarsi, per guarirsi; è via ascetica, è la via specifica della spiritualità coniugale. Se il gesto sacramentale proprio del presbitero è la Consacrazione, il gesto sacramentale proprio del matrimonio è il rapporto sessuale di reciproca donazione. Quando una coppia si dona reciprocamente compie un’azione sacra al pari di un prete che consacra il pane e il vino.

Una fiamma del Signore” - In una relazione d’amore si è sempre in tre: lui, lei, l’Amore (il Signore). Nel Ct Dio non è mai nominato a parte questo punto. Eppure è sempre stato presente e operante, anche se in modo invisibile. Il Ct canta Dio mentre canta l’amore, perché Dio è Amore. È Lui il vero protagonista.

Un’ultima considerazione:

La gioia nell’amore non è il fine, non va cercata come fine primario. Sarebbe un egocentrismo. La gioia nell’amore è il frutto. Amo perché è giusto amare, anche se posso incontrare delle difficoltà. La gioia viene di conseguenza. L’unico fine dell’amore è l’amore.

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